Lohengrin, uno sfigato

Nevicava, governo Monti. C’erano pochi uomini delle istituzioni e questo aumentava la possibilità che qualcuno capisse di musica: Mario Monti c’era, era lì, ma all’inizio non hanno suonato l’inno europeo (perché non c’era Barroso) e non hanno suonato l’inno italiano (perché non c’era Napolitano) e non hanno suonato neppure quello tedesco (nonostante ci fosse Monti) e meglio così, perché prima del Preludio avrebbero tutti sfigurato. Seguirà possibile polemica, ma ora non ci interessa e scusate se passiamo subito alla sostanza e cioè scriviamo del Lohengrin. Anche se – parentesi – la serata di ieri ha dimostrato non si può «scrivere di musica» (né «ballare di architettura», direbbe qualcuno) perché uno come Richard Wagner, per fare esempio, è uno che ti prende e ti ammalia anche se già ti eri preparato la stroncatura preventiva, che prepararla non è mica difficile: basta entrare di straforo alla prova generale, avere magari qualche spia alla Prima under 30, spiare le foto di costumi & regia & scenografia e infine ascoltarsi altri Lohengrin di Daniel Barenboim come quello del 1998 a Berlino. Risultato: nessuno, perché Wagner è Wagner, il Lohengrin è il Lohengrin e ogni volta succede qualcosa per cui devi ricominciare da capo. La musica seria – classica, esatta – ha questo: che è sempre quella e al tempo stesso è irripetibile.

Non si può scrivere di musica ma si può farlo di tutto il resto, ci si può incazzare come iene per una regia e dintorni, quello sì può fare: e il farlo nel dicembre 2012 non è una stanca e ritrita contrapposizione tra vecchio e nuovo, tra i fratelli Wieland e Wolfgang Wagner, non siamo come Cosima Liszt (in Wagner) che sopravvisse al marito per 47 anni passati a preservare l’ortodossia wagneriana, col divieto assoluto di toccare la scenografia e con essa la presenza di animali veri (vivi) nelle scene in cui Wagner li aveva previsti. Non siamo così, noi. Ma se è vero che «la musica allontana le brutture», come ha detto Barenboim qualche giorno fa, finiranno pure da qualche parte, queste brutture. Ecco. Passiamo dunque a parlare della regia & scenografia & costumi.

Sparate sul regista. Ora: non ce ne importa niente se il regista Claus Guth fa sempre cantare tutti stravaccati, avvoltolati, intrecciati per terra come ragazzotti che si fanno le canne a Parco Sempione: potrebbe sempre risponderti che serve a ravvivare la staticità della scena e dei personaggi che nel Lohengrin è quasi imbarazzante: son sempre tutti lì, piantati, a voltare la testa a destra e a sinistra come al Foro italico. A un certo punto c’è Lohengrin sdraiato e di spalle, tra povere piume di cigno: e va bene anche questo, ma far sparire la barca e un cigno vero, dal Lohengrin, merita l’arresto per flagranza. Sarebbe come rappresentare Il Signore degli Anelli e non mettere l’anello. Passi tutti il resto: anche se il pontile col canneto sembra Cazzago Brabbia (copyright by Matteo Bordone, Twitter) e quel pianoforte verticale, simbolo piccolo borghese, tutto sommato resta agghiacciante. Perché? Perché d’accordo, essenzialmente c’è da raccontare una storia, anzi una fiaba, anzi una fiaba tragica, e certo, c’è la partitura musicale e non quella visuale: ma le indicazioni di Wagner in compenso ci sono, sono chiare, e anche se tu scegli di passare dal medioevo all’Ottocento (borghese) devi ricordarti che il tema resta quello dei cavalieri del Sacro Graal, non una riunione di cavalieri del lavoro tipo «Italia Futura» di Montezemolo (Bordone, ibidem).

Si può perdonare tutto: i maledetti panciotti, le uniformi, le balconate da casa popolare da cui la gente sembra che curiosi e spii, Ortrud in «fascist boots», a tratti atmosfere da comunità Amish: viva la fantasia e la libertà artistica. La riva della Schelda, peraltro, è acqua vera, Lohengrin e Elsa ci pucciano i piedi in un duetto d’amore che sfiora il sentimentalismo: bello, e belli e suggestivi anche i riflessi d’acqua sul soffitto del teatro. Ma che c’entrano? Che c’entra tutto quanto? Wagner impregnò la sua fiaba di significati religiosi e nazionalistici: dove sono? Dov’è anche il più lontano sentore di una magia, dell’arcano? Il punto non è che non c’è neanche un’armatura né uno scudo né un elmo, il punto è che Wagner scrisse testualmente che il suo era un poema sulle più remote origini umane, e questo non puoi dimenticarlo neanche se scegli di archiviare tutta la paccottiglia sul Graal e i cavalieri della Tavola Rotonda. Sarebbe come ambientare I promessi sposi negli anni sessanta: puoi farlo, ma allora deve avere un senso, e questo senso si deve capire, anche se il senso che gli dava Wagner se permettete bastava e avanzava. I cavalieri del Lohengrin sono i più puri tra gli uomini, come lo è Parsifal, e hanno il potere sovrumano di dissolvere ogni inganno e di esaltare ogni virtù: perfetto, dunque chi quello sfigato di un Lohengrin? Chi è quel poveraccio tremebondo, quel salvatore modesto e umile, incerto, problematico, eroe suo malgrado, pure scalzo? È Lohengrin, quello? D’accordo: però tu, Christian Schmidt, scenofrago e costumista, e poi tu, regista Claus Guth da Francoforte, dovete andare in galera. E non ai domiciliari.

