La California no

Come può sentirsi un giovane o meno giovane disoccupato del Sud, magari con moglie e figli a carico, costretto a vivere alla giornata di espedienti pur di raggranellare qualcosa per sfamare sé e i suoi cari, leggendo che Renzi è volato in California per andare a lezione di futuro, innovazione e trovate simili?
Il segretario uscente del Partito democratico ha provato a porsi una domanda del genere quando si è imbarcato sull’aereo per «dedicarsi ad alcuni incontri di qualità», come ha scritto sul suo blog proprio mentre parte la sua corsa alla riconferma della guida del PD?

Ha mai avvertito la distanza siderale che separa questa sua ormai ripetitiva e logora narrazione politica intrisa di parole evocative di nulla se non di retorica (innovazione, futuro, bellezza, allegria, ottimismo, «abbraccio affettuoso agli avversari») con la realtà drammatica di una grossa fetta del Paese in cui un leader di sinistra (ma anche di destra) dovrebbe calarsi profondamente? Si è mai reso conto che queste parole assomigliano molto a quelle che Francois Rabelais, nel Gargantua e Pantagruel, spiega che pronunciate nel freddo dell’inverno gelano e non vengono più udite in attesa di un cambio di stagione per tornare a parlarci? Si è mai chiesto cosa significhi davvero stare dalla parte degli ultimi, adottare il loro punto di vista, immedesimarsi nelle loro angosce, condividere il loro bisogno di normalità e serenità, interpretare i loro dignitosi silenzi, talvolta adottare questi dignitosi silenzi invece che parlare, parlare, parlare, scrivere, scrivere, scrivere?

Ha mai avuto vago sentore di come certe previsioni (spesso interessate) su cosa ci attende esposte da sedicenti guru dell’innovazione d’oltreoceano (ma anche nostrani) suscitino in molti, forse i più, irritazione piuttosto che ammirazione? È mai stato sfiorato dal dubbio, mentre scriveva sul suo blog, che a tanti di essere come il «vulcanico fondatore di Tesla Elon Musk» non gliene può importare di meno? E che l’affermazione «non tutti diventeranno Elon Musk, è ovvio, ma dobbiamo costruire un Paese in cui almeno sia possibile coltivare l’idea di provarci» può suonare quasi beffarda in Italia dove, come registrava appena pochi giorni fa in un suo rapporto la Fondazione Hume, ci sono ben nove milioni di esclusi (lavoratori in nero, disoccupati in senso stretto che stanno cercando lavoro e disoccupati in senso lato, disponibili cioè al lavoro ma che hanno smesso di cercarne attivamente uno) e «in cui non c’è traccia», scriveva Il Sole 24 Ore del 12 febbraio, «del “buon” outsider e della sua promessa di riscatto che si avvera», ma dove «tutta la ribalta è occupata da chi è imbrigliato in una condizione “out” e dal suo sogno infranto sulle macerie di un progresso che, per buona parte della popolazione da tempo si è arrestato»?

Costoro l’idea di provarci l’hanno coltivata eccome ma il terreno si è rivelato arido. Almeno adesso, quindi, proviamo a dire basta alla riproposizione del solito bla bla bla futuristico: non è così che si restituisce loro la fiducia nel domani. E poi ancora come non leggere in quel NO così compatto dei giovani del Sud (di cui uno su due è disoccupato) al referendum del 4 dicembre (oltre il 70 per cento) un segnale di protesta anche contro tutte quelle immagini di “rampantismo” fatto di baci, abbracci e dammi cinque con i vari Malagò, Montezemolo (il quale cosa aspetta a dimettersi da presidente di Alitalia visto lo stato comatoso in cui versa l’azienda? O è sempre e solo colpa dei lavoratori e mai dei vertici?), banchieri, finanzieri, sindaco Sala i quali, comunque vada, cascano sempre in piedi?

E a proposito di Milano come non registrare la fin qui assai deludente amministrazione dell’ex numero uno di Expo? Comunica poco e male, non c’è traccia di quale sia la sua visione per Milano, si ritrova in giunta assessori reticenti a dichiarare i propri redditi e altri che, occupando lo stesso posto sin dalla giunta Pisapia, rivelano ormai una vera e propria stanchezza propositiva (come quelli al welfare e alle attività produttive): e questo sarebbe il modello “California” che dovrebbe trainare il Paese verso chissà quale eldorado di buona amministrazione? Aggiungo per inciso, visto che all’assemblea del PD del 19 febbraio Milano è stata citata da Renzi come modello di buone pratiche di volontariato, che non si può sentire una frase come quella che «il Terzo settore dovrebbe essere accudito e coccolato»: ma basta per favore, ma che noia con questo buonismo, con questa retorica del Terzo settore, sì meritorio per molti versi ma anche altrettanto contraddittorio e opaco per altri per cui, proprio per questa ragione, chi vuole davvero bene al nonprofit dovrebbe preoccuparsi innanzitutto di aiutarlo a scrollarsi di dosso i suoi eccessi di autoreferenzialità e atteggiamenti da piangina ahimè così diffusi.

Un suggestivo aneddoto racconta che la regina d’Inghilterra ritenga che l’odore del mondo sia quello della vernice perché viene sempre preceduta da imbianchini che rimettono a nuovo i luoghi che lei visita. A volte si ha l’impressione che Renzi in questi anni a Palazzo Chigi abbia annusato solo l’odore della vernice, dimenticandosi della “puzza” del mondo reale. E che il viaggio di questi giorni in California, con tutti quegli «incontri di qualità» sia, per certi versi, un modo per prolungare l’amnesia. Torni invece presto dalla Silicon Valley per tuffarsi in ben altra valle. Di lacrime, purtroppo. Il congresso del Partito democratico si vince qui.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com