L’Arcangelo è il mio coach

9 marzo – Santa Francesca Romana (1384-1440), combattente.

"È suonato, dammi retta, il demonio non regge altre due riprese".

Hanno scoperto che ci sono poche donne negli stradari, e quelle poche sono quasi tutte sante. Se vi va potete approfittarne per biasimare il retaggio cattolico e maschilista eccetera eccetera, non avreste mica tutti i torti. Io mi limito a notare cattocomunisticamente il bicchiere mezzo pieno: senza le sante lo stradario sarebbe ancora più maschile. Il fatto è che per molti secoli l’unica carriera a disposizione dell’altra metà del cielo è stata la santità. Niente sbocchi nella ricerca scientifica, nessuna possibilità di carriera politica, forse c’era qualche possibilità di calcare le scene come attrice e ballerina ma ciò implicava spesso la sepoltura in terra sconsacrata. L’unico ambito nel quale erano riconosciute quote rosa di una certa entità era il calendario. Non un granché, ma con altre religioni sarebbe stato pure peggio. Non fatemi dire quali.

Prendete Francesca Romana, al secolo Francesca Bussa de’ Leoni in Ponziani, per gli amici Ceccolella. In altre epoche si sarebbe ritrovata epidemiologa, o poetessa, o entrambe le cose. A cavallo tra Tre e Quattrocento poteva giusto ambire all’aureola, e anche quella se l’è dovuta sudare. Giusto per invertire il luogo comune che vuole le ragazzine di buona famiglia costrette al convento contro la loro volontà, in questo caso era Francesca a voler sacrificare la propria verginità a Gesù, e fu la famiglia a costringerla a prender marito. In realtà non era una situazione così infrequente: non è che tutte le fanciulle smaniassero di sposarsi preadolescenti con dei trenta-quarantenni, con un rischio altissimo di morire di parto prima dei 25. Alla fine il chiostro non era un’alternativa da buttar via, specie se ci entravi con le raccomandazioni giuste e potevi trovare una nicchia dove fare i tuoi mistici comodi in Santa pace. Quando capì che i suoi avevano altri progetti, nella fattispecie un matrimonio d’interesse con un nobile che s’era rifatto il patrimonio con una macelleria, quando perfino l’alleato confessore smise di parlarle di angeli e di santi e cominciò a spiegarle quant’era bello tirar su dei bambini… Francesca smise di mangiare. Così anoressica andò in sposa dodicenne al suo ricco macellaio, per la verità un buon diavolo. Dovette intervenire Sant’Alessio con un’apparizione: Dai Ceccolella, non è niente, puoi fare la Santa anche se fai dei bambini, anzi.

Io ammiro molto Santa Francesca Romana, e un po’ l’invidio. L’ammiro perché non è una di quelle sante che si chiudono in monastero e poi si liberano al misticismo più sfrenato, eh, comodo, con otto ore di meditazione al giorno forse ce la farei anch’io. Ceccolella invece interpreta al meglio la figura di Santa part-time, con una famiglia a carico, ricca ma non fortunata (il marito si ritrovò invalido di guerra quando lei aveva 25 anni; lo accudì per altri trenta). E però in un qualche modo trovò il tempo di farsi una reputazione di Santa, e non in un bel contesto claustrale, ma in una zona complicata come Trastevere: c’erano visioni mistiche da affrontare, presenze demoniache da sconfiggere, congregazioni di Oblate da fondare, ma anche malati da soccorrere, affamati da sfamare, scorte di grano da sgraffignare ai magazzini del marito, che probabilmente lasciava correre, era un buon diavolo e una Santa in famiglia comunque non ti capita mica tutti i secoli. Siamo nella prima metà del Quattrocento, finalmente il Papa è tornato a Roma da Avignone, salvo che i francesi non se ne sono fatti una ragione e ne hanno nominato un altro, e quarant’anni se ne vanno così, tra papi e antipapi e un re napoletano, Ladislao, che assedia Roma ogni volta che gli va. Quando a Trastevere arriva la peste, Ceccolella, come capita ai Santi, assiste i malati con una carità encomiabile ma del tutto scevra da scrupoli di profilassi, e così il morbo le porta via due figli su tre. Il più piccolo, che aveva nove anni, le avrebbe poi presentato in sogno l’Arcangelo. (Continua…)