Primo atto. Vi va bene che il preludio – la sua scia – ha fatto dimenticare tutto questo per tutto il primo atto. E il Preludio, naturalmente, non si può descriverlo perché di musica non si può scrivere come detto: tediosamente nostalgico, di esaltata tristezza, un sol dell’avvenire ma imbiancato di magia e di Nord, argentato di aurora boreale: parole. Chaplin scelse il Preludio come musica finale del suo Grande dittatore, e non è chiaro se sapesse che quella musica, soprattutto in un preciso passaggio, faceva venire le lacrime gli occhi ad Adolf Hitler. Barenboim, l’altro giorno alla Cattolica, ha fatto un esempio paragonabile: ha ricordato quando Stalin, quello dei venti milioni di morti, piangeva nell’ascoltare il Concerto in Re Minore di Mozart. Categoria diversa è un certo Giuseppe Verdi (un compositore minore ma bravino, dovreste conoscerlo) che invece disse che il Preludio «riesce pesante per le continue note acute dei violini», una frase senza senso e imbruttita dall’invidia. Faceva così, Verdi: criticava e poi copiava.

Detto questo, è anche vero che il Lohnegrin è in quattro quarti e in La maggiore per buona parte: la più semplice e melodica delle opere di Wagner, «la meno interessante per complessità armonica e ritmica », diceva pochi giorni fa Daniel Barenboim chiacchierando alla Cattolica. Baremboim preferisce soffermarsi sul fascino melodico e sul colore orchestrale: che è un fascino – questo lo pensiamo noi – direttamente proporzionale alle reminiscenze del Preludio, c’è poco da fare.

Secondo atto. Il discorso vale anche per il secondo atto, dove pure, nel secondo preludio, s’insinua la cosiddetta «ombra suonata», qualcosa che si sente e si avverte con la sua fattezza indeterminata: i timpani come nascosti e indistinguibili, poi i violoncelli, i corni, il tutto per veder materializzarsi ancora la cacchio di asfittica scena-balconata in stile tardo Ottocento, un po’ New Orleans, un po’ straccioni di Brecht, col citato e allucinante pianoforte verticale. Resta un senso di oppressione. Duetti su duetti, all’apparenza sterili, e poi finalmente il coro: ecco lo sposalizio con tutti gli invitati in frac su moquette rossa, che ideona originale. La scena in cui entra Elsa vestita da sposa, al centro del palco con tutti a lanciarle festoni dalle balconate, è indubbiamente bella: non c’entra niente, ma è bella. È anche bello il loro isolamento mentre tutt’attorno succede il putiferio: la bellezza musicale è in crescendo e il veleno wagneriano s’insinua magicamente e ti porta per mano alla fine dell’atto. Però, ecco: quello lì, il riccioluto Lohengrin con la barba sfatta, secondo i dettami di Wagner doveva essere il misterioso cavaliere che nasconde alla moglie Elsa il suo terribile segreto: essere un custode del Graal, un semidio. Ma sembra che nasconda altro, a vederlo così conciato. Forse un passato in galera, una doppia vita, un passato nel Psdi, non certo l’essere il figlio di Parsifal.

Terzo Atto. Qui c’è il celebre coro nuziale, anzi «il» coro nuziale per eccellenza, anche se qualche barbone osa preferirgli la marcia di Mendelssohn. È il più bell’inno alla coniugalità mai scritto e farebbe venir voglia di sposarsi anche a Vittorio Sgarbi. E Barenboim come l’ha fatto? Festoso o presago di sventure? Lei come lo dirige, Maestro? «Lo dirigo in Si bemolle» pare abbia risposto qualche giorno fa. Il terrore di una smussata dolcezza forse l’ha fatto scivolare un pizzico nel marziale, ma fa parte della visione wagneriana di Barenboim, attento come sempre a sorvegliare gli archi (li lasciasse un po’ andare, ogni tanto) mentre i legni e gli ottoni sono parsi eccezionali ad alcuni e stridenti ad altri: forse erano solo un filo sovraesposti e poco «cremosi», ma è anche vero che per giudicare l’acustica noi sedevamo in un posto non ideale. Il Wagner di Barenboim è comunque così, energico e sbrigativo, virile, meno Parsifal e più maestri Maestri Cantori.

Non abbiamo detto niente delle voci, e sarà che il tema non ci appassiona: tanto le voci wagneriane non esistono più e non si capisce una parola in nessuna lingua. Va elogiato il notevole e inconfondibile mezzo tono voce di Lohengrin (Jonas Kaufmann) mentre la parte di Elsa meriterebbe un discorsetto a parte. Anja Harteros, la titolare, era indisposta e nella Prima under 30 era stata sostituita Anne Petersen, che però a quanto pare si è ammalata anche lei. Così è piovuta all’ultimo momento Annette Dasch, una signorina – ci perdoni – forse emozionata ma con seri problemi di modulazione e soprattutto intonazione, perlomeno all’inizio. Alla fine se l’è cavata anche lei, poverina. Il punto è un altro, come detto, ma l’avevamo già scritto. Glielo facciamo ripetere a un certo Charles Baudelaire dopo che vide il Lohengrin:
«Mi sentii liberato dai legami di pesantezza e ritrovai la straordinaria voluttà che circola nei luoghi alti. Dipinsi a me stesso lo stato di un uomo in preda ad un sogno in una solitudine assoluta, con un immenso orizzonte e una larga luce diffusa. Un’immensità con il solo sfondo di se stessa. Allora concepii l’idea di un’anima mossa in un ambiente luminoso, ondeggiante al di sopra e molto lontano dal mondo naturale».

Ora: chi ha visto il Lohengrin di ieri sera provi a immaginare che cosa ne avrebbe scritto Baudelaire. Solo in due si sono salvati, alla fine: Barenboim e Wagner. Come al solito.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera