In morte del Pdl

Lasciate perdere la neo Forza Italia che dovrebbe nascere a ore. Guardate solo a dove eravamo.
In pratica eravamo a un congresso – altro che primarie del Pdl – strutturato per redistribuire il potere ai vari capicorrente. A questi capicorrente erano state assegnate addirittura delle «quote» di comitati elettorali che incoronassero il designato Angelino Alfano, il tutto slegato a qualsivoglia concetto di «primarie» degne di questo nome. Questi comitati elettorali, in dote ai vecchi ras del partito, avevano la stessa funzione dei pacchetti di tessere che un tempo facevano e disfacevano i congressi. Le primarie del Pdl sono o dovevano essere questo: non un’operazione per allargare il consenso, ma solo un passaggio burocratico per spartirsi ciò che rimanesse (o rimanga) e dove a contare fosse la quota individuale; cioè il peso dei singoli addendi indipendentemente dalla somma. Angelino Alfano si è ritrovato incastrato in questo meccanismo (che fosse vittima o consenziente poco importa) e quindi è finito nelle mani di ex democristiani ed ex aennini che puntavano a tutto il Partito. Comunque andasse, se anche il Pdl si riducesse all’8 o 10 per cento – e stiamo parlando di un partito che aveva il 35 – sarebbe più o meno il valore che aveva An, con la differenza che il potere individuale sarebbe assai maggiore perché nel frattempo il Cavaliere e Gianfranco Fini si sono eclissati. Forse.

In questo quadro, con tutto il rispetto, nessuno può pensare le candidature di Guido Crosetto e Michela Biancofiore fossero una cosa seria. Più enigmatico, ma non per questo più decisivo, il discorso legato agli outsider Gianpiero Samorì e Alessandro Proto. Le candidature che hanno squadernato tutto, infatti, sono altre: non tanto quella del giovane formattatore Alessandro Cattaneo – significativa e dignitosa, ma senza chance di vittoria – bensì quella di Giorgia Meloni che infatti ha fatto incazzare Ignazio Larussa e Maurizio Gasparri e tutta la nomenklatura del Pdl. Il perché è semplice: il popolo dei militanti ex An – che nell’evanescenza della «base» Pdl rimangono ancora una cosa seria – tra l’ex aennina Meloni e il designato Alfano è difficile che voterebbero quest’ultimo. Oddio, tutto è possibile. Ma se è vero che i consensi sui quali puntano i dinosauri del Pdl sono perlopiù di apparato (di struttura, diciamo pure clientelari) Giorgia Meloni viceversa potrebbe puntare anche ai voti persi, all’opinione pubblica delusa, al recupero dell’emorragia che sta prosciugando il centrodestra: un’impresa che per i dinosauri appare invece disperata. E siccome per un recupero del genere serve comunque un po’ di tempo – alla Meloni, cioè – ecco spiegato perché i dinosauri di tempo non ne vogliono.

Sono loro che hanno questa dannata fretta di fare le primarie (il 16 dicembre) o piuttosto di non farle per niente. A loro non interessa che se ne parli, la sovraesposizione mediatica, i confronti televisivi e altra roba da comunisti: quasi vent’anni di non-partito e loro vorrebbero passare direttamente alle «primarie» senza neppure spiegare bene che cosa siano, oltretutto con candidati-tentenna che non fanno che ossequiarsi alle ciclotimie provenienti da Arcore, o, peggio, che improvvisano slogan improbabili come quello sugli indagati che non si devono candidare. Non si devono candidare, già: a meno che si chiamino Berlusconi. Non si devono candidare, sicuro: però le truppe degli Scajola e dei Formigoni sono benvenute. In pratica si passerebbe dai parlamentari condannati in terzo grado alle liste elettorali compilate direttamente dai magistrati, grandioso.
Mentre a nessuno, tra i vari caporioni del Popolo della Libertà, sembra tornare in mente che «libertà», appunto, «è partecipazione», come cantava quello. Però è tornato in mente a quel gruppo di militanti che ieri si è piazzato davanti a Palazzo Grazioli con il cartello «Parola d’ordine: partecipare». Ed è tornato in mente ai giovani di Modena e Bologna che hanno occupato le loro sedi e invocato «primarie anche nel Pdl». E insomma è tornato in mente a un sacco di gente che le primarie le vuole, punto e basta; le vuole perché qualcosa si muove, che poi è la stessa precisa ragioni per cui altri, le primarie vere, non le vogliono. Perché se si muove davvero qualcosa, in questo Paese, loro sono fottuti.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera