Una lettera indirizzata anche al PD

Straordinariamente rivelatrice, la lettera di Trichet e Draghi pubblicata dal Corriere della Sera dopo esser stata l’oggetto del mistero della crisi italiana. Rivelatrice per tre motivi almeno, il terzo dei quali riguarda noi, riguarda il Pd.

Innanzi tutto il meritorio scoop del Corriere conferma la violenza dello scontro di potere in atto. La tempistica scelta dalla fonte è inequivoca: trattasi di siluro contro il Governatore Draghi nel momento decisivo della scelta del successore alla Banca d’Italia. Forse sperando che la durezza dei contenuti della missiva potesse gettare cattiva luce sul mittente, esponendolo a critiche concentriche da destra e da sinistra.

In secondo luogo, il confronto fra la lettera e ciò che il governo ha realmente fatto nell’ultimo mese è impietoso, come è drammatico il tono imperioso che la Bce usa nei confronti di uno stato teoricamente sovrano. Sotto tutela eppure inadempienti, siamo condannati a subire altri assalti dalla speculazione e altre imposizioni dall’esterno.
Come ieri ha detto per primo Enrico Letta, e per ultimo col suggello della autorevolezza Romano Prodi, la ricetta dettata dalla Bce è amara ma ineludibile. È l’unica piattaforma possibile di qualsiasi governo di transizione o larghe intese, prima o dopo le elezioni. Non perché lo dicano i tecnocrati di Francoforte ma perché un italiano di grande leadership come Draghi batte su questi tasti da anni, con una visione ampia, equilibrata e progressiva delle necessità e di chi vi deve contribuire: mondo del lavoro, imprese, banche, finanza, sistema fiscale, sistema della formazione, pubblica amministrazione, professioni, legalità.

Il Pd deve decidersi. O fa proprio questo programma rivoluzionario, ovviamente piegandolo alle proprie convinzioni, in coerenza col plauso sempre rivolto al Governatore, oppure ripiega sulla linea esposta ieri mattina e altre volte dal suo responsabile economico, l’ottimo Stefano Fassina, secondo il quale l’Europa che si rivolge a noi è nelle mani del centrodestra neoliberista e cerca solo di imporci un bagno di sangue antipopolare e antisindacale.
La scelta non è da poco. Ciò che in questa maniera viene contestato nel Pd (o dal Pd?) è l’asse sul quale s’è mosso il centrosinistra di governo nella Seconda repubblica, quello di Prodi e di Ciampi: il rigore del bilancio pubblico, il contenimento della spesa, la liberalizzazione dei mercati come fattore di modernizzazione e opportunità.

Secondo Fassina (che va ascoltato e rispettato, per le sue idee e per l’incarico che ha), il Pd dovrebbe rilanciarsi, e provare a rilanciare l’Italia, con massicce iniezioni di investimenti pubblici finanziati da un debito europeizzato. L’idea ha una sua dignità ideologica. Che però appare improba da spiegare, solo per fare un esempio, agli elettori tedeschi che sarebbero chiamati a finanziarla molto più dei nostri. E non agli elettori della neoliberista (?) signora Merkel, ma a tutti, compresi quelli dell’amica Spd. Che poi, parlando di partiti europei amici, risuona nelle orecchie la recentissima avvertenza lanciata da un leader che venne elevato al suo posto soprattutto dai sindacati, e che come Fassina, come il Pd e come noi tutti ha la crescita del proprio paese come principale assillo: stando al governo dovremo dimostrare di spendere solo ciò che possiamo, e di saper tagliare il deficit come la destra non sa fare, ha detto Ed Miliband alla conferenza del Labour di Liverpool.

E ha detto un’altra cosa: non potremo difendere il nostro welfare se la gente in definitiva pensa che non funziona e che sia ingiusto. Miliband parla in un paese che è stato stravolto dall’ideologia e dalla pratica dei soldi facili della finanziarizzazione selvaggia, ma che può ripartire meglio dell’Italia in ogni momento anche perché sotto i governi del New Labour ha aperto i mercati e ha superato l’idea del conflitto permanente fra business community e lavoratori.

Questa è stata una conquista della sinistra riformista, non un vergognoso cedimento al neoliberismo: il Pd deve decidere se questa è ancora la sua strada, o se fra Londra e Atene decide di cedere al fascino dell’antichità.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.