Stato d’Italia

Arriva a Milano la mostra Stato d’Italia, figlia dell’omonimo libro che abbiamo costruito lungo tre anni di percorso collettivo, la sottoscritta, Emiliano Mancuso autore delle immagini, i giornalisti Andrea Milluzzi, Laura Eduati, Angela Mauro e Davide Varì. Lucia Annunziata ha contribuito con la prefazione al volume.

Il libro, Stato d’Italia edito da Postcart è stato un piccolo successo editoriale e la mostra, dopo varie tappe in Italia, sarà alla Fnac di Via Torino a Milano da mercoledì 28 marzo. Per chi mi segue su questo blog voglio riassumere il senso di questa esperienza attraverso una conversazione che ho fatto a posteriori con Emiliano Mancuso e che si è trasformata in un’intervista.

Che rapporto c’è tra parole e immagini in questo volume?
Sono due linguaggi che corrono paralleli senza però essere didascalici, nel senso che le fotografie non sono semplici illustrazioni del testo o il testo una semplice didascalia alle fotografie. Quando siamo partiti con questo progetto l’ambizione era quella di creare delle connessioni fra due modi differenti di interpretare la realtà: testo e immagini. Un libro da leggere e da vedere, lasciando al lettore la libertà di fare il suo percorso.

Si parla spesso d’inchiesta, pensi che questo libro sia un’inchiesta?
Se per inchiesta s’intende svelare retroscena segreti di una realtà, il nostro è più un reportage che non un’inchiesta, un raccontare più che investigare. Se invece s’intende la denuncia e la testimonianza di una realtà in crisi come quella che sta vivendo il nostro paese da qualche anno, sì, direi che il nostro è un libro d’inchiesta.

Se è vero che è un’inchiesta manca però la cronaca. Tutto sembra successo ieri come un anno fa. Non lo senti come un limite?
Più che un limite è stata una scelta: volevamo raccontare delle storie che potessero superare il qui e ora della cronaca e magari resistere più a lungo nel tempo. Il tentativo era fare un documento che testimoniasse questo tempo. Registrando il presente, offrire elementi di comprensione per il futuro. I mali del Paese che abbiamo raccontato resisteranno a questa crisi, al berlusconismo. Fanno ormai parte della nostra storia.

Gli articoli di questo volume hanno il sapore di essere scritti più per un quotidiano che non per un libro. Le foto, al contrario sono più riflessive. Perché questa mancanza di sintonia?
Come dicevo prima, immagini e testo non devono essere la stessa cosa, illustrazione o didascalia. La mancanza di sintonia è proprio quello che permette di avere dei percorsi diversi, degli sguardi e approcci differenti alla realtà che abbiamo raccontato. Abbiamo viaggiato insieme, lavorato e condiviso tante cose, ma il mio sguardo è diverso da quello di un giornalista, è la ricchezza del dialogo tra linguaggi. Volevamo che fosse così.

Hai detto che volevi che questo libro fosse veicolato dalla rete poi, di fatto è stato un libro e poi una mostra. Qual è il mezzo migliore oggi per comunicare?
È diventato un libro perché sentivamo il bisogno di mettere un punto, di provare a raccogliere tutto quello che avevamo fatto e di creare un documento che potesse restare nel tempo. E questo il web difficilmente può farlo. È strano, il web ormai archivia tutto, ma difficilmente è memoria, come può esserlo un libro. Lo stesso vale per la mostra, è sempre qualcosa di fisico che resta, più di una pagina web. Qual è il mezzo migliore per comunicare non saprei dirlo con esattezza, senza dire banalità. Quello che mi sento di dire sicuramente è che si sente l’esigenza di superare i limiti della fruizione della fotografia, e il web è sicuramente una via, nel bene e nel male, ma penso che una riflessione su questo abbia bisogno di tempo.

Un prodotto che nasce per il web che caratteristiche deve avere?
Innanzitutto la velocità di fruizione. Quando stiamo davanti a una pagina o a una foto stampata, restiamo fermi, passivi. Davanti a una pagina web invece possiamo interferire, interagire, essere attivi. E questo paradossalmente ci rende più superficiali credo, più frettolosi. Leggiamo di meno, saltiamo pezzi di testo, scorriamo le foto velocemente e un video ci annoia subito. Un prodotto che nasce per il web deve partire da qui: come non far calare l’attenzione.

E un libro? Una mostra?
Un libro e una mostra, come dicevo prima, sono più passivi, richiedono che ci si ritagli un tempo maggiore per fruirne. E paradossalmente sono, nella loro passività, due esperienze molto più appaganti (parlo dal punto di vista del fruitore) di un’opera, proprio perché richiedono un nostro maggiore sforzo. Da questo punto vista web, libro o mostra non dovrebbero essere in competizione. Sono linguaggi diversi, adatti a diverse possibilità di acquisire il messaggio.

Come si sono posti gli editori rispetto a questo prodotto? Hai trovato entusiasmo? E l’editoria periodica?
È stato un lavoro difficile, da tutti i punti di vista. Non abbiamo trovato editori che potessero finanziare l’intero viaggio o anche parte di esso. Così come il rapporto con l’editoria periodica è stato, tranne qualche caso, abbastanza difficile e sporadico. Il tipo di storie e anche il modo in cui le abbiamo raccontate non sono molto adatte all’editoria periodica che abbiamo oggi.

Dunque questo lavoro non è mai stato pubblicato dai giornali. È una loro colpa? Pensi che non sia stato capito?
Difficile rispondere onestamente, perché è facile dare sempre tutta la colpa ai giornali. Probabilmente noi per primi non siamo stati in grado di farlo capire bene. Però sicuramente questo tipo di storie, di fotografie e di testi non ottiene facilmente spazio nell’editoria.

Perché un linguaggio fotografico così “tradizionale” se non vecchio ?
Non sono sicuro che si scelga a tavolino un linguaggio, in qualche modo ti viene quello e basta, se poi ti viene tradizionale se non vecchio, comunque quello è il modo più sincero con cui cerchi di raccontare delle storie. Detto ciò, sicuramente la tradizione fotografica statunitense di fotografia documentaria, da Bruce Davidson fino a Eugene Richards, con la sua attenzione all’impegno civile mi ha profondamente influenzato.

Il bianco e nero è o non è un linguaggio che drammatizza? Perché non farlo a colori?
Il bianco e nero, rendendo tutto luce, ombre e forme, tende a rendere più essenziale, spoglia e drammatica la realtà. Con il digitale poi questo è ulteriormente aumentato. E con questo ci si fa i conti, non si può eludere. Personalmente, ho cercato di non calcare troppo, specie nella postproduzione, spero di esserci riuscito. Non l’ho fatto a colori perché l’Italia di oggi è l’Italia nata con il drive-in degli anni ’80, con quella televisione a colori, e il bianco nero è stato quasi un volerla azzerare e contestare. Un voler anche riposarsi da quella visione. C’è stata anche una scelta ideologica, sicuramente.

Chi ha scelto le storie? Nello sceglierle, è prevalso l’aspetto fotografico o quello scritto?
È stata una discussione ininterrotta, spesso polemica. E che quello che è fotogenico non sempre (se non spesso) interessa a un giornalista, e viceversa. Noi non abbiamo trovato una sintesi, né un metodo infallibile di scelta. Ogni storia che abbiamo fatto si porta dietro una discussione, è stato un vero e proprio lavoro di redazione, sapendo che alcune storie sono state fatte perché io ho trascinato e coinvolto un giornalista, magari riottoso, e viceversa. Come dicevo all’inizio, parola e immagine sono linguaggi diversi e non sempre c’è la sintesi. L’importante è continuare, anche nella polemica, a dialogare fra fotografi e giornalisti, e buttarsi nelle storie.

