In morte del garantismo

La prima pagina dell’Unità che si compiace dell’arresto di un parlamentare del Pd, a questo punto, dovremmo appendercela in camera e rimirarla ogni mattina, così da capirlo una volta per tutte: abbiamo perso. Noi garantisti – garantisti veri, quattro gatti sputtanati che siamo – abbiamo perso e dobbiamo capacitarci che questo Paese non è cambiato, oppure è cambiato irrimediabilmente. Il caso di Fracantonio Genovese non è neppure molto significativo: il Pd l’aveva candidato già da indagato, è chiaro che sarebbe finita così, anche se certa disinvoltura – la gara di forca elettorale tra Renzi e Grillo – lascia comunque attoniti.

Abbiamo perso perché, come per altri casi, non c’è più in giro un cretino disposto a leggersi mezza carta, a farne una questione di merito, a giustificare l’esistenza di un’autorizzazione all’arresto che a questo punto tanto vale abolire. Riferiscono che i grillini, nella Giunta per le autorizzazioni a procedere, avessero già deciso prima ancora di iniziare. Riferiscono che qualche esponente del Pd, nondimeno, abbia votato a favore nonostante delle perplessità. Le domande erano le solite, e del resto, per capire se ci sia stato fumus persecutionis, occorre porsele: l’arresto di Genovese era davvero necessario per la prosecuzione delle indagini? L’arresto rispondeva ai requisiti per cui era stato richiesto? C’era pericolo di fuga o di inquinamento delle prove (eccetera) per un parlamentare che è semplicemente indagato e deve ancora essere processato? Non lo sappiamo, non è una domanda retorica, magari l’arresto ci stava tutto: resta che non ne abbiamo letto una riga, perché non gliene frega niente a nessuno, non se ne parla, tutto si muove in base a calcolini di piccolo commercio ed è prostituito al peggiore malanimo manettaro, con dei poveracci brufolosi che in Parlamento agitano manette e altri parlamentari che se ne fanno condizionare e, per non sbagliare, accettano che l’asticella della discussione sia ormai rasoterra.

Un tempo si pubblicava qualche carta, si faceva un’intervistina all’avvocato: ora più nulla. L’avanzare dei grillini e il retrocedere dei politici li ritrova tutti su un punto: che poi, dicevamo, è un punto d’arrivo, anzi, è un punto fermo dal quale non ci siamo mai mossi. E’ l’unico punto che ci riporta ancora e davvero a Tangentopoli. Dal 1992 a oggi, infatti, è andata così: ci sono state due Italie fintamente contrapposte – una garantista e una forcaiola – che hanno finto di fronteggiarsi e che hanno assolto o condannato secondo convenienza: ma alla fine era sempre lo stesso Paese, oscillante e indolente nelle sue parti in commedia, vanamente inseguito da un giornalismo opportunista e basculante che ha trasformato il giustizialista e il forcaiolo in due professioni.

Si è innocenti sino a sentenza definitiva? Trent’anni a dirlo, e non ci crede nessuno. Si è colpevoli dopo sentenza definitiva? Non ci crede nessuno. La custodia cautelare dev’essere l’extrema ratio? Figurarsi questo. Non si devono divulgare atti che sputtanano gratuitamente? E qui si ride. Ma non serve neanche parlar male dei giornalisti, sono in difficoltà anche loro, devono pur campare. Hanno impiegato quasi una settimana ad accorgersi che nell’inchiesta Expo i politici e i partiti praticamente non ci sono: e, se ci sono, per ora hanno il ruolo dei babbei sfruttati e compulsati da un gruppetto di affaristi che intascava mazzette rigorosamente per sè. E’ come se dei mazzettari professionisti avessero lasciato l’azienda e si fossero messi in proprio, col dettaglio che frattanto le aziende abbandonate sono fallite tutte: come i vecchi partiti, come quella politica che manca non perché sia virtuosa, ma perché non conta più nulla.

Primo Greganti, ventun anni fa, disse che rubava per sè e non per il partito, e non era vero: ora invece lo è, perché la «cupola» non alimentava il finanziamento illegale della politica, alimentava le proprie tasche; e i politici ne escono perlopiù gabbati, usati per promuovere carriere. Lo scandalo è sufficientemente grave da essere analizzato nel suo specifico, non servono riflessi tipo «Come prima, più di prima» (Corriere) o «Ora e sempre tangentopoli» (Repubblica) con ridicole interviste al vecchio pool di Milano. Servirebbe chiedersi se le manette fossero tutte necessarie (quisquilie da garantisti) ma soprattutto chiedersi che accidenti c’entrino certe intercettazioni, quelle in cui vengono sputtanate persone che non c’entrano niente su questioni che non c’entrano niente. Ma pare che, tra gli appalti pilotati, ci sia anche quello della libera stampa a Beppe Grillo.

Ci sono giornalisti che forse Tangentopoli la rimpiangono, del resto segnò la loro giovinezza, la travolgente eccitazione di un periodo rivoluzionario, fatto di personaggi straordinari, copie alle stelle, carriere in decollo: vien da pensarlo. Facciamo due esempi: 1) Il pm di Reggio Calabria voleva contestare a Scajola e agli altri arrestati anche l’aggravante mafiosa, ma il gip l’ha negata perché mancavano prove e anche solo indizi. L’ha confermato lo stesso pm su Libero di sabato, dunque era noto. Bene, ecco l’apertura di prima pagina del Corriere di domenica: «Scajola indagato per mafia»; testo di prima pagina: «La stessa ipotesi di reato sarà contestata a tutte le persone sospettate di aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena». Un falso. Una notizia manipolata, nella migliore delle ipotesi. 2) Secondo esempio. Questa è l’apertura di prima pagina del Messaggero di domenica: «Appalto Expo, c’è la ‘ndrangheta»; sottotitolo: «I pm di Milano: legami tra gli arrestati e le cosche»; testo di prima pagina: «La cupola di Frigerio, Greganti e Grillo avrebbe avuto legami anche con la ‘ndrangheta». Ah sì? E allora perché l’aggravante non è stata neppure contestata? Risposta: perché non importa, l’aggravante mafiosa ormai è come una spezia per insaporire inchieste e resoconti. E poi scrivere, una tantum: uh, torna tangentopoli, magari.

Non serve aggiungere che il prezzo di tutto questo è stato un Paese sotto tutela giudiziaria: sicché, ora, basta che la magistratura chieda un arresto e questo deve essere concesso, fine. Non se ne può neanche parlare, altrimenti sei complice dei mafiosi (mafia=Stato) e poi arriva Grillo che fa un filmato in cui cerca il latitante nel bosco, con il cane. Il video di Grillo con il cane: eccolo il pararametro politico e giurisprudenziale, coi parlamentari che – raccontava La Stampa di ieri – mentre si votava l’arresto di Genovese maneggiavano l’iPad, o leggevano sul computer, o chiacchieravano col vicino. Questo accadeva nel Palazzo. Mentre fuori, intanto, in quella società civile che politici e giornalisti avrebbero dovuto contribuire a plasmare, scivolava fuori la notizia che avevano assolto un’altra volta le maestre di Rignano Flaminio: quelle che ovviamente finirono dentro a loro volta, tra l’orrore generale. Forza, trovate un talkshow che questa sera ne parlerà.

(Da Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera