Le disgraziate questioni di stile

Ci sono pure caduto davanti. In moto, tanti anni fa. Piazza Venezia è già di suo piena di dossi – a volte sembra un campo da moto cross – quel giorno c’era una striscia d’olio. Caddi sullo specchietto retrovisore e sentii una fitta alle costole. Fatto sta che quando mi alzai – lentissimamente, come un vecchietto, eppure avevo 22 anni, ero appena arrivato a Roma – lo vidi: questo enorme monumento. Voglio dire, lo conoscevo eccome, ma lo vidi sotto una luce diversa: l’altare della Patria. Il monumento al Milite ignoto, il Vittoriano. Mi sembrò – fu un attimo, ma significativo – così algido, spettrale, indifferente alle piccole vite dei cittadini. La Patria era lì, davanti a me, enorme, bianca, mastodontica.

Dopo qualche giorno, le costole doloranti, e sempre in moto, capitai – per un accidente – alle fosse Ardeatine. Non c’era nessuno: una luce tersa. Il monumento mi apparve bellissimo, inquieto e dolente e di sicuro sarà stata la suggestione, ma il dolore alle costole pulsava in maniera diversa, un dolore produttivo, pensai – ma era tanto tempo fa.

Come sono diversi i due monumenti. E perché lo sono? Da quel giorno è montata in me una domanda ossessiva, di quelle che – è meglio dichiararlo subito – non hanno risposte definitive, ma costituiscono un pungolo, come dire: sono una questione preliminare.
La domanda è questa: mettiamo che una cosa non mi piace. Con differenti gradi di complessità, diciamo che non mi piace il male, il dolore che infesta il mondo, non mi piacciono le multinazionali, la casta e alcuni politici, dunque, se come scrittore, e con i mezzi dell’empirismo critico, voglio attaccare questa cosa (il male, il dolore, i politici), come faccio a criticarla senza usare lo stesso linguaggio che caratterizza quella cosa?
Detta in maniera diversa: posso mai dichiararmi antifascista e parlare con la voce stentorea del duce?
Certo posso farlo, ma così facendo, non rischio di essere stilisticamente complice della cosa che, appunto, mi avvio a contestare?

È una questione di stile, una disgrazia, come sappiamo. Fatto sta che, a cascata, da questa domanda vengono fuori altre questioni, tutte legate alla rappresentazione – del male, della morte, del dolore, dei politici, di noi stessi.
E scemo come sono, quel giorno pensai che fossi il primo a pormi la domanda. E invece, la storia va avanti da secoli, con varie sfumature.

«Guardate, tuttavia, in Kapò, l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sulla recinzione elettrificata; l’uomo che decida, a questo punto, di fare una carrellata in avanti per riprendere il cadavere dal basso verso l’alto, premurandosi d’inscrivere esattamente la mano alzata in un angolo dell’inquadratura finale, quest’uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo».

Questo è un estratto del saggio che l’allora critico dei Cahiers du Cinéma, Jacques Rivette, scrisse contro Gillo Pontecorvo – pubblicato nel 1961, sul numero 120 della rivista: «Dell’abiezione».

Il film Kapò, che Rivette criticava con sprezzo, era stato girato da Pontecorvo nel 1960. Raccontava della vita in un campo di concentramento e di come la protagonista per aver salva la vita si mette dalla parte della kapò (ma poi l’amore per un ufficiale russo la redime). La scena incriminata riguardava una prigioniera (Teresa, l’attrice Emmanuelle Riva) che stanca delle angherie subite si suicida buttandosi contro il filo spinato elettrificato. Pontecorvo a questo punto monta un carrello, vecchio tipo, binari e manovalanza che spingono la macchina da presa, e zooma sul volto della prigioniera.

Naturalmente guardare ora la scena vi sembrerà ridicola e la questione di Rivette di poco conto – siamo abituati ad altro. Rivette no, c’andava giù duro:

«Ci martellano con i falsi problemi della forma, del realismo e del fiabesco, della sceneggiatura e della messa in scena, dell’attore libero o dominato e di altre scempiaggini (…) ciò che conta è il tono, o l’accento, la sfumatura, comunque la si voglia chiamare – vale a dire il punto di vista di una persona, l’autore, male necessario, e l’atteggiamento che questa persona assume in rapporto a ciò che filma, e quindi in rapporto al mondo e alle cose: quello che si può esprimere attraverso la scelta delle situazioni, la costruzione dell’intreccio, i dialoghi, la recitazione degli attori, o la pura e semplice tecnica indifferentemente ma in egual misura».

Ci sono cose, diceva Rivette – e un altro critico, Sergey Daney rincarava la dose – «che non devono essere affrontate che nel timore e nel brivido. La morte è una di quelle, senza dubbio, e come, nel momento di filmare una cosa così misteriosa, non sentirsi un impostore?»

Riepilogando: non si zooma su una persona morente.
La carrellata nel linguaggio cinematografico è un punto esclamativo. La morte, invece, è un territorio limite, non conosciuto, irrappresentabile, nella cui messa in scena è bandita ogni tipo di esclamazione. Al contrario (nella sua rappresentazione) si esige (sempre) pudore e trepidazione. Insomma, non abbiamo nessun diritto ad appropriarci degli ultimi istanti di vita di una persona. Figuratevi se qualcuno carrella su una persona che muore. In questo modo, non solo invadiamo, per così dire, un territorio non rappresentabile, ma, corriamo un rischio grave: facciamo spettacolo di ciò che non può essere rappresentato.
C’era di più. Rivette avanzava l’accusa di complicità. I nazisti hanno invaso i corpi riducendoli in cenere, e tu Pontecorvo, invadi il corpo di una persona con una carrellata. La morale, avrebbe affermato Rivette citando Moullet, è una questione di carrello. E Daney avrebbe consigliato ai suoi studenti di vedersi e rivedersi Notte e nebbia, per capire la differenza di stile.

Mah? – pensavo a 22 anni – doveva essere una questione un po’ sofista e poi, davvero, a guardarla ora quella carrellata non si capisce qual è il problema. Il carrello dov’è? e la morale? Mah?

Tuttavia di tanto in tanto esempi tratti dalla questione preliminare di Rivette mi venivano a mente.
In una antologia di racconti, Patrie impure, pubblicata da Rizzoli (2003), lo scrittore Antonio Moresco, orgoglioso teorico di una letteratura personale, al limite del solipsismo, quanto convinto sostenitore di una narrativa scandalosa, immagina (nel racconto «I maiali») di essere nei panni di Alfredino Rampi, il bimbo di nemmeno sei anni che, nel il 10 giugno 1981, ebbe la sventura di cadere in un pozzo a Vermicino, nella periferia sud di Roma. Purtroppo tutti i tentativi di salvarlo – in parte con l’uso di una trivella, che però produsse solo l’effetto di far scendere ancora più il bambino nel buco, in parte e soprattutto grazie ad alcuni volontari che, in ragione alla loro statura minuta, più volte tentarono, inutilmente, di calarsi nel buco e imbracare il bimbo – tutti questi tentativi, andarono a vuoto.
L’Italia intera assistette per più di 48 ore di fila alla prima (infinita) tragedia in diretta della storia della televisione. Molti apparecchi televisivi si ruppero per eccessivo surriscaldamento. Non solo: parecchie persone stazionarono per ore, sotto il sole e durante la notte, nei pressi del buco, rendendo difficili le operazioni di soccorso.

