Michele Serra, la lattuga e il berlusconismo

Questo singolare diagramma è stato elaborato da Robert Fogel (premio Nobel per l’Economia nel 1993). Individua la crescita della popolazione in rapporto ad alcuni punti di snodo tecnologico. Parte da lontano, 9 mila anni fa, e come si vede, per millenni, nonostante non siano mancate innovazioni tecnologiche, è accaduto poco, insomma, una inesausta linea orizzontale.

Finchè a partire dal XX secolo la linea si impenna. Il grafico è tratto dal libro “Fuga dalla fame” (edizione Vita e Pensiero) e apre il capitolo secondo, intitolato, appunto: perché il XX secolo è stato così straordinario. La suddetta crescita non era programmata, né disegnata preventivamente da qualcuno. In sostanza, un variopinto ceto sociale – ingegneri, medici, fisici, matematici, chimici, agronomi, biologi, informatici, meccanici e altre persone curiose, ambiziose, metodiche, spinte da varie ossessioni conoscitive – ha contribuito alla realizzazione di scoperte e innovazioni. Le applicazioni tecnologiche, poi, ci hanno portato fin qui, dove oggi possiamo dividere i nostri sentimenti tra la cupezza e l’allegria.

Perché, in effetti, bisogna dire, per correttezza, che al suddetto diagramma ne andrebbe aggiunto un altro.
Sì, è vero, alcuni parametri sono in costante ascesa. Nel corso degli ultimi 300 anni l’Homo sapiens, in ragione di un’evoluzione combinata, fisica e tecnologica, ha aumentato la propria corporatura di oltre il 50%, e la propria vita media di oltre il 100%: sembra incredibile ma l’aspettativa di vita in Inghilterra, prima della rivoluzione industriale, era di 30 anni, ora ci avviamo verso gli 80.
Migliore alimentazione, corporatura più forte, disponibilità di vitamine, hanno rafforzato la resistenza alle malattie nonché l’efficienza degli organi vitali del corpo: alcune malattie, quelle infettive soprattutto, sono diminuite; altre, per esempio le depressioni, sono in aumento.
È migliorato anche l’effetto Flynn, che misura il Q.I.. Le condizioni di vita delle modernità, sostiene Flynn – famiglie meno numerose nelle quali i bambini possono frequentare le scuole, interagire con genitori istruiti e disponibili al dialogo – hanno incrementato nel corso del Novecento un’intelligenza non più utilitaristica e legata all’esperienza diretta ma fondata sull’astrazione e sulla capacità di ragionare ipoteticamente. In fondo se chiedevate a mio nonno che cosa avevano in comune il cane e il coniglio, mica rispondeva come Piero Angela: “entrambi sono mammiferi” ma: “il cane serve a prendere il coniglio”:

Il secondo diagramma, invece, non ispira ottimismo. Rappresenta l’andamento delle risorse disponibili. Ebbene, se l’aspettativa di vita e tutto quello che comporta (qualità della vita, eccetera) aumentano, la linea che individua le risorse scende: se non in picchiata, poco ci manca.
Niente: la storia non procede in linea retta e spesso il futuro si adombra sul più bello, eppure non abbiamo altre possibilità, se non quelle di affrontare il mondo attraverso conoscenze sempre più estese e integrate, in fondo, ogni nostro gesto è un prodotto culturale e gli strumenti cambiano in fretta, così, ci capiti, un po’ sperduti, di osservare il mondo su un gradino evolutivo diverso da quello su cui sedeva, per esempio, mio nonno (buonanima), solo 40 anni fa .
Tuttavia, se la cultura conta, e testardamente penso che conti eccome, dobbiamo ammettere che dall’alto di questa linea ascendente il mondo è molto complicato, e che gli intellettuali, ai quali sono affidate le formazioni delle nostre opinioni – necessarie quest’ultime per prendere decisioni – bene, questi intellettuali (in senso lato) potranno essere efficaci se accetteranno il confronto con altri intellettuali e se sapranno maneggiare – o almeno se impareranno a distinguere – altri strumenti conoscitivi.