Io invidio molto Santa Francesca Romana, per via di questo Arcangelo che da quel momento in poi non si separò più da lei, assistendola nei ripetuti combattimenti col demonio, posizionandosi per lo più ai margini della visuale periferica. Di rado interveniva personalmente, tirando alla santa qualche buffetto bonario; per lo più se ne stava lì ai bordi e brillava, consentendo a Francesca di leggere il salterio di notte senza candele. Nei momenti di massima calma, la luce si concentrava negli occhi e Francesca riusciva a guardarlo in volto – il volto di un bambino di nove anni, ma più grande, formato Arcangelo. Durante il giorno però il fulgore cresceva e variava, a seconda del livello di santità che in quel momento Francesca stava esprimendo. Nei periodi di incertezza, di stallo, di pigrizia, la luce calava sensibilmente. Nei soprassalti di zelo, quando la giornata era buona, le preghiere filavano lisce e i malati si lasciavano curare, l’angelo riprendeva a brillare come un faro. In pratica Francesca aveva sempre un feedback immediato del bene che stava facendo: senza chiedere in giro, senza proporre questionari sulla qualità del servizio che gli utenti trasteverini avrebbero avuto qualche difficoltà a compilare, né guglarsi il nome ogni mezza giornata, che non è cosa che si addica ai santi.

Mai arrivato alla fine.

Magari se fossi un neurologo a questo punto avrei già una mezza idea della sindrome che le era capitata, ma non ho studiato niente di così serio nella vita. In compenso ho giocato a qualche videogioco, e l’angelo che brilla al margine del campo visivo mi ricorda gli indicatori che una volta stavano ai bordi del monitor in certi picchiatutto da bar, in pratica mentre affrontavi un ninja o un lottatore di sumo la colonnina di luce ti diceva esattamente quanta energia avevi, quanta te n’era rimasta, e se stavi vincendo o perdendo. Ecco, i veri lottatori quella colonnina non ce l’hanno, e lo sa Dio cosa non darebbero per averla; per sapere quanta benzina ci resta nelle ginocchia dobbiamo affidarci all’esperienza ma l’esperienza ci frega sempre – specie quando il tuo mestiere è prenderti delle botte in testa, insomma, sei lì che pensi Dai che ce la faccio e un attimo dopo sei al tappeto e un tizio che non ti ricordi bene sta contando cinque-sei, come sarebbe a dire cinque-sei…-sette? Sette? Ma i primi quattro non li ho sentiti, perdio, eppure ero qui, e questo ronzio tra le orecchie cosa diavolo – DONG! Game over. Francesca questi problemi non li aveva, l’Arcangelo la ragguagliava sempre in tempo reale sul kharma a disposizione, e nei casi estremi poteva anche appiopparle un ceffone, ma senza cattiveria, come un coach paterno al pugile suonato.

 

Uno dei giochi che ho amato di più si chiama Civilization, in pratica sei un autocrate con un impero da mandare avanti dall’età della pietra fino alla bomba atomica. Puoi anche fare delle rivoluzioni, collettivizzare i granai e smantellare le caserme, cambiare la tua denominazione da Cesare a Kaiser a Caro Leader – purché nulla in fondo cambi. È un gioco molto complicato; puoi passare giornate intere nel tuo angolino di mondo a cercare di imbastire una società come si deve e magari non hai ancora scoperto la polvere da sparo e dall’altra parte dell’Oceano stanno già fabbricando carri armati, chi lo sa? Nella prima versione del gioco l’unico modo di saperlo era morire. Morendo, avevi la possibilità di gettare uno sguardo retrospettivo sul mondo, e scoprire che eri stato bravissimo, o al contrario scarsissimo – te ne accorgevi soltanto in quel momento. Nelle versioni successive non c’è stato più bisogno di morire, ma io continuo a pensare che la vita somigli alla prima versione di Civilization. Sei lì in mezzo a infinite variabili, cerchi di farle quadrare al meglio; forse stai andando bene, forse stai fallendo miseramente, nessuno viene mai a dirtelo, nessun Arcangelo passa a mollarti uno schiaffone
– Leonardo cosa cazzo fai, lo senti il gong, lo senti, lo senti? Va bene fin qui hai sbagliato tutto, ma fai ancora in tempo a recuperare, capito? Devi lavorarlo ai fianchi, oppure non lavorarlo affatto. Hai capito?

– No.

– Vai.

– Non ho capito, cos’è che devo fare? Devo lavorarlo ai fianchi oppure? Angelo? Angelo? Dove sei? Dove diavolo sei? Angelo? Non ho capito…

– Sei, sette, otto, nove…

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.