La Banca per l’Innovazione

Questa intervista con Edmund Phelps è stata pubblicata sull’ultimo numero di Wired.

Edmund Phelps ha 77 anni, insegna alla Columbia University, ha vinto il premio Nobel per l’Economia nel 2006 e l’hanno scorso ha pubblicato una serie di proposte per la creazione di una “Banca dell’Innovazione” dedicata alla promozione e all’incentivo dell’imprenditoria creativa che è sempre stata nella tradizione dello sviluppo americano.
Quando ha cominciato a pensarci, a un credito per l’Innovazione?
All’incontro Sarkozy-Blair a Parigi del gennaio 2009 mi resi conto che servivano nuove banche per dare credito ai progetti innovativi. Il mio modello era la Deutsche Bank, che fece molto per finanziare le industrie dell’acciaio in Germania alla fine dell’800.
E come dovrebbero essere queste banche?
Penso a una rete simile a quella creata per il credito agricolo negli Stati Uniti, col Governo che fa un investimento iniziale e fornisce garanzie e incentivi, permettendo così la raccolta di fondi addizionali a un tasso di interesse basso. La banca raccoglierebbe competenze nel prestito per progetti innovativi, non sufficientemente garantiti per le grandi banche e troppo ambiziosi per le piccole.
Ma è il momento giusto per un progetto del genere?
Sarebbe il momento giusto sempre, ma adesso in particolare: gli investimenti sono molto fiacchi e dobbiamo riavviarli per rilanciare l’occupazione e portarla a livelli normali.


Che differenza c’è tra una Banca dell’Innovazione e una banca esistente?
Le banche tradizionali chiedono garanzie molto onerose e impongono tassi di interesse alti. La BdI avrebbe le competenze adatte e i costi contenuti per fare concedere credito dove le altre banche non osano.
Perché no, non sono interessate nell’innovazione?
Hanno alti costi di capitale e sono soggette a obblighi finanziari onerosi. E poi non sono adatte a dedicarsi alla competenza necessaria per giudicare i progetti giusti ed evitare quelli sbagliati.
E come fa una banca diversa a sopravvivere e ottenere risultati finanziari se non segue i criteri convenzionali?
Si scaverebbe un mercato attualmente poco sfruttato e poco servito e avrebbe il vantaggio dei sussidi e delle garanzie statali.
Non c’è una contraddizione nel suo riferirsi alle tradizioni passate dell’imprenditoria americana per incentivare progetti che invece debbano essere innovativi?
No, perché sarebbe bello se le grandi banche si adattassero a questa tradizione, ma non lo fanno: quindi è di nuove banche che parliamo per soddisfare la domanda di innovazione.
Perché sostiene che stimolare la domanda non sia una buona soluzione per uscire dalla crisi?
Perché non basta senza una drastica crescita dell’innovazione, e la domanda è stata abbondante per molti anni senza che l’innovazione crescesse. Anzi, gli incentivi fiscali che favoriscano la domanda potrebbero fa crescere i tassi di interesse e scoraggiare ancora di più i nuovi progetti.
Quando lei parla di innovazione a cosa si riferisce esattamente? Ai prodotti o ai metodi di business, o ai metodi produttivi?
Gli economisti generalmente definiscono innovativo un nuovo prodotto o un nuovo metodo per produrlo che ottenga una diffusione significativa, che lasci un segno: un prdodotto nuovo che non sia adottato non genera innovazione, per capirsi.
E come la si genera?
Secondo Joseph Schumpeter l’innovazione arrivava solo dalle scoperte scientifiche o dalle esplorazioni estranee al settore del business. Oggi è riconosciuto che la maggior parte dei progressi economici avvengono a partire da innovazioni grandi e piccole concepite dalle imprese stesse e da chi ci lavora, motivato dal desiderio di risolvere problemi tecnici e commerciali attraverso l’esperienza e l’intuito maturati nella propria carriera.
E la ricerca scientifica?
Naturalmente il mondo beneficia dei risultati della ricerca in ogni settore. E ogni paese raccoglie i frutti dei prodotti e metodi introdotti negli altri paesi. Ma una nazione – compresa l’Italia – è arricchita soprattutto dall’innovazione che la sua stessa economia vuole ed è in grado di produrre. E a dirla tutta, la stessa costante ricerca di progresso è un risultato di per sé.
Quali sono i “profondi limiti strutturali della nostra economia” di cui parla nei suoi articoli?
Negli Stati Uniti, la bolla immobiliare, la quasi insolvenza di moltissime banche, il grande indebitamento di molte famiglie. E il sistema delle ipoteche è un disastro.
E che prospettive di miglioramento ci sono?
Ci sono: il surplus di case va incontro a un inevitabile detrioramento materiale, l’indebitamento delle famiglie sta migliorando. E le forze del mercato stanno generando nuove idee per prodotti e metodi che le società a un certo punto si troveranno a dover sviluppare. Questo genera la creazione di posti di lavoro in alcuni settori, e successivamente su tutti.
Lei accusa le grandi aziende di non prendersi dei rischi e non pianificare obiettivi a lunga scadenza: ma non c’è una componente di prudenza a ragion veduta in questo comportamento?
Sono gli amministratori delegati a prendersi dei rischi solo sull’immediato e sui bonus che ne riceveranno, come i manager bancari nel 2006. Ma temono che progetti a lunga scadenza non mostrino risultati abbastanza rapidi e li facciano sostituire.
C’è stato un calo degli investimenti nelle aziende di nuove tecnologie e nella Silicon Valley: è stata inevitabile cautela, o pavidità degli investitori?
Io non accuso gli investitori: quello che dico è che la Silicon Valley si è ridimensionata quando era ancora troppo piccola per finanziare investimenti innovativi sull’ampiezza complessiva dell’economia americana.
Il mese scorso Obama ha citato i successi di Steve Jobs per lodare lo stimolo del successo economico nella grande imprenditoria americana: a cosa mirava?
Forse voleva dare fiducia nell’economia in generale, ma credo che stia anche cercando di riorientare l’economia dagli investimenti a breve termine e poco rischio verso iniziative più creative e coraggiose, come quelle prese da Jobs.
Obama insiste molto sull’educazione sulla formazione di profesionalità qualificate e adeguate ai nuovi tempi…
Sì, ma non si deve dimenticare dei lavoratori meno qualificati e della creazione di incentivi per le aziende che creino posti di lavoro a salari più bassi. A Singapore il progetto di sgravi fiscali di questo genere ha arrestato una grossa crisi e ha invertito una tendenza di crescita della disoccupazione.
Non c’è il rischio che un progetto di questo genere consenta un più ampio abbassamento dei salari?
No, se lo studi bene non abbassa nessun salario.
L’idea della Banca dell’Innovazione ha fatto progressi da quando l’ha esposta la prima volta?
Il Senato americano l’ha inclusa in un disegno di legge quest’estate. Io sono fiducioso che se venisse adottata farebbe un gran bene e sarebbe apprezzata. Sarebbe molto rischioso non fare niente per reindirizzare l’economia verso l’innovazione.
Anche fuori dagli Stati Uniti?
Una rete di banche di questo genere sarebbe un’ottima cosa per ogni economia con una tradizione di innovazione.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).