Lavorare per vivere

Il lavoro è anzitutto una cosa seria. Il Midrash di Tu bi-Shevat racconta come bisogna comportarsi se ci viene annunciato l’arrivo del Messia, mentre stiamo eseguendo la mitzvach di piantare un albero. La risposta è che prima bisogna completare la mitzvach e poi accogliere il Messia a braccia aperte.
Questa è un’etica del lavoro alla quale bisogna cercare di attenersi: le cose che si fanno si portano a termine, senza nessuna scusa per lasciarle perdere. Questo senso, quasi “sacro” del fare e dell’impegno, è una forma di rispetto verso gli altri e anche verso se stessi.

“Il posto fisso non esiste più”, ha detto, coraggiosamente e provocatoriamente, Matteo Renzi concludendo i lavori della Leopolda e rispondendo alla manifestazione della CGIL del giorno precedente, con una grande partecipazione di lavoratori e disoccupati, forti nella comprensibile protesta ma, stando almeno al discorso di Susanna Camusso, deboli nell’analisi e nelle proposte. È cambiato il mondo e così anche il lavoro, la sua funzione e le sue simbologie sociali. Battersi per un posto fisso e garantito per tutti è un obbiettivo giusto, ma anche una lotta che fa finta di non vedere che il campo di battaglia è radicalmente mutato.

Anzitutto perché, qui in Occidente, c’è (e ci sarà) molto meno lavoro di trent’anni fa. Per due motivi:
– altrove si lavora di più e con costi minori;
– la tecnologia ha sostituito in molte funzioni l’uomo, garantendo, a pochi, grandi profitti con relativamente bassi costi.

Molti imprenditori spostano le fabbriche in altri luoghi del mondo dove la manodopera costa meno e ha meno garanzie sindacali, e le tasse non pesano così tanto. Oppure si limitano ad acquistare altrove i manufatti che da noi costerebbe troppo produrre. Inoltre, ci sono interi settori produttivi che hanno visto rapidamente sparire funzioni (sostituite da macchine) e quindi il bisogno di posti di lavoro. L’innovazione tecnologica ha pesanti effetti riduttivi sul numero dei posti di lavoro. A causa dell’automazione sparirà in un paio di decenni la metà degli attuali posti di lavoro. Lo ha spiegato bene, di recente, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nella sua lezione per i sessant’anni della rivista bolognese Il Mulino (che, pionieristicamente e senza pregiudizi, iniziò un’indagine e una riflessione sociologica su queste questioni, quando il dibattito in Italia, e non solo, era del tutto ideologico). Ad esempio, in un settore dove ho lavorato per un ventennio (l’editoria libraria), a causa della diffusione dei computer, i posti di lavoro si sono dimezzati. Al di là delle crisi delle vendite (che ha molte cause e, tra queste, anche la crescente diffusione dei tablet e del commercio librario via mail), si è ridotta la produzione e oggi per mandare avanti una casa editrice bastano poche persone. Ed è così anche per le fabbriche metalmeccaniche, l’amministrazione, il commercio, i servizi.

Non c’è più lavoro come ce n’era anni fa, e sarà sempre peggio. Da questa constatazione non si può prescindere e i sindacati, quando chiedono che i governi prendano dei provvedimenti legislativi e creino le condizioni perché i giovani non debbano aspettare anni per trovare un lavoro, non diminuisca il numero degli assunti e, addirittura, crescano le opportunità lavorative, sembrano non vedere più con lucidità che cosa sta succedendo nelle nostre città e campagne, e in certe zone del paese dove il lavoro nero (o, addirittura, la malavita) sembrano essere le uniche alternative alla disoccupazione.
Inoltre, sono cambiate anche le modalità del lavoro: periodicità, frammentarietà, elasticità, delocalizzazione. Tutte cose che cozzano con l’idea stessa di posto fisso, stabile e sicuro una volta per tutte e fino alla pensione.

Questo fatto apre un enorme problema sociale, che per pigrizia e paura si stenta a cogliere in tutta la sua portata. Renzi ha ragione quando dice che rendere per legge impossibile il licenziamento per motivi economici sposta il problema del “welfare” sull’imprenditore: se le tue vendite diminuiscono, e hai quindi meno guadagni, non puoi mandare a casa una parte dei tuoi lavoratori perché li rovineresti. Ma questo è un problema che si deve assumere uno Stato sensibile ai problemi dei propri cittadini (soprattutto i più deboli), incaricandosi di ridistribuire le risorse (anzitutto con un efficiente sistema fiscale), permettendo a tutti, con dei sussidi di disoccupazione, di avere di che campare. È poco realistico pensare di costringere un imprenditore (anche il più farabutto o incapace) a pagare comunque gli stipendi quando non guadagna i soldi per poterlo fare.
In effetti, già da anni lo Stato (cioè: la collettività dei paganti le tasse) in parte aiuta l’imprenditore a farlo, attraverso lo strumento della cassa integrazione. Ma questi sono rimedi che non possono valere all’infinito, mentre, purtroppo, la crisi sarà lunga, e i soldi (e la volontà politica) per la solidarietà rischiano di finire.

