Oman, l’anti-Dubai

Che il sultano dell’Oman sia un uomo raffinato è sicuro. Ama i fiori e davanti al suo palazzo a Muscat, c’è sempre una squadra di pachistani indaffarata a sistemare le aiuole e a lucidare i marmi del lastricato, gli ottoni dei cancelli. Lo si capisce anche dall’impronta urbanistica che ha dato alla capitale che è cresciuta da quando sul trono è salito lui, Qaboos Bin Said, dopo aver garbatamente deposto il padre, decisamente meno illuminato nell’amministrazione. E da più di quarant’anni, esattamente dal 23 luglio 1970, il sultano giorno dopo giorno ha trasformato un regno medievale in un regno moderno, aperto, meno integralista di qualunque altro emirato confinante. Ma anche lui se l’è vista brutta durante la scorsa primavera araba, anche se in Oman la violenza delle proteste non ha mai superato il livello di guardia. Comunque, per rimettere pace e tranquillizzare gli animi aveva promesso una serie di riforme, la più importante delle quali è l’attribuzione del pieno potere legislativo al Consiglio di Consultazione che si rinnova con le elezioni del 15 ottobre 2011. E questa volta, per votare, si sono registrati 525 mila cittadini, il 30% in più dell’ultima volta nel 2007.

Lentamente il sultano, che ha 70 anni e non ha eredi, sta cambiando il paese attraverso una modernizzazione della tradizione. Niente gare al rialzo di grattacieli e niente appalti ad archistar, come a Dubai e Abu Dhabi. Le opere pubbliche si progettano in casa e le finanzia lui; nel 2001 ha regalato ai cittadini la Grande Moschea, tutta marmi tirati a lucido e intagliati con gli arabeschi classici disegnati e realizzati al computer. La moschea degli uomini, con un lampadario in oro e cristallo da 1.200 lampadine e un tappeto persiano tutto d’un pezzo (61×71 metri, 22 tonnellate) annodato a mano; la moschea delle donne invece è più piccola e spoglia. Come al solito, penso. Anche se l’Oman è stato il primo emirato a concedere il voto alle donne nel 1994. Mi consolo, perché nella biblioteca del gigantesco complesso ci sono solo studentesse anche se in nero dalla testa ai piedi (ma viso e mani scoperte).

Qaboos Bin Said è anche un intellettuale, e investe sullo sviluppo e la conservazione della cultura dell’Oman e della sua apertura al mondo. Per questo ha voluto nella capitale anche un’Opera House che comincia la stagione il 12 ottobre. «È un evento importante, non solo perché è il primo teatro di questo genere in un paese arabo, dice la direttrice Iman Hindawi, ma anche perché dà alla capitale nuove prospettive come crocevia di artisti, orchestre e compagnie di balletto di tutto il mondo». Per cominciare, il sipario si alza sulle scene della Turandot di Giacomo Puccini, prodotto da Franco Zeffirelli con la regia di Placido Domingo. Ma a parte i nomi di richiamo, il primo cartellone porterà in Oman anche cori di voci bianche, con ragazzini che a quel punto conosceranno un paese così poco conosciuto. E come loro uno stuolo di musicisti, tecnici, truccatori, eccetera eccetera.

Anche se da noi si sa poco di questo sultanato, da qualche tempo se ne parla più spesso, e suscita curiosità. In Italia, l’Oman si è presentato ufficialmente come meta di viaggio alla scorsa Bit, nel febbraio 2011. Lo stand era affollatissimo. La motivazione potrebbe essere che il mondo arabo in questo momento non ha proprio l’immagine di un paradiso turistico. In Libia non si può più andare, in Egitto si ha paura di andare, in Yemen si spara, insomma meglio lasciar perdere… Una buona porzione del Medio Oriente e del Nord Africa sono sparite dalla carta geografica dei viaggi. E anche quando si potrebbe andare, si tituba per mille ragioni e paure.

Invece, in Oman, si può andare, senza incontrare quel rigore integralista che impongono altri sultanati. Certo non si può entrare in canottiera e pantaloncini in moschea, ma, se per questo, nemmeno nelle nostre chiese si può. Nel deserto invece, si va come si vuole, nessuno dice niente, anche perché non c’è nessuno. Ma nessuno nessuno. Il bello dell’Oman è questo: gli spazi, senza anima viva e senza case, proprio senza niente, vuoti. Un dato aiuta a capire meglio: su un territorio poco più piccolo dell’Italia, vivono 2 milioni di omaniti, e 800 mila stranieri.

Le montagne dell’Hajar s’impennano, i 4×4 arrancano ma non mollano. «Dobbiamo arrivare lassù entro le cinque», dice Levi, l’organizzatore del mio viaggio «così riusciamo a vedere un canyon profondo 1000 metri». Il paesaggio è sempre più brullo, scuro, pietroso. Il resort è a poche centinaia di metri. Il posto: definirlo minimalista è un complimento. Una stanza grande, con un bagno maleodorante e una doccia che non funziona, un tavolo senza sedie, un divano sgangherato e il letto preparato con lenzuola spaiate, ma pulitissimo. Dietro tendone rosso che copre la porta finestra, c’è uno spettacolo troppo bello: una landa piatta, nera che precipita a strapiombo sullo sfondo di una dorsale nodosa che affiora dove essa invece sparisce. Il resort è sistemato su un cocuzzolo piatto, quasi lo occupa tutto, così girando su se stessi sembra di essere nell’ultimo minuscolo baluardo di civiltà. Intorno solo montagne e cielo.

