Io e gli italiani e il film di Luchetti

La nostra vita. Di Daniele Luchetti. L’ho trovato un film con un ottimo, anzi coraggioso, punto di partenza. E cioè, provare a spiegare che gli operai sono vittime di una condizione e non vantano, invece, una particolare vocazione. Un ragionamento che negli anni ‘40 portò avanti Simone Weil, dopo aver lavorato come operaia alla Renault: la condizione operaia è appunto una condizione, non una vocazione. Ciò significa che l’operaio è un individuo con specifici sentimenti, ambizioni, desideri e questi sentimenti non mirano a perpetuare una presunta vocazione di classe. Per procedere in questa indagine, i due sceneggiatori, Rulli e Petraglia, scelgono, credo con saggia accuratezza sociologica, di raccontare una (poco nota) zona periferica romana. In piena espansione edilizia. Come sarà, allora, la vita non di generici operai, ma di una persona che di mestiere fa il capo cantiere? Che desideri avrà? E le sue ambizioni? Se lotta,lotterà per garantire nuovi e sempre migliori diritti alla sua classe d’appartenenza, o si limiterà più semplicemente a costruire più velocemente possibile il condominio senza badare al come?

Insomma, basta la parola operaio per garantirci un percorso morale di lotta? Non basta ed è giusto che il film parta con questo obiettivo: i nostri sogni non sono migliori di noi, dunque esaminiamo la brutale materia. Infatti, il protagonista, Claudio entra nella storia con il piede sbagliato (e mi piace che sia sbagliato), scopre il cadavere del guardiano, di nazionalità rumena. Potrebbe denunciare l’accaduto e fare bloccare il cantiere, ma sceglie di non farlo. I morti son morti – poi il guardiano è un ubriacone – e Claudio vuole vivere, ha già due bambini e sua moglie, Elena, aspetta il terzo. È il primo conflitto che Claudio vive, molto velocemente (ma la sua è una condizione, non una vocazione) e che si riflette su di noi, pubblico borghese seduto in sala. Sicuro che noi, nelle condizioni di Claudio, avremmo denunciato e bloccato i lavori?

A questo punto, come spettatore dovrei cominciare  a fare i conti con il conflitto rimosso di Claudio (e con i miei), quando ecco che Elena, inaspettatamente, muore di parto (una scena che ho trovato ben girata, in fuori campo, pudica, sfocata). Claudio ora è un vedovo. Questa è di sicuro una condizione. E anche qui, ora a maggior ragione, la vita deve andare avanti: altrimenti, come farò con i miei figli e con il lavoro? Claudio, non sembra particolarmente colpito dal lutto, anche se un flash back ci va vedere Claudio, inquadrato in primo piano che canta, anzi grida cantando, una bella canzone di Vasco Rossi con un ritornello indicativo: e la vita continua. Confesso che ho avuto un moto  (razionale) di stanziamento dalla narrazione, mi succede ogni volta che qualcuno vuole estorcermi un’emozione, ricattandomi emotivamente: la musica alta, il primo piano, il pianto trattenuto, ma confesso anche che sono di nuovo entrato nella narrazione, perché l’elemento di sopra, cioè il conflitto rimosso è subito tornato. Assistiamo infatti a un dialogo tra Claudio e il direttore dei lavori. Quest’ultimo gli dice: devi essere paziente, devi elaborare il lutto e Claudio invece rilancia: ho scoperto il cadavere del guardiano nel vano ascensore, lo stesso che tu volevi far murare. Bene, o mi appalti (senza nulla pretendere in cambio) una palazzina, così che io possa gestire tutto e godermi i frutti o ti denuncio per occultamento di cadavere.

A questo punto, nonostante il colpo basso, melodrammatico e cioè la morte della moglie di Claudio, ovvero: ho altro a cui pensare adesso, non sperate che denunci, io spettatore ci sono ancora. Perché il film sta evidenziando il suo vero tema, l’assenza dei sentimenti, ossia, l’incapacità di affrontare il dolore genera corruzione morale. Se non si è capaci di affrontare il proprio dolore, se non si possiede una grammatica sentimentale, come si può accogliere il dolore dell’altro? La strada verso il cinismo è lastricata dalla nevrosi. La rimozione nevrotica è il nostro grande difetto? Forse sì, insomma, è  non è una tendenza tutta italiana quella di far eliminare il conflitto e rilanciare? Il modello pubblicitario alla Berlusconi amplifica questo canone.