L’attuale governo, come quelli di altri paesi d’Europa, sta pensando a delle forme di “salario minimo garantito”. Così, dal diritto al lavoro si scivolerà verso il diritto al reddito? È un po’ inquietante immaginare una massa di disoccupati che vivacchiano con una paghetta passata dallo Stato. I costi, anche psicologici e morali, di una simile forma di rimedio alla mancanza di lavoro, rischiano di essere inimmaginabilmente alti. Ma basta andare in quei paesi dove fasce consistenti di popolazione vivono delle rimesse di uno o più membri della famiglia emigrati a lavorare all’estero, come ad esempio l’Ucraina o la Romania, per osservare cosa accade, soprattutto nei piccoli paesi, dove gli uomini ciondolano tutto il giorno al bar e i figli esibiscono un lusso finto ed effimero, pagato dalla madre che fa la badante e stringe la cinghia per risparmiare e mantenere il resto della famiglia (e la triste illusione di stemperare le conseguenze della sua assenza).

Per dare una risposta alla disperazione dell’inattività forzata, si dovrà riprendere in considerazione l’ipotesi di Keynes di squadre di disoccupati che per avere il sussidio scavano inutili buche e altre che provvederanno a chiuderle…
Una soluzione migliore (non senza, ovviamente, problemi e rischi) ci sarebbe, e non c’è chi nella sinistra non l’abbia pensata (e, ad esempio in Germania, parzialmente praticata): lavorare meno, lavorare tutti. Se di lavoro ce n’è soltanto per una parte della popolazione, occorre iniziare a progettare una riduzione delle ore di lavoro (e di salario) a favore del lavoro per tutti. Ma per (e prima di) arrivare a questa, bisognerebbe ripensare radicalmente il nostro rapporto con il lavoro, la sua filosofia e i valori che attribuiamo ad esso.

Il lavoro non può essere il Fine della nostra vita: il Senso del nostro essere non deve esaurirsi nel nostro Fare. Il lavoro è uno strumento per guadagnarsi da vivere. Un mezzo al quale va data tutta la nostra attenzione e dedizione. Ma noi non siamo, né possiamo divenire, soltanto il nostro lavoro. La nostra realizzazione, e quindi il nostro Senso, vanno cercati e collocati altrove. Se uno diventa tutt’uno con il proprio lavoro, quando lo perde (al di là delle gravi implicazioni economiche e di sussistenza che ciò comporta), rischia di smarrire il Senso del suo stare al mondo. Oppure, quando la sua carriera (il modo in cui viene sancito socialmente, ed economicamente, il valore del lavoro che uno fa) si inceppa, tutto sembra crollare.
Il lavoro deve quindi essere ricondotto al suo vero (e non mistificato) valore economico-sociale. Lavoro per guadagnarmi da vivere, e lo faccio bene perché mi sento parte di una comunità che rispetto e ho coscienza dell’impegno che mi sono assunto. Ma il mio Senso sta altrove. Dove?

Non deve mai risiedere in una cosa sola: né soltanto nell’amore, né nei figli, né nello sport, né nella politica. Più luoghi, e modi di senso, uno ha e meno rischia il crollo e il disagio. Il Senso della vita deve stare in tante cose, perseguite con passione e dedizione, ma anche con il necessario distacco critico. Questo distacco, che è fatto di lucidità intellettuale e ironia (e soprattutto: autoironia), è la condizione per operare assieme agli altri, riducendo il rischio di prendere nella serietà sbagliata il proprio ruolo e attività. Con queste “difese” è possibile intraprendere un’attività, dove sia possibile dare il meglio di se stessi senza diventare alienati: senza perdersi indistintamente nell’altro. Avere l’idea della propria limitatezza e distacco, aiuta a lavorare meglio assieme agli altri. Chi smette di piantare l’albero perché sta arrivando il Messia manda all’aria la creazione del bosco di tutti. La soluzione dei problemi non può essere, per come è ormai diventato complicato il nostro mondo, sulle spalle di una persona sola: soltanto un pensare e operare di una collettività è destinato ad avere un po’ di successo. Mettere insieme competenze, caratteri, esperienze diverse tra loro permette a tutti di creare con soddisfazione, evitando il rischio di un “investimento monopolistico sul lavoro”. Pensare e fare assieme è la precondizione per lasciare libere delle parti di sé.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).