Piero, la mia guida, mi racconta perché vive bene in Oman. Non se lo sogna neppure di tornare in Italia. «Perché dovrei? Ho un lavoro, una casa stupenda e abbastanza grande per ospitare gli amici, e non si pagano tasse. Sono sette anni che ci abito, non in un compound per stranieri, tra la gente. Tutti i miei vicini sono omaniti. E poi, questo è un Paese prospero: quando è arrivato sul mercato il Porche Cayenne, qui ne hanno comprati subito 460. Solo per dire una delle vetture di lusso. Poi bisogna aggiungere le Lamborghini e le Ferrari che hanno concessionarie a Muscat». Ovvio, sarà per il petrolio. Infatti lo è, ma beni di lusso e altri sfarzi a parte, bene tutti e le risorse vengono investite sul welfare. «In Oman ci ospedali all’avanguardia e un sistema sociosanitario accessibile a tutti; tutto il Paese è un grande cantiere: si costruiscono strade, si fanno opere pubbliche e private che hanno trasformato il Paese. Non c’è da meravigliarsi che la gente adori Allah e, al secondo posto, il sultano. Oltre agli aneddoti memorabili – è lui quello che passa tra la folla lanciando dal finestrino carta moneta -, ci sono azioni più sostanziose. Dà un contributo di 500 rial (poco più di mille euro) al mese alle famiglie che vivono di attività tradizionali (allevamento e agricoltura) e per i 40 anni di regno, ha regalato ai dipendenti pubblici un mese di stipendio. Queste sono cose che la gente non dimentica». Populismo bell’e buono, ma la gente sembra contenta. Senz’altro più di quanto lo sono io di come vanno le cose nel mio paese.

La traversata delle Wahiba Sands è stata la mia prima volta nel deserto. Dicono che la prima volta è una specie di battesimo, perché poi quelle visioni e quelle sensazioni che hai provato te le porti dentro per sempre. Levi è stato il primo ad avventurarsi in questo mini deserto, quando ancora non si sapeva cosa ci fosse oltre il primo cordone di sabbia. «Quando sono arrivato nel 1999, ho dovuto far coraggio alla mia guida omanita che riteneva queste dune invalicabili. Gli dicevo, dài dài, proviamo di qui, giriamo di lì. E così abbiamo aperto la strada che oggi fanno tutti, dai beduini per andare a fare la spesa e portare i bambini a scuola, ai turisti per arrivare sull’Oceano Indiano». Questo posto è speciale, dà l’illusione di essere il primo e l’ultimo uomo a passare, dove non ci sono costruzioni e dove, con molta probabilità, non potranno essercene mai. In effetti dall’alto delle dorsali di sabbia bianca non si vede nulla per decine di chilometri e per giorni, a parte qualche allevamento di cammelli e pochi accampamenti di beduini con le capanne, gabbie di ferro coperte sì e no da canne di palma, dove però c’è sempre una tazza di caffè e un piatto di datteri. Di sera si monta il campo, la mattina si smonta per cercare un altro bivacco, con altri colori: la sabbia rossa diventa d’oro, poi quarzo, poi conchiglie rosa in riva al mare.

«Solo qui, si può trovare la pace della vera solitudine», sostiene Wilfred Thesiger, il terzo esploratore ad avventurarsi nel 1945 nel deserto Rub el-Khali, il più grande del mondo, che dall’Arabia Saudita sconfina fino all’Oman. Lui che nel deserto, il vero deserto, passò quattro anni, sapeva bene di cosa parlava: «Questo era infatti il vero deserto dove le differenze di razza e di colore, di ricchezza e di posizione sociale sono pressoché senza senso; dove il manto dell’apparenza viene strappato e le verità fondamentali vengono alla luce. Era un luogo dove gli uomini si tengono stretti gli uni agli altri. Qui essere soli voleva dire sentire immediatamente il peso della paura, poiché la nudità di questa terra era più terrificante della foresta più oscura nel pieno della notte. Nella spietata luce del giorno eravamo altrettanto insignificanti degli scarafaggi che vedevo affaccendarsi sulla sabbia. Solo nell’amichevole oscurità potevamo prendere a prestito pochi metri quadrati di deserto e sentirci a casa nel perimetro della luce del fuoco, mentre sopra di noi il familiare disporsi delle stelle velava il tremendo mistero dello spazio» (Sabbie Arabe, editore  Neri Pozza). L’inglese Thesiger era uno dei pochissimi occidentali in grado di resistere come uno sceicco nel deserto e di cavalcare e sparare in corsa come un beduino. Viaggiando coi nomadi e facendo la loro vita, aveva elaborato una teoria riassumibile in motto: “The harder the life, the finer the person”. Più dura è la vita, migliore è la persona. Io invece ero in viaggio di piacere per pochi giorni in un mondo a 5000 chilometri di distanza che andrebbe conosciuto meglio. Una settimana non basta, due non ce le ho.