“Tra la zappa e il diserbante chimico venduto in simbosi con la semente ogm c’è la stessa differenza che corre tra la fionda e la bomba atomica. Entrambe sono armi, ma il loro potere di modificare l’ambiente è incomparabile. È vero che l’ambiente agricolo, è dai suoi albori, prodotto dalla manipolazione umana. Ma una manipolazione in grado di cancellare da enormi estensioni di terreno ogni forma di vita vegetale per far crescere la sola specie (ogm) immune al diserbante (….) infligge una trauma così definitivo e repentino all’ambiente da suscitare, se permettete, almeno qualche perplessità”.
È Michele Serra che scrive, sul Venerdì di Repubblica, 5 ottobre 2012, in risposta a una polemica suscitata da una sua precedente rubrica.
Michele Serra è un intellettuale, anzi un opinion maker a tutti gli effetti. La sua affermazione tuttavia non mi convince (e dire che 4 volte su 5, su altri temi, Serra mi convince), non la trovo precisa e usa nel costrutto paragoni non appropriati. Trovo poi che sia il frutto di un certo modus vivendi: insomma siamo abituati a godere dei vantaggi della modernità ma poco interessati a cercare rimedi efficaci (cioè tecnologici) ai problemi che la stessa modernità ci pone.

Ma non voglio apparire così sfrontato da dare una lezione di coltivazioni erbacee a Serra, ci mancherebbe, quindi facciamo che suddetta frase l’abbia detta io, perché di sicuro l’avrò detta o rischierò di dirla in futuro, momenti di crisi e scoramento capitano a tutti, ed è giusto così e soprattutto sono di sinistra. Però proviamo con un esperimento mentale: non più spettatori di un mondo malsano che distrugge la biodiversità, ma comuni agricoltori, proprietari di molti ettari di terreno. Vogliamo coltivare la soia, mais, orzo, grano. Come si fa?
Il primo problema sarà quello di pulire il campo dalle probabili infestanti. Non è una mia opinione. Ma il frutto di esperienze millenarie. Il controllo delle infestanti in una coltura (impropriamente detto lotta alle malerbe) è uno dei pilastri dell’agronomia. Una maggiore disponibilità di cibo dipende dall’esito di questa lotta.
È davvero necessario togliere di mezzo le infestanti? Facciamo controprova, falsifichiamo l’ipotesi. Osserviamo quegli stati africani che non hanno la bomba atomica, cioè il diserbante. Sono paesi che praticano agricoltura biologica, e forzatamente, quindi, niente o pochissima chimica. Bene: gli agricoltori di questi paesi subiscono pesanti infestazioni e la produzione è bassa. Le normali pratiche agronomiche, come le rotazioni, sono certo necessarie ma purtroppo non sufficienti. Tradotto, la bella e fatata parola biologico non basta a fermare l’imponderabile.

Le piante violace sono strighe, tra le peggiori malerbe, piante capaci di attaccarsi alle radici del mais, del sorgo e succhiarne la linfa. Quello che vedete è la differenza tra un campo trattato con erbicida e un altro non trattato. Scegliere di trattare un campo significa salvaguardare la produzione. Dunque la risposta conserva la sua buona dose di cinismo: sì, trattare è indispensabile. Che sfiga.

Abbiamo solo due modi per darci da fare in proposito – e date per scontate le buone pratiche agronomiche. O usiamo la fionda, cioè la zappa, o un erbicida. Che non è una bomba atomica, perché non riesce nemmeno per sogno a distruggere tutto, anzi, le infestanti sopravvivono e si adattano e sviluppano resistenze – è una legge di natura, in gergo si chiama corsa agli armamenti ed è una delle prove evidenti della teoria darwiniana.
Insomma, la bomba atomica, in questa foto, è proprio la striga. Il mais, come vedete, è scomparso, non c’è più.

Naturalmente in alcuni paesi africani si usa ancora la zappa e, naturalmente, sapete chi zappa? Le donne! Effetti di cultura seriamente maschilista. Dunque per le donne, niente laboratori di ricerca, ma vita nei campi. Ma in fondo, solo 60 anni fa in Italia, a strappare le erbacce dai campi di riso erano le mondine. Quindi…
Allora che facciamo? Ci tocca decidere: io e Serra andiamo a zappare per salvare le donne dai campi ed evitare il contagio della chimica “atomica”? Sentite, a costo di risultare poco bio e impopolare, devo dirvi subito e con franchezza la verità: non vengo, ho da fare e non c’ho proprio il fisico.
Tuttavia io e Serra nei momenti di sconforto vediamo anche giusto. Voglio dire, le atrazine, i principi chimici dei vecchi erbicidi, erano parecchio inquinanti. E non è sbagliato affermare che dosi eccessive scendono nelle falde acquifere. Non solo, siccome le erbe infestanti sono tante e molto invasive bisogna fare delle miscele di erbicidi e passare più volte sul campo. Quando parliamo dei costi della modernità di questo si tratta: di sprechi energetici e inquinamento. Ma siccome siamo lanciati e in ascesa, non possiamo rinunciare al corpo di conoscenze, non torneremo dall’iPhone ai tacs, così come non torneremo alla zappa.
Allora, i chimici hanno sviluppato erbicidi meno tossici, il glifosato è tra questi. Poi si è pensato di realizzare piante resistenti all’erbicida. Perché? Perché conviene, si risparmia. In Argentina, dove le colture sono estensive, ettari e ettari a perdita d’occhio, gli agricoltori non arano il terreno. L’aratura serve sia per rivoltare le zolle ed esporre i semi delle infestanti al sole – ma si tratta di migliaia di semi e non tutti muoiono – sia per smuovere il terreno.
Ma l’aratura ha i suoi costi, rimette in circolo CO2 e “consuma” il terreno: lo strato arabile, anno dopo anno, si riduce, e in maniera preoccupante. Poi si spreca gasolio ed energia. Allora gli agricoltori argentini seguono questa procedura: seminano nell’intercoltura una coltivazione di copertura, in questo modo le radici delle suddette piante rendono il terreno soffice. Poi a primavera diserbano con una passata di glifosato e seminano la soia senza arare il terreno. I semi infestanti muoiono, la soia no. “Non lavorazione”, in gergo agronomico. Una nuova tecnica rubricata sotto la voce “agricoltura blu” che in alcuni casi (non in tutti purtroppo) dà ottimi risultati, in termini di buona produzione, risparmio energetico e di salvaguardia del suolo.
In sintesi, questa tecnica agronomica prevede concimazione (in parte) con i residui delle piante seminate in inverno tra gli interfilari, più controllo delle infestanti e meno lavorazioni del terreno. Non sono così scemi e corrotti dalla modernità e dalle corporation gli agricoltori argentini: anzi, rispetto a noi, così venati di nostalgie bucoliche, sono 40 anni avanti. Se poi qualcuno ha altre pratiche agronomiche più efficaci è il benvenuto, le stiamo aspettando. Tocca però mettere i dati a disposizione e fare delle prove in campo per saggiarne l’efficacia, e mettere su dei protocolli comuni. E in mancanza di questo non ci resta che parlare di fionde e bombe atomiche.

