Come criticare Matteo Renzi

Come solo Bersani, tra i suoi, ha mostrato di aver compreso l’enorme potenzialità delle primarie aperte per il bene dell’intero Pd, così solo Bersani sembra aver colto il vero punto debole di Matteo Renzi. Quando lo invita ad avere fiducia «in tutto il partito», e non solo nel segretario, intercetta un umore diffuso nel Pd verso il sindaco di Firenze: verso di lui ormai c’è rispetto (anche nella versione che trasforma il rispetto in paura) e ammirazione, ma c’è anche la sensazione (fra i suoi stessi sostenitori) che se appena potesse Renzi farebbe a meno del mondo intero e sicuramente di tutti i militanti e dirigenti democratici, come per molto tempo ha fatto a meno di consiglieri e alleati politici.

Insomma, un leader troppo convinto di sé per aver bisogno di altri. Allergico al concetto di comunità e ai luoghi nei quali una comunità si ritrova, si organizza, si confronta (anche con successo, com’è accaduto sabato a Roma). E questo è forse l’unico tratto di scarsa modernità di Renzi, in un tempo nel quale la domanda di partecipazione e di potere decisionale da parte dei cittadini va molto oltre il diritto a presentarsi una domenica in un gazebo senza dover presentare le analisi del sangue e l’intero albo genealogico.

Detto questo, gli altri avversari di Renzi fin qui sparano solo colpi a vuoto. Diventa controproducente l’accusa di aver copiato i programmi del partito. È paradossale la pretesa di non togliere voti alla destra. Offende la continua chiamata in causa di Giorgio Gori, la cui disponibilità e passione andrebbe viceversa lodata. Appare forzata, infondata e curiosamente “antipolitica” la verve inquisitoria sul finanziamento della campagna elettorale. E se qualcuno anonimamente insinua addirittura di aiuti economici dall’estero, «da Israele», la cosa sarebbe comica se non puzzasse insopportabilmente di antisemitismo (scommettiamo che nessuno si assumerà la paternità di una simile stupidaggine).

Quanto a molti dirigenti ex popolari usciti malconci dall’assemblea di sabato, va loro riconosciuto il diritto almeno all’autodifesa visto che Renzi incarna di per sé – al di là dei suoi intenti rottamatori – la potenziale fine del loro ciclo politico. Una lunghissima stagione di abili scelte tattiche si chiude, nel momento di scegliere fra il lontano Vendola, il socialdemocratico Bersani (fattosi insofferente di ogni rendita di posizione interna, non solo quella ex popolare) e l’ex giovane ragazzo di parrocchia Renzi, il peggiore di tutti i mali. Fa perfino tenerezza l’ingenuità di un vecchio lupo come Franco Marini che il giorno dopo una pessima esibizione assembleare confessa: gli avevo chiesto di aspettare, perché non ha aspettato…

Aspettare non è più un’opzione. Ripararsi all’ombra di leadership altrui non paga più. E sacrificare, per vero o per finta, le proprie ambizioni personali, diversamente dal passato democristiano e comunista suona più ipocrita che virtuoso. Questo è un modus vivendi, prima ancora che operandi, anacronistico e improponibile. Renzi può essere battuto sul terreno dell’affidabilità, dell’affabilità, della capacità di condividere un progetto collettivo: diffamazioni, scomuniche e paternalismi gli rimbalzano addosso e tornano indietro.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.