Moresco, per condannare questo voyeurismo collettivo, immagina, appunto, di essere Alfredino Rampi e di rinunciare a dare la mano al soccorritore che gliela tendeva, pur di non tornare in superficie e vedere le facce dei maiali che bivaccavano nei paraggi. La sua morte sarebbe (quindi) stata una lezione di rigore per quell’Italia becera e guardona che lo attendeva al varco.
Una certa critica ha molto amato questo racconto di Moresco, leggendo, proprio nelle righe finali, una spietata critica all’Italia volgare e corrotta che appunto, pare essersi cominciata a rivelare negli anni ’80. Eppure Alfredino Rampi, se ne avesse avuto la possibilità, avrebbe afferrato la mano del soccorritore e di sicuro sarebbe risalito in superficie. Ai maiali non avrebbe dato molta importanza.

Appropriarsi (come narratore) delle ultime ore di vita di un condannato a morte o di un bambino in pericolo di vita, per portare avanti una propria battaglia, è un’operazione rischiosa. Questo particolare punto di vista di Moresco (a voler seguire la lezione di Rivette) dovrebbe essere più abominevole della carrellata di Pontecorvo? Moresco contesta i guardoni italiani che pur di assistere danno sfoggio di morbosità continua, invadendo il pozzo per poter guardare meglio, ma come scrittore sembra sposare il loro linguaggio. Non esita infatti a invadere, lui stesso, metaforicamente, il corpo di un bambino e una volta completata l’occupazione, attribuisce al bambino una volontà che non poteva avere.
Questo racconto, insomma, soprattutto ci pone davanti alla seguente domanda: per contestare i maiali guardoni, è più scandaloso assumere il punto di vista di vista (eroico) di un puro ragazzino di cinque anni (allontanandosi così dal maiale che è in noi) oppure quello di un vecchio maiale che sta nei pressi del buco a guardare?
Come si fa ad eliminare l’ambiguità?

Ma mica solo a Moresco è capitato, pure a me. A 30 anni cominciai a scrivere dei reportage su alcune situazioni criminose che avevo conosciuto dopo una lunga esperienza lavorativa nella zona di Villa Literno. Avrei voluto unire sia l’esperienza diretta –m’ero trovato più volte faccia a faccia con boss, piccoli e grandi – sia la lettura di alcune istanze cautelative che mi erano capitate sotto mano. Quest’ultime contenevano informazioni che mi sembravano utili a quello che stavo per raccontare. Avevo, insomma, il desiderio di scrivere un reportage forte ed efficace su alcuni aspetti della camorra: esperienza diretta più fonti giudiziarie, cioè verità assodate, passate agli atti. Cosa c’era di meglio per rileggere un modello e non cadere nelle eventuali collusioni?

Ma un amico magistrato, mi fece notare che dal punto di vista giuridico le istanze cautelative non sono la verità. Sono solo pagine e pagine di elementi che vanno provati. «Hai dei doveri – mi disse – Devi seguire un metodo».
Inoltre, fatto più grave, nel mio reportage usavo la presenza di me medesimo, ovvero il mio sguardo, per fornire una dose di verità supplementare. Come dire: c’ero, l’ho visto, lo scrivo, quindi il mio sguardo più l’istanza, uguale verità. Raccontavo una storia, insomma. Che riguardava un camorrista. Sapevo chi era questo camorrista. In più avevo i documenti della procura, le istanze cautelative appunto. Dunque, pensavo, ora, sommando due tipi di sguardi, posso provare a costruire una storia con la giusta dose di elementi romanzati – altrimenti, parliamoci chiaro: chi lo legge questo reportage?

Ma il mio metodo epistemologico, secondo il magistrato, era molto pericoloso, in quanto condannava (letterariamente) senza un giusto processo delle persone sulla base di istanze cautelative, ovvero accuse che andavano provate. Siccome io, però, alla sbarra dal mio amico magistrato, insistevo sulla forza della letteratura come territorio con una sua particolare giurisdizione, il mio amico mi fece ancora notare, molto a malincuore, che in realtà questo mio reportage dimostrava solo il fascino che provavo verso la cultura camorristica. Il succo della questione, il dettaglio che inficiava la narrazione, la carrellata corriva era la seguente: nella costruzione della storia, avevo riportato un aneddoto. Il mio uomo, il camorrista, per provare la sua fedeltà a un nuovo clan con cui aveva scelto di lavorare, era stato costretto a bere un bicchiere di urina. Almeno così si diceva in giro. Raccolsi la testimonianza, per così dire, popolare e la confrontai con quella offerta dai documenti giudiziari. A me sembrava una bella storia, un uomo decide di cambiare clan e pur di farlo si umilia. Tra l’altro era una storia, all’epoca, ancora in corso.
Ma, ahimè, l’amico magistrato mi fece notare che da analisi più approfondite quella storia risultava un falso messo in giro da alcuni esponenti dello stesso clan per far condannare quell’uomo a morte. Non c’era stato nessun tradimento, quella storia era solo un modo per creare sospetti nell’ambiente e far scattare quindi la condanna a morte.

In effetti la camorra usa spesso questo metodo. Si mettono voci in giro sulla presunta infedeltà di un affiliato: mi sembra che quello…ho sentito dire… All’interno del clan d’appartenenza si apre subito un’indagine, ma spesso, cercare prove a difesa di un sospettato può far sospettare di infedeltà gli stessi camorristi che indagano su quell’uomo. Una diceria messa in giro è già una mezza accusa che a volte per varie ragioni di strategia conviene non smentire.
Il fatto è che se il mio reportage fosse uscito sul giornale con quel dettaglio particolare, potevo contribuire ad alimentare il clima di sospetto verso quell’affiliato. C’era poi il fatto non secondario che subivo anche io il fascino del linguaggio ambiguo della camorra. Pur volendo distanziarmene, ne sposavo lo stile. Loro erano ambigui e io, come scrittore, in un punto fondamentale del mio racconto, cedevo all’ambiguità. Mi accontentavo delle voci messe in giro e di documenti che dal punto di vista giuridico non avevano ancora passato o l’esame della prova.

In questi anni ne ho contate centinaia di complicità stilistiche con quello stesso male che vogliamo condannare, in me, negli scrittori, nei politici, nei fotografi, nei registi, nei discorsi comuni. Ma è molto difficile stabilire una regola, non l’ha trovata Susan Sontag – Davanti al dolore degli altri (Mondadori) o J.M. Coetzee, in quello che forse è la più bella – perché controversa e coraggiosa – riflessione sul problema del male, in Elizabeth Costello.
Come si fa, per esempio, nel caso di foto vere, di immagini forti e tuttavia utili per una maggiore comprensione del mondo?

Non lo so. In parte c’entra l’esperienza della cosa che si racconta. Un dolore subito sul proprio corpo, qualunque esso sia, dovrebbe disciplinare una narrazione più attenta ai dettagli, parca e misurata (ricordare è doloroso, e non hai voglia e la forza di fare spettacolo della tua condizione o montare un carrello per inquadrare un volto nella giusta angolazione). Sì, dovrebbe, ma non è detto. Forse è tutta questione di modello e metodo. Il modello è quello che la tradizione ci passa, il metodo il modo attraverso il quale riproduciamo o, meglio, rileggiamo il modello. Magari allontanandocene.

Alcune volte la questione preliminare ci costringe a trovare un altro punto di vista. Come mai le foto africane di Cartier Bresson (mostra a Roma, all’Ara Pacis) sono diverse da tutte quelle viste, diverse e bellissime, con quei contorni mossi, con quei corpi tremolanti? Perché Bresson non voleva essere complice del colonialismo, non desiderava, cioè, ritrarre i tipici africani, dediti alle tipiche occupazioni, quelle che tanto incuriosiscono e piacciono agli occidentali. Come mai va a fotografare l’incoronazione di re Giorgio VI e non ritrae il re, ma la gente che aspetta o guarda il re sfilare? Perché, semplicemente, era comunista e non gli andava di fotografare il monarca. Ma non per questo rinuncia al progetto, semplicemente gira le spalle alla monarchia e riprende le persone che guardano.