E visto che ci siamo, diciamo anche che l’agricoltura intensiva serve. Produce di più – per i famosi sette miliardi – e consuma meno territorio a parità di produzione. Non è così controintuitivo come sembra. I nostri felici cacciatori raccoglitori, che in numero non arrivavano nemmeno a un milione di persone, hanno fatto fuori l’80% della micro e macrofauna. Se ne fregavano dell’ ecologia, anzi: la fionda serviva a uccidere gli animali. Ergo la fionda è poco ecologica. Se rimaniamo in Italia la superficie boschiva è aumentata, flora e fauna stanno bene, chiedete dei lupi, magari ai pastori, vedete che vi rispondono: negli anni ’70 non arrivavano a cento, ora superano 500 capi e sono in aumento. Cominciano ad aver voglia di sparargli, visto che pure i lupi mangiano le pecore. Una vera cultura dell’ambiente, diversa dal culto dell’ambiente, prevede di intensificare e concentrare la produzione in zone vocate, cercare di ottenere prodotti buoni e salubri (l’apporto tecnologico è dunque fondamentale, e sono gli unici strumenti per affrontare costi crescenti) e gestire poi con investimenti e intelligenza i terreni lasciati liberi dall’agricoltura.

E poi che dire: ci sono sempre questi maledetti numeri a rompere la poesia. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. Sia sempre lode a De André: però in campo agronomico, che noia, siamo costretti a farci delle domande: sì, ma quanti fior? Insomma quanto letame dobbiamo interrare per ottenere fiori per sette miliardi di persone?
Supponiamo di essere contro i concimi, oltre che agli erbicidi, e ragioniamo su una successione biennale frumento-mais, oggi molto diffusa in Lombardia con produttività di 7 tonnellate per ettaro per il frumento, e di 13 per il mais con interramento di paglie e stocchi.
Si preveda inoltre una lisciviazione del 20% dell’azoto somministrato. L’ettaro di mais che produce 13 t di granella (contenuto in azoto = 1,4%) assorbe 13000 kg x 0,014 = 187 kg di azoto cui vanno aggiunti 187*0,20=37 kg di azoto lisciviato per un totale di 225 kg. Un conteggio analogo porta a dire che per un frumento che produca 7 t di granella (contenuto in azoto = 2,2%) occorrono circa 188 kg di azoto. Ehm, magari mi sbaglio, esame di coltivazione erbacee: 25/30.
Nell’avvicendamento frumento-mais occorre dunque prevedere l’apporto di 413 kg per ettaro di azoto. Poiché l’azoto è il promotore della crescita e dunque della produzione, qualora non si riesca a garantire un tale quantitativo si avrà inevitabilmente un calo di produzione e di qualità (minore contenuto di proteine), più avvertibile per il fumento.
E va bene, usiamo il letame. Economia del riciclo, dai, niente tecnologia chimica, solo merda animale, fatta fermentare, dai diamanti non nasce niente eccetera.
Quanto letame? Per coprire il fabbisogno in azoto con il solo letame (contenuto in azoto = 0,34%) dovremmo apportare 121,4 t di letame. Se invece si punta sul liquame (contenuto in azoto = 0,25%), ne dovremmo apportare 165,1 t.
Sono tante di più. Quanti animali ci vorrebbero? Ce liabbiamo? E lo spazio per costuire le vasche di contenimento aziendali, quelle per far maturare il letame? E la puzza?

Forse è un po’ per questi motivi, ossia perche il mondo è complicato e densamente popolato, perché i numeri sono più cinici, o almeno meno fatati di certi aggettivi, o perché siamo carenti in fisiologia (come funziona un sistema) e preferiamo metterci al sicuro con la patologia (insomma commentare il danno), sarà per questa serie di motivi che preferiamo ragionare sul mondo con paragoni estremi e apocalittici.

