Le piazze, al centro

Due mesi fa sono andato a Zurigo per lavoro. Dopo cena decido di fare quattro passi incuriosito da una città che conosco così poco ma di cui, tra architetti, si parla molto.

Camminando intuisco quello che potresti aspettarti da una metropoli calvinista, in una serata, a metà settimana, alle dieci di sera, di novembre: un silenzio pressoché assoluto, poche persone che si muovono rapide camminando a testa bassa, le luci calde che traspaiono da dietro le tende delle case intorno a me.

Finché, avvicinandomi a una grande chiesa mi accorgo che l’abside e il suo fianco sono impacchettati da decine di tende, accrocchi di plastica e teloni colorati che si compongono a formare uno strano, fragile, villaggio che prosegue sino alla facciata dove si allargano per ospitare una grande tenda aperta in cui stazionano alcune persone infreddolite. Un riverbero bluastro m’incuriosisce e vedo che all’interno si proietta su un grande schermo Il grande dittatore, ci sono delle sedie, persone che assistono in silenzio, altre, pochi metri distanti, che si raccolgono intorno a un banco che vende prodotti bio e libri.

Mi accorgo di essere appena entrato nel centro degli indignatos di Zurigo, a pochi passi dagli uffici della Borsa locale. E tante immagini, video, blog incontrati durante l’anno, prendono improvvisamente una forma fisica chiara, riconoscibile.

Una delle cose che più mi ha impressionato durante il 2011 e che, credo, continuerà a produrre conseguenze interessanti anche durante questo nuovo anno è il ritorno evidente della gente a utilizzare gli spazi pubblici come luogo di espressione e di elaborazione politica.

Sia Time che Wired-America hanno provocativamente indicato gli indignatos e i riots come “man of the year”, e per me è stato naturale interrogarmi sui luoghi scelti perché tutto questo prendesse forma.

Sembrava che negli ultimi anni le piazze avessero progressivamente perso la capacità di essere quel luogo naturalmente deputato a essere “casa” e “laboratorio” della città e del suo territorio.

E’ vero, le piazze sono sempre, naturalmente, usate per festeggiare campionati vinti e feste paesane, per accogliere raduni automobilistici, mercatini natalizi, fiere di qualsiasi genere, comizi elettorali e riti pubblici, manifestazioni e raduni, ma ogni volta avevo la sensazione che quei luoghi fossero sempre più abitati con poca consapevolezza e che tutto fosse consumato in maniera più superficiale e meno identitaria, soprattutto nelle grandi metropoli.

Si è fatto un gran parlare negli anni Novanta dei centri commerciali, dei cinema multisala, degli aereoporti e stazioni, dei cosiddetti “non luoghi”, come degli spazi che le nuove comunità avevano eletto a luoghi pubblici di rapido uso e consumo.

Sembrava che le piazze avessero perso anima e significato, che non rappresentassero più, se non per centralità topografica, il cuore sociale di una città, e spesso questa sensazione era confermata da tanti progetti di recupero o di “arredo urbano” inutili, invadenti e fintamente retorici.

Sembrava che in un mondo in cui la soglia tra reale e digitale, tra pubblico e privato, tra interni ed esterno, uno spazio tradizionale come la piazza avesse perso il suo senso profondo, la sua qualità più importante, ovvero quello di essere vissuta come una parte importante e riconoscibile nella nostra vita di cittadini.

E, invece, in un momento di crisi profonda che torna a coinvolgere le paure e le emozioni primarie della gente (il lavoro, il cibo, i diritti) le piazze e tanti altri luoghi potenzialmente pubblici ma invisibili agli occhi della gente come i tetti degli edifici, le gru e le impalcature, i ponti, i sagrati delle chiese, tornano ad essere al centro del bisogno di stare insieme, di condividere, di produrre contenuti e di cercare conoscenze comuni.

Le piazze degli indignatos spagnoli, Zuccotti Park, i ponti di New York e San Francisco, piazza Tharir a Il Cairo, il sagrato della cattedrale St. Paul a Londra, le decine di micro spazi pubblici occupati nel mondo di fianco ai luoghi simbolici del potere finanziario e politico, i tetti delle fabbriche occupate, sono diventati tanti laboratori urbani capaci di produrre idee, confronti, protesta pacifica e consapevole e, insieme, di entrare in rete moltiplicando potenzialmente su scala globale la loro capacità di produrre cultura critica e consapevolezza sociale.

Non sono state considerate come semplici immagini, quinte momentanee di una scenografia instabile senza significato, ma come casa per tutti, luogo riconoscibile capace di dare ospitalità e senso allo stare insieme e al condividere un bisogno di cambiamento che parte dall’occupare fisicamente e dal vivere insieme un’esperienza di rinnovamento radicale.

Se dovessi immaginare quale potrebbe essere considerata la migliore architettura del 2011 e, probabilmente, quella potenzialmente più interessante del nuovo anno, non avrei dubbio nell’indicare la piazza, nella sua straordinaria, universale capacità di essere tornata al centro della vita di una società globale, che spesso confusa e intorpidita nel suo rapporto con i luoghi, è tornata a considerarla un “inedito” centro per produrre anticorpi necessari per affrontare diversamente i tempi inquieti che stiamo vivendo.

ps

Un ringraziamento all’amico e fotografo Filippo Romano, grande narratore di storie e di spazi urbani, che mi ha affidato queste belle immagini di piazza Tahir al Cairo.

Luca Molinari

Luca Molinari, storico e critico d’architettura, vive a Milano ma da qualche anno è professore ad Aversa presso la facoltà di architettura. Cura mostre ed eventi in Italia e fuori (Triennale Milano, Biennale Venezia, FMG Spazio e molto altro). Scrivere per lui è come progettare, e l’architettura è la sua magnifica ossessione. Dirige www.ymag.it sito indipendente di architettura e design