E poi c’è un’altra potenzialità nella questione preliminare.
L’architetto, un giovane aristocratico marchigiano, Giuseppe Sacconi – vincitore del concorso per la realizzazione di un monumento al Milite ignoto, quello del 1884 (il primo nel 1878, l’aveva passato un francese Paul Nénot, il quale aveva pensato di edificare il monumento a piazza della Repubblica, poi mai realizzato) – l’aveva vinto immaginando un monumento costruito con scale e terrazze a sbalzi, dove le persone potessero incontrarsi. Sacconi mori nel 1905 e una commissione di tre architetti, Koch, Piacentini e Manfredi prese la direzione dei lavori e comunque alle fine, tra varie interruzioni, uso spregiudicato del marmo bottoncino e decorazioni e statue e archi e demolizioni, ecco l’altare della Patria: un monumento che esprime distacco algido e poi quel senso di isolamento, visto che interrompe via del Corso e poi c’è una cancellata a chiudere l’ingresso.

«Nella sua solennità, nel suo imporsi con la sua massa di marmo candido, il monumento sembra rappresentare qualcosa di immobile e riconoscibile. Un immenso edificio costruito per esaltare la ritrovata unità, la libertà e in definitiva, la patria. Ma quale patria?»

Si chiedono Majanlahti e Guerazza nel bellissimo libro, Roma divisa (il Saggiatore). E più avanti nel libro ricostruiscono le vicende che hanno trasformato questo monumento da sacrario al Milite ignoto a vessillo del fascismo. Il monumento divenne in breve il principale set del fascismo. Le grandi cerimonie passavano lì. Gli autori ricordano la giornata della fede (18 dicembre 1935) quando la regina e la moglie di Mussolini e centinaia di donne donarono le fedi d’oro per finanziare la guerra in Etiopia e soprattutto la visita di Hitler, il 3 maggio del 1938: «Fu l’apogeo dell’utilizzo fascista del monumento per rappresentare i valori maggiormente esaltati dall’Italia dell’epoca: obbedienza, nazionalismo, sacrificio».

Il modello era questo. Dunque i cinque ragazzi vincitori del concorso per la realizzazione del monumento alle fosse ardeatine, con il gruppo RISORGERE (Aprile, Calcaprina, Cordelli, Fiorentino, e lo scultore Coccia), si devono essere posti il problema. Possiamo costruire un monumento che commemori le vittime dell’orrenda strage nazifascista e contemporaneamente usare la grammatica (sia pure architettonica) del fascismo?

«C’è più senso estetico in questo monumento romano, dedicato ai morti, che nella maggior parte delle palazzine multipiano dedicate (presumibilmente) ai vivi». Disse così Munford, nel 1957. L’episodio è tratto dal bel libro di Adachiara Zevi, Monumenti per difetto (Donzelli). Difatti, racconta la Zevi, «il carattere rivoluzionario dell’opera è duplice, non solo perché per la prima volta un monumento è concepito come percorso dinamico anziché come oggetto statico, ma perché gli episodi architettonici e artistici posti in relazione corrispondono esattamente a quelli della storia da ricordare, consentendoci di riviverla e attualizzarla (…) Non più oggetto, figurativo o astratto, da contemplare, ma percorso da agire, per rivivere fisicamente ed emotivamente lo stesso tragitto seguito dalle vittime: questa la prerogativa rivoluzionaria del mausoleo che si limita a indicare, attraverso segni dissonanti, i momenti cruciali di quel tragitto: le emergenze, naturali, architettoniche e artistiche, non sono infatti stazioni di arrivo, ma tappe intermedie di un circuito continuo».

Insomma, i cinque di RISORGERE rifiutarono il modello grammaticale del fascismo. E con metodo lo rilessero. Una questione di stile e di morale. E questa è l’unica conclusione alla quale sarei finora giunto sulla complessa e intrigata questione della rappresentazione: un altro mondo è possibile, sì. Bene invece di dichiararlo con grida, meglio dimostrarlo.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.