Poi, oltre alle problematiche di cui sopra c’è un’altra cosa di cui un po’ mi vergogno, come persona di sinistra, dico: di aver riso tanto in questi anni. Immaginatevi la scena. Un ragazzo di Caserta, più o meno acculturato, con estese passioni musicali e ambizioni creative che passeggiava per le vie di una città borghese. Avevo motivi per sentirmi diverso, rispetto ai miei cittadini amavo, vestivo, pensavo in modo diverso. Anche per questo leggevo Cuore, e naturalmente ridevo. “Hanno la faccia come il culo 2: loro fanno lo stesso governo noi facciamo lo stesso titolo”. Geniale. “Loro”, quelli da prendere in giro, erano i democristiani, da 40 con le stesse pratiche politiche. Io di loro ridevo. Come ridevo a leggere la rubrica di Cuore che illustrava e commentava i nomi delle insegne più strane, bizzarre e cafone.
A Caserta lungo la via Appia ce n’erano tantissime. A ripensarci, cercavo, in sostanza, un punto di vista dal quale guardare il mondo, il che è giusto, ma – “sian stati i libri o il mio provincialismo” -mi sono ritrovato ad appartenere a un club, con una missione prioritaria: sfottere quelli che non guardavano il mondo con il mio stesso sguardo – colpa mia, naturalmente, non di Cuore.

Ridevo anche del mio parentame: il lato contadino. Non parlavano bene l’italiano, storpiavano i verbi, usavano parole a sproposito, credevano nelle fattucchiere, abitavano in case povere, cucina e stalle annessa. Una puzza. Vestivano sempre di nero, fustagno e maglietta di lana pesante. Pensavano – che stupidi – che il cane servisse a catturare il coniglio. Ah, e zappavano. Tutto il giorno. Loro zappavano e io leggevo e ascoltavo musica. Ricordo una mia zia, completamente curva. Ma non gobba, davvero: il busto era piegato in avanti a formare un angolo retto con il terreno. Ci credo, ore e ore a usare la fionda per togliere le erbacce dai campi. Che ironia tra noi cugini più colti e con ambizioni creative. Ricordo ancora che l’unico che non rideva era mio padre – ex contadino – che allora gestiva un settore all’ispettorato agrario di Caserta. Ogni volta che andavamo a trovare i parenti, mio padre si innervosiva e batteva i pugni sul tavolo: dovete togliere questa stalla da qui! Dovete comprarvi un trattore, dovete usare gli agrofarmaci, quest’uva è una merda, tutta piena di peronospera. Ci sono contributi per queste, vi preparo io la domanda, ma per Dio, fate qualcosa.

Fatica sprecata, pensavo io. Però mio padre era molto testardo e alla fine i miei parenti sono passati dalla zappa all’erbicida, hanno tolto la stalla dalla cucina, razionalizzato gli ambienti. Così, migliorando la produzione i soldi (pochi) sono cominciati a entrare e i miei parenti, a metà degli anni ’80, con molto ritardo sulla media, si sono decisi a ristrutturare la casa. Sapete da chi sono andati a comprare mattonelle e igienici? Dal Principe del Bagno. Uno con l’insegna da rubrica Cuore. Ma i parenti non ridevano di lui. Anzi, si fidavano: una brava persona, c’ha fatto un buon prezzo, tutto in comode rate.
Certo, almeno rispetto agli standard delle riviste patinate, quelle ristrutturazioni erano fuori scala e di tanto, tuttavia… i parenti hanno rinnovato casa e smesso di zappare.

Non credo sia una storia isolata e locale. Anche perché in Italia tutto è molto piccolo e locale. L’Italia, mentre io ridevo, stava cambiando. Grazie all’innovazione tecnologica la nostra linea saliva e i consumi si espandevano, e, in buona parte, in Italia, salivano la china con più forza, proprio quelle imprese che si occupavano del settore dell’igiene (bagni e arredi) dell’arredamento e degli elettrodomestici.
Così, mentre io non mancavo di fare ironia sui venditori di tazze da bagno e bidè, su Aiazzone e altri mobilifici, i miei parenti si servivano da loro e in quel periodo Berlusconi – questo bisogna riconoscerglielo – intuì una cosa: doveva intercettare quegli interessi, pur minori e trasferirli sulle sue reti, togliendoli così alla Rai. Eliminare la concorrenza, insomma.
Non originale come strategia, ma a lui l’impresa, riuscì: grazie a un credito bancario e all’appoggio politico, anche perché le grandi banche erano controllate, allora, dallo Stato.
La forza di Mediaset? Pubblicità. In concreto Mediaset può servirsi dei 2/3 del mercato pubblicitario, mentre la Rai può trasmettere solo 1/5 della pubblicità. La Rai si serve di 400 imprese maggiori (FIAT, Ferrero) e Mediaset di 800 imprese minori, e mi chiedo quante imprese con nomi bizzari ci sono e quante avrebbero suscitato in me incontenibili e sdegnose risate.