Certo è che quando la macchina si insabbia, i pensieri si mettono da parte, e non resta rimboccarsi le maniche per tirarsi fuori dai guai. Poca filosofia e tanto olio di gomito sono un’ottima scuola anche per pochi giorni. E c’è un’altra cosa. Nel deserto di solito non si va da soli, perché se succede un guasto all’auto o qualunque altro problema, bisogna che ci sia qualcuno per  dare soccorso. In generale, si parte con almeno due macchine e 6-8 persone. Non è poi male, la spedizione e il nulla accorciano i tempi di conoscenza. Nel deserto si diventa subito amici o nemici, anche se poi, quando c’è da spingere il fuoristrada o da montare una tenda col vento forte, si fa squadra.

Dopo il deserto, c’è la Baia di Khaluf, e ci sono i villaggi dei pescatori. Sembra che l’occhio del sultano non approdi a quei lidi. I pescatori sono beduini, abitano in capanne fatte con le frasche delle palme lontane dal mare, ma vivono sulla spiaggia. Piedi nudi e pantaloni arrotolati ai polpacci. Quando arrivano i dhow dalla pesca li trainano sulla battigia con vecchi pick up che hanno trasformato in anfibi, ingrassati di petrolio per renderli impermeabili e proteggerli dalla ruggine. L’unica cosa che conta è il motore, per il resto sono rottami, coi sedili sfondati e i finestrini senza vetri. Gli uomini sbrigliano i pesci dalle reti e contrattano con i mercanti in abito lungo, in mano il cellulare e le chiavi della Toyota nuova di pacca. I bambini rimettono i pesci piccoli in acqua e cercano di far rinvenire quelli che non sono buoni per il mercato. Poi se li mangeranno i gabbiani, appostati a centinaia e pronti a beccarsi la preda. Non c’è una donna. Mai, o quasi. Saranno in casa. I villaggi dei pescatori sono fatiscenti come le prime ville sul mare, decadenti ancor prima di essere intonacate. Non c’è nemmeno la strada. La stanno costruendo ora, ma ce ne vuole prima che sia finita. L’asfalto ricomincia 200 chilometri più a nord, verso Sur, importante cantiere di imbarcazioni, dove lavorano operai del Bangladesh. Costruiscono dhow per i turisti di Dubai. Fanno buchi, piantano chiodi, piallano legni e con gli scarti fanno modellini da usare come soprammobili. Il cane del padrone è spossato, sdraiato a tappetino per terra. Ci sono 45° con l’igrometro al massimo.

Nella veranda dell’armatore c’era la moquette e c’erano grandi divani, dove il “rais” riceve gli ospiti e, caso raro, anche me, una donna!, che per di più viaggia sola. Deve suonare sconveniente a un omanita abituato a vedere solo le mogli, le figlie e le parenti più strette, e solo in casa. E io mi sentivo un po’ a disagio, anche se me lo hanno ripetuto mille volte che qui le donne possono viaggiare anche sole, senza alcuna preoccupazione. Mentre si versava il caffè al cardamomo nelle tazzine, capivo che parlavano di me, avevo le braccia e i capelli scoperti, pantaloni sopra le caviglie… Ci avrei tenuto che sapessero che sono sposata e ho una figlia, e che non ero lì per esibire la mia libertà. Anche se confronto è difficile, sentivo il bisogno di sottolineare che anche noi donne occidentali, a modo nostro, abbiamo un rigore. Magari sembriamo sfacciate, solo perché noi i sandali d’oro tacco dodici non li nascondiamo sotto l’abaya, da dove si notano ugualmente. Forse di più.

Un posto da non perdere in Oman
L’Oman è una destinazione poco turistica (chissà per quanto ancora?) e prevalentemente naturalistica, con ambienti molto diversi, aspri e solitari che, per essere raggiunti, richiedono qualche rinuncia al confort convenzionale. Quindi, tende senza bagno, bungalow spartani con toilette e docce in comune. Il mio villaggio preferito è nella zona di Ras al Hadd, vicino alla spiaggia dove tra agosto e novembre depongono le uova migliaia di tartarughe verdi. Si chiama Turtle Beach Resort, ha camere semplicissime, rivestite di stuoie dal pavimento alle pareti, lettini monacali, finestrelle minuscole protette solo da canne e una tendina, luci al neon e bagni condivisi. Sono disposte intorno a una piccola baia di sabbia e conchiglie bianche, le sdraio in legno dipinte d’azzurro cielo, gli ombrelloni in paglia. Il ristorante è costruito come un dhow: si mangia indiano (ma meno piccante dell’originale), si guarda l’Oceano, si ascolta musica dal vivo e, quando è festa, si balla. Non me ne sarei più andata via (tel. +968/255/40068, tbroman.com).

Sara Magro

Fa la giornalista di viaggi e scrive di turismo. Il suo sito è The Travel News