Il cinema della nostra infanzia

Perché abbiamo sempre più bisogno di luoghi d’aggregazione come i cinema, e perché quando uno viene chiuso non è retorica dire che è una perdita

Il Modernissimo è uno dei pochi cinema del centro di Napoli; è probabilmente il più frequentato dai ragazzi ed è un vero e proprio rifugio per i cinefili – la sua programmazione è una programmazione fitta di film d’epoca, restaurati, di film d’autore (che trovano una scarsissima diffusione, in Italia) e di riproposizioni, in determinati giorni, di classici. Al Modernissimo ci si sente come a casa, e immagino che la stessa cosa l’avrà provata anche qualche milanese all’Apollo, il cinema che rischia di chiudere per fare spazio a un Apple Store.

Al Modernissimo vado appena ho un po’ di tempo libero – ultimamente, è sempre di meno; ma ho piacere a incontrare chi ci lavora e chi lo frequenta. Per un periodo, anzi, ho fatto anche da maschera: volevo capire come funzionasse il cinema – la sala, non l’arte – dietro le quinte, come i film venissero montati in cabina di regia (non l’ho mai visto: il digitale è arrivato prima), come approcciare il pubblico in fila (che posti volete? Vi accompagno? Volete qualcosa da mangiare o da bere?). Finivo tardi, ogni sera. Lavoravo almeno tre volte a settimana, dalle 16 del pomeriggio fino a chiusura. Avrò visto il finale dello stesso film decine e decine di volte; i pop-corn, a un certo punto, mi sono venuti a noia – basta l’odore, oggi, per farmi storcere il naso. E ho capito che molta della magia che attribuiamo al cinema – e che Woody Allen, come ha detto in un’intervista a L’Espresso, crede sia condannata a sparire – è solo una nostra idea. Come quando ci piace una ragazza o un ragazzo e finiamo per credere che siano qualcosa di più di chi in realtà sono.

Eppure il cinema – di nuovo la sala, non l’arte – non ha mai perso il suo fascino. Merito e colpa, di nuovo, del Modernissimo. Come, per un milanese, sarà merito e colpa dell’Apollo. Solo un anno fa, al piano superiore del cinema, prendeva vita L’Arte della Felicità di Alessandro Rak, il primo film di animazione italiana dopo tanto tempo (forse dai tempi di Bruno Bozzetto, addirittura). Al Modernissimo hanno parlato attori, registi, produttori: c’è stato Sorrentino durante la promozione de La giovinezza, fotografato insieme ai ragazzi, a farsi selfie e a sorridere sulle scale di ingresso. E c’è stato Nanni Moretti, che si è seduto con il pubblico e si è raccontato.
È questo il Cinema: la comunità, il gruppo, il posto. Ed è in questa ottica – non coincidente con il Modernissimo, ma con un’idea più ampia e a modo suo sovrapponibile al Modernissimo – che dovremmo pensare alle sale nelle nostre città. Con un’idea un po’ poetica, un po’ romantica, à la “Nuovo cinema paradiso” di Tornatore.

Un cinema – e qui torno a parlare del luogo fisico – è un luogo di aggregazione, di passione e di contatto. Vittorio Zambardino stamattina ha scritto un bel pezzo, su Wired, sul perché per un periodo lascerà facebook: perché una pausa ogni tanto ci vuole, perché certe dinamiche, certe cose, vanno messe da parte per un po’; e perché il gruppo – la comunità – digitale non deve diventare la sola scelta, ma tornare ad essere una delle tante. Ci siamo solo noi, “e siamo brutti”. C’è pure Michele Serra, con “Ognuno Potrebbe”, il suo nuovo libro, che torna a parlare dell’importanza del materiale – e noi, del contatto con la realtà, abbiamo bisogno.
Non è esorcismo becero verso il progresso, lo streaming, gli schermi che rimpiccioliscono e i format che, sempre più definiti, ci seguono ovunque, su smartphone o iPad (anzi, al contrario); è banalissimo – e retorico – bisogno di un contatto con la realtà. Per comprendere ancora meglio quello che il digitale, l’altra parte, l’altro mondo, ci offre. È educazione, non diseducazione. È integrazione, non razzismo culturale. E i cinema, come i teatri e le biblioteche, come ogni altro luogo di aggregazione, sono questo: un’ancora.

Ai cinema, andiamo per vedere i film e non solo: andiamo per pensare, provare, per vivere una vita che non è la nostra. Come in un libro, ma più stringato e ritmato, più ossessivo e più – può succedere – coinvolgente.
Digitale non è sinonimo di irreale, questo dobbiamo capirlo; ma è una sua evoluzione, un’evoluzione difficile da capire per chi non è nato nell’epoca di internet e con i computer ha dovuto imparare a convivere. E digitale non può essere nemmeno l’unico modo di vivere il mondo e la vita: non è il digitale che ci restituirà la nostra capacità di capire, di provare, di essere – l’empatia è una merce rara, di questi tempi. Sono i cinema – lo ripeto – e tutti i posti di cultura che possono aiutarci in questo. A riappropriarci di noi stessi. Suona paradossale e lo so: per tornare con i piedi per terra, dobbiamo tornare a guardare film, a immaginare, a vivere non solo di mi piace e condividi; ma pure di opinioni e impressioni.

Un cinema che chiude non è solo una sala che non manderà più film; è una finestra che non affaccerà più su quel cortile, è la ragazza che abbiamo conosciuto a fine proiezione, dopo aver rivisto Fellini, e che ci ha sorriso in quel modo così bello, e che non troveremo più; è la retorica – quella buona, quella utile, quella che andrebbe insegnata a scuola – che non ci farà più da sostegno. Un cinema non è solo la pellicola, il film, le immagini; un cinema è un’esperienza a 360°. Che a Napoli si chiama Modernissimo e che a Milano si chiama Apollo.

Gianmaria Tammaro

Napoletano convinto dal '91. Scrive di cinema, serie tv e fumetti. Gli piace Bill Murray. Il suo film preferito è Ricomincio da tre.