Ma allora, perché nonostante la presenza di un tema così forte e giusto e coraggioso, il film non mi ha convinto? O meglio, mi ha lasciato una spiacevole e non ben precisata sensazione di sospensione, forse meglio: di ambiguità? Per via di un ingrediente che qui, nel film mi è sembrato aggiunto a piene mani: il melodramma. È o non è il melodramma, nella sua versione degradata si intende, un’altra caratteristica nazionale? La frase celebre di Alberto Sordi, a me mi ha rovinato la guerra, ovvero qualcosa di più grande di me mi ha costretto a essere come sono, può spingerci sia verso la commedia (ridere e analizzare o ridere e basta, dipende) oppure verso la giustificazione ad oltranza. Se il mondo mi toglie qualcosa di bello, come mia moglie e mi lascia solo con tre bambini, allora, posso io, (ho la possibilità di) fottere il mondo sperando di eliminare le barriere che bloccano i miei desideri? Il melodramma allora è o non è un altro modo per scavalcare il conflitto e non farsi sentire il gelo di alcune scelte?

Credo, o meglio ho sentito, che questo film si avvicina a un tema fondamentale e nello stesso tempo cerca di affrontarlo e risolverlo abusando di un elemento inquinante, il melodramma appunto. Il film infatti prosegue facendoci vedere Claudio che si muove (male, è un incompetente), tentando di tenere fede all’impegno e consegnare la palazzina. In questo percorso Claudio compie molte azioni scorrette (non paga gli operai ecc.) però ogni volta che platealmente sbaglia di contro gli succede qualcosa di ancora più brutto – e che lo prescinde – e che lo costringe in un angolo (e qui attira sotto ricatto la mia simpatia) e, in un certo senso, messo alle corde, giustifica ai miei occhi la prossima azione disdicevole. Claudio sembra sempre vittima di una condizione esterna e non delle sue stesse azioni. Era riuscito a procurasi i soldi per pagare gli operai chiedendo un prestito al suo amico spacciatore (che però è sulla sedia a rotelle e non può fare altro che spacciare) ma sul più bello gli usurai picchiano l’amico spacciatore perché pretendono, qui e ora, subito, i soldi. Claudio è costretto a correre dall’amico con i soldi e quindi non può pagare gli operai.

Questo tipo di scelta narrativa viene usata ogni volta che si affronta il tema del conflitto rimosso (e delle sue conseguenze) e siccome queste scelte sono una costante nel film, spesso mi costringevano (anche a me) in un angolo. Non capivo cioè se dovevo commuovermi per gli operai e per la triste condizione sfortunata di Claudio, contro cui il mondo continua ad accanirsi. Anche io in angolo, dunque, costretto all’indecisione emotiva. Ora, siccome mi è particolarmente caro il tema del film e mi sembra coraggiosa la scelta, mi sono chiesto se questa insoddisfazione potesse essere risolta nel finale o magari in un punto del film nel quale avrei potuto identificare con più chiarezza i miei sentimenti. Ho chiesto in giro e ho capito che, per esempio, il finale ha causato due tipi di reazioni negli spettatori: chi l’ha trovato amaro, chi consolatorio. Mi identificherei nella seconda scuola, perché, vero, Claudio alla fine aggiusta tutto anche se niente gli riesce bene, insomma fallisce e credo sia nelle buone intenzioni degli autori lasciare intendere che questo fallimento sia dovuto all’insensatezza.

Claudio avrebbe dovuto da subito riconciliarsi con il mondo, con il suo lutto, accogliendo i bambini nel lettone (che nel film simboleggia la rimozione) invece non lo fa e paga con il fallimento. Non ha niente in mano, niente di materiale, si intende, ma ora ha vicino a lui gli affetti più cari. Non mi è chiaro però se questa amarezza si sviluppi perché Claudio non è riuscito nel suo intento – non ha fatto i soldi che s’era prefissato di fare –  oppure perché ci si rende conto che la sua rimozione ha generato negli altri, nevrosi e sofferenze. Ancora una volta, nel finale, ho provato quella sensazione di incompiutezza: per chi piango adesso? Quale morte è più importante, quella di Elena o del guardiano ubriacone caduto nel vano ascensore? Quale scelta vale di più, pagare gli operai o l’amico spacciatore? E il figlio del guardiano, l’unica persona che sembra distanziarsi da quel mondo brutale e sterile è anche però l’unico che conosce la verità: Claudio non ha denunciato la morte del padre. Ma preferisce non dirlo in giro.

Ho desiderato un film nel quale il protagonista sia vittima e carnefice, così la facciamo finita con il sociale (per dirla alla Carmelo Bene), ma ho la sensazione che Claudio sia soltanto vittima di avverse condizioni. Mi sono sentito più portato a  giustificare che ad analizzare la complessa rete di sentimenti stesa fra me e gli altri.  Si intende, non esigo una dichiarazione didascalica, di bene o male, ma uno sguardo morale sì, anche solo accennato, di tanto in tanto. Qualcosa che mi faccia sentire il gelo. (la morale è una questione di carrello, secondo Rivette). Luchetti, invece, sceglie nel finale di usare ancora la canzone di Vasco Rossi: la vita continua, la stessa ascoltata durante il funerale di Elena. E allora? Non abbiamo imparato niente? Continua sì, ma come? Con quali conseguenze? La triste condizione è anche una giustificazione?

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.