Come si edita un lavoro così lungo?
Da soli è impossibile, si perde il filo del materiale prodotto e non se ne esce più. Serve uno sguardo esterno, un curatore del lavoro, di cui ci si fida e a cui ci si affida. Servono altri occhi, un’altra testa che dirà la sua e che imporrà anche le sue scelte. Come dicevo prima, è sempre un lavoro di redazione quello che sta dietro, lungo, difficile, estenuante, a volte molto nervoso e sapendo che una sintesi perfetta non c’è. Un lavoro così lungo si edita quindi con un’idea guida su cui autori e curatore si confronteranno e che attraverserà tutto il materiale prodotto.

Le storie non viste, sono meno interessanti?
Se intendi le storie a cui abbiamo rinunciato nel libro, direi di no, che non sono necessariamente meno interessanti. Avevamo un’idea guida condivisa da tutti, testo e fotografie e un libro fatto per singole storie. Quelle che non sono rientrate spesso avevano un bel testo ma non delle buone foto o viceversa, c’erano le foto ma non il testo.

Perché fare fotografia e non video? E perché fare poi un video con le immagini?
In realtà abbiamo prodotto anche diversi video. La difficoltà sta nel fatto che la produzione di un video, rispetto a un reportage foto-testo, implica una complessità e un costo superiore. Le riprese, l’audio, l’attrezzatura, il montaggio, richiedono dei tempi e costi maggiori, e non avendo noi editori alle spalle, ne abbiamo sicuramente realizzati meno di quanto volevamo, anche perché tutte le nostre storie le pubblicavamo sul web e il video è il linguaggio più adatto al web, più del testo e delle fotografie. A me piacerebbe fare un viaggio soltanto video attraverso l’Italia. Ma avrebbe bisogno di finanziamenti. Alla fine del lavoro ho comunque deciso di fare un motion, un video di immagini per realizzare un prodotto differente dal libro ma ad esso legato. Di mezzo c’è sempre il web e il digitale, che hanno ormai aperto questa nuova frontiera applicando all’immagine statica e bidimensionale il movimento del video. Credo che oggi un progetto non possa non confrontarsi a tutti questi livelli.

Perché lavorare in Italia quando tutti i fotogiornalisti sono andati all’estero?
Come dicevo prima, sarà casuale ma i fotografi che più amo sono quelli che hanno dedicato la loro vita a raccontare la loro città o il loro paese, che hanno mischiato la fotografia con l’impegno civile per il progresso del proprio ambiente di vita. Anche in Italia è successo, basti pensare a Letizia Battaglia. Il fotogiornalismo chiama il viaggio, l’estero, è inevitabile che sia così, oltre al fatto che l’editoria che conta è quella anglosassone e loro dettano l’agenda mondiale di ciò che è più rilevante da raccontare. Ed è giusto che i fotogiornalisti si misurino su questa ambizione e quest’altezza. Personalmente, ho solo seguito un viaggio diverso.

È davvero un progetto militante o solo meno rischioso?
Credo che la militanza sia una categoria dell’impegno politico e che non debba esserlo del giornalismo. La militanza è sacrosanta, ma non nel giornalismo. Preferisco parlare di impegno civile, facendo il proprio lavoro, anche estetico. Questo sì. Ma conoscendone i limiti. Personalmente non credo che la fotografia possa cambiare il mondo né che questo sia il suo scopo, può migliorarlo però lasciando memoria di quello che è stato. E questo penso sia doveroso, qualcuno deve farlo, questa l’Italia andava raccontata, sarà il tempo a decidere se è un documento di testimonianza o uno dei tanti episodi fotografici. Viaggiare in ‘Italia per due, tre anni è più costoso di quello che si possa immaginare, certo è meno rischioso che andare in guerra: la protesta italiana non è quella dell’Egitto e tantomeno quella della Libia. Da questo punto di vista, il racconto dell’Italia è un racconto più piccolo, ma io penso che sia valsa la pena farlo.

Renata Ferri

Giornalista, photoeditor di "Io Donna" il femminile del "Corriere della Sera" e di "AMICA", il mensile di Rcs Mediagroup. Insegna, scrive, cura progetti editoriali ed espositivi di singoli autori e collettivi.