Ora da una parte possiamo affermare con serietà argomentativa che Mediaset, nonostante questa formidabile posizione di forza, unica nel suo genere, non ha prodotto grandi espansioni sui mercati esteri. Insomma, facciamo i conti: fiction, libri, format e quant’altro fa cultura spendibili sui mercati internazionali? Poco e niente. Ha prodotto innovazione culturale? Nemmeno. Tutta l’energia è stata impiegata per mantenere la posizione di forza, in sostanza per difendere il privilegio di disporre di tre canali a pieno potenziale di affollamento pubblicitario e cioè la possibilità di offrire spot a prezzi scontati a quei clienti che possegono capitali da investire.

D’altra parte è giusto dire che impegnati com’eravamo a ridere – perché da tempo e anche grazie agli erbicidi avevamo la pancia piena – rassicurati dai nostri stessi paragoni estremi e apocalittici non abbiamo saputo osservare il mondo che si impennava, e si innervava generando ramificazioni, con tutti le conseguenze, belle e brutte, che le ascese portano con sé. Mi sa che ci siamo spaventati di tanta vastità e abbiamo preferito difendere le nostre posizioni, piccole e locali, l’appartenenza al club, non fa niente se in sostanza si trattava del club della zappa contro quella della bomba atomica.

Ora, mannaggia, la storia non va in senso unico, sì la linea sale ma i costi (anche quelli culturali) non decrescono eppure la cultura è l’unico rimedio. Chissà se i nostri figli, i miei, quella di mia cugina – che non è più contadina, è alta e diritta come un fuso, e ha studiato e aperto un negozio molto carino – e i vostri non sapranno trovare un rimedio alla mancanza di risorse disponibili. Di certo si dovrà cambiare club. Non più quelli degli intellettuali creativi – spesso dotati di un insopportabile tono profetico e ieratico, oscuro e fastidioso– ma intellettuali di servizio, quelli che dall’alto, sulla sommità di questa linea ascendente sappiano riconoscere la propria solitudine conoscitiva e cerchino di integrare il più possibile le loro conoscenze.

P.S. A proposito, io leggo riviste alla moda che parlano di orti urbani. E vi devo dire che non vedo l’ora. Tutti i balconi del mio quartiere popolare pieni di vasi con ortaggi. Che bello sarebbe. Ma basta con questi gerani e ciclamini! Salviamo il mondo, autoproduzione. Certo un rischio esiste, è vero. Potrebbe accadere, dopo aver trasportato sulle spalle pacchi di terra, dopo aver cercato di far fermentare i residui domestici, dopo aver piantato semenzai, effettuato trapianti, costruito impianti di microirrigazione e sbagliato le dosi d’acqua, e quelle dei concimi, dopo aver visto insetti che attaccano, o preso a scopate roditori che sentono l’odore di ortaggi e salgano sui balconi, dopo aver zappato, maledetto, smadonnato eccetera, c’è il rischio concreto (credetemi) che vengano fuori due cespi di lattuga o finocchi veramente schifosi che nessuno, nemmeno voi, vorrà assaggiare. Allora, è probabile che presi da uno scoramento riderete di voi stessi e direte: ma vaffanculo a me e a tutta l’agricoltura.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.