Sulla liberalizzazione dei farmaci

La cosiddetta «liberalizzazione dei farmaci» è una faccenda troppo semplice perché i farmacisti non cercassero di complicarla in tutti i modi, rendendola fumosa e travestendola da quella rivoluzione che non è. C’è una lobby a lavoro, com’è normale: e se qualcuno si stesse chiedendo se non si tratti solo dell’ennesima casta che vuole mantenere i propri privilegi – lo dico a dispetto dei miei amici farmacisti – la risposta infine è sì, e mi spiace dirlo. Tentiamo una sintesi seria e spietata, dunque.

Intanto: nessuno parli di libero mercato dei farmaci perché si tratta soltanto di una parziale liberalizzazione dei farmaci di fascia C, quelli cioè a totale carico del cittadino. Tipo: Aspirina, Moment, queste cose. In concreto questi farmaci non si venderebbero solo nelle 16mila farmacie italiane, ma anche in tremila parafarmacie: quando leggete che i farmaci verrebbero venduti «nei supermercati» significa soltanto che pochi megastore avrebbero facoltà di ospitare una parafarmacia; dietro il bancone oltretutto ci sarebbe un farmacista, non un fruttivendolo. Se volete comprare un farmaco di fascia C, in sintesi, lo comprerete comunque da un farmacista e i vantaggi apparenti appaiono ovvi: più offerta, più mercato, orari più elastici, potenziale abbassamento dei prezzi (effetto primario di una liberalizzazione) e meno code e vagabondaggi alla ricerca di una farmacia aperta, o davanti alla quale umiliarsi alla lettura di complicati cartelli.

Ciò detto, le ragioni per cui le farmacie si oppongono all’esistenza di loro consorelle pare semplice: vedrebbero un’erosione del loro fatturato, in qualche misura dovrebbero dividere la torta con dei colleghi sprovvisti di licenza. I farmaci di fascia C oltretutto sono quelli col ricarico maggiore e soprattutto diretto, in contanti, senza la noiosa procedura dei rimborsi regionali. Le farmacie, in altre parole, vogliono essere le uniche a mantenere lo status, anche, di parafarmacie. Si parla di esercizi, cioè, dove si vendono i citati farmaci di fascia C ma anche e praticamente ogni genere di mercanzia: altro che quel servizio «non commerciale» e un po’ taumaturgico con cui si riempiono la bocca nel vendere (anche) dai biscotti alla pasta, dagli zoccoli agli abbronzanti, dai preparati erboristici per dimagrire a un sacco di generi truffaldini che sotto l’insegna «farmacia» assumono un’aura seriosa e affidabile, come gli uffici marketing della para-sanità sanno molto bene.

Detto questo parliamo della torta vera, quella che vede giocarsi la partita più sanguinosa: i farmaci di fascia C che prevedono comunque l’obbligo della ricetta. Esempi? Ne bastino tre: Viagra, Levitra e Cialis, prodotti per l’impotenza – ma acquistati perlopiù da 20-30enni, dicono le statistiche – che da soli hanno un mercato rispettivamente di 82 e 49 e 78 milioni di euro, questo solo in Italia. La Pfizer che produce il Viagra, basti dire, ha un fatturato di 48 miliardi di dollari: da immaginarsi il genere di interessi che sovrintendono quella che potrebbe sembrare una qualsiasi guerricciola all’italiana. Il governo, inteso come Aifa, l’agenzia per il farmaco, è chiamato a decidere se questi particolari farmaci di fascia C debbano restare un’esclusiva delle farmacie o se – e quali – possano finire anche sui banconi delle parafarmacie, sempre previa ricetta. Immaginatevi le pressioni che possa ricevere l’Aifa.

Ma è un tema che introduce anche un altro motivo di ipocrisia dei farmacisti, questo: si parla tronfiamente di farmaci con ricetta, infatti, ma i farmacisti che esigono la ricetta per questo genere di prodotti sono una minoranza. Qualcuno obietterà, ma è così che molti farmacisti lucrano: coi farmaci di fascia C che vorrebbero la ricetta (si pensi, oltre ai vari Viagra, ai costosissimi Orlistat per dimagrire) ma che se non presenti la ricetta, spesso, non succede niente, non muore nessuno. Cioè: dipende. Magari è sufficiente che t’abbiano visto in faccia due volte. I milioni di euro fatturati grazie a ventenni in fregola sessuale (maggiori acquirenti di Viagra) o grazie ad anoressiche che vogliono dimagrire (stessa fascia d’età) non lasciano molte altre spiegazioni.

In altra sede magari ci occuperemo dei problemi anche seri che alcuni farmacisti hanno sollevato in questo periodo. Problemi in parte risolvibili, c’è da credere. Tra questi c’è quello dei collaboratori di farmacia che perderebbero i punteggi per partecipare ai concorsi. Più velleitario e ipocrita pare quel fronte moralistoide che tende a elevare lo status del farmacista a un suo presunto ruolo sociale e di servizio, gente sostanzialmente gelosa della propria licenza – costata fatica e denaro, invero – e che rimarca una sorta di attività civile e «di vicinato» da parte del farmacista, che resta un medico: tutto molto interessante, ma fuori dal tempo. I temi che governano la posta in gioco purtroppo sono altri.

C’è un dato semmai interessante, credo, che i farmacisti potrebbero approfondire e pubblicizzare con maggior decisione: che nei paesi in cui la vendita e circolazione dei farmaci è più semplice e libera che da noi – negli Stati Uniti, per esempio – il tasso di mortalità per assunzioni sbagliate di farmaci è molto più alto che da noi: se le multinazionali o l’Oms fornissero dati un minimo affidabili, su questo, si potrebbe avviare una discussione. Ma è un discorso che si farebbe ampio e che porterebbe sino a una farmaceutica che forse si sta progressivamente allontanando dal suo obiettivo primario: la salute e il benessere delle persone. La ricerca dei profitti, in questo campo, coincide ormai da molto tempo con gigantesche imprese di marketing che orientano la ricerca scientifica e inducono al bisogno di farmaci spesso inutili quando non dannosi. Non scopro nulla, ma forse occorrerebbe tornare a riflettere sulla medicalizzazione della società. Difficile però che accada a margine di un dibattito sulle parafarmacie, mi rendo conto.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera