Ilva, Italia

Se c’è una cosa chiara della questione Ilva è che ad oggi ancora nulla è chiaro.
Non è chiara l’effettiva efficacia del decreto legge molto controverso varato il 30 novembre dal Governo per scongiurare la chiusura dello stabilimento di Taranto e già in più parti modificato il 3 dicembre quando il Capo dello Stato vi ha apposto la firma.

Non è chiaro se il provvedimento rispetti tutti i requisiti di costituzionalità, visto che la Procura della città pugliese già si prepara a sollevare la questione dinanzi alla Consulta, mentre è ormai evidente, dopo quello che è emerso in questi mesi, che per troppo tempo la produzione dell’Ilva si è svolta eludendo il dettato della Costituzione, perlomeno quello dell’articolo 41 laddove prevede, al secondo comma, che «l’iniziativa economica privata… non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Non è chiaro chi dovrebbe essere e quali competenze possedere questo fantomatico Garante che il Governo dovrà nominare entro dieci giorni dall’entrata in vigore del decreto che, all’articolo 3, parla genericamente di una personalità «di indiscussa indipendenza, competenza ed esperienza incaricato di vigilare sulla attuazione delle disposizioni del presente decreto».

Non è chiaro come intenda muoversi l’azienda che prima si era rivolta al Tribunale del riesame sull’istanza di dissequestro del prodotto finito e semilavorato e invece martedì 4 vi ha rinunciato, chiedendo alla Procura di Taranto l’esecuzione del nuovo decreto legge.

Non è chiaro cosa voglia dire il ministro dello Sviluppo economico Passera quando, intervistato da Massimo Giannini domenica 2 dicembre su Repubblica, afferma che il Governo sul decreto «ci ha messo la faccia» mentre è chiaro che ancora una volta è arrivato in ritardo su temi cruciali come la crescita, le politiche per l’occupazione, l’equità sociale. Come anche il “moderato” Sole 24 Ore ieri riconosceva apertamente con la penna del suo vicedirettore Fabrizio Forquet: «Serve una consapevolezza “rivoluzionaria” dell’emergenza che l’economia reale di questo Paese sta attraversando. Non è tempo di ragionieri, anche se “generali” e dello “Stato”. È tempo di scelte politiche forti, immediate, adeguate alla realtà economica di imprese e lavoratori sempre più allo stremo».

Non è chiaro, anzi è incomprensibile, che in un frangente come l’attuale in cui si potrebbe riaprire un grande dibattito nazionale sulla responsabilità sociale d’impresa, a maggior ragione dopo che la laconica definizione che ne ha dato di recente l’Europa sembra un vestito tagliato su misura per affrontare il caso Ilva («la responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società», comunicazione della Commissione europea del 25 ottobre 2011), non si senta nessuna voce di “peso” a invocarlo. Forse perché stavolta il tema andrebbe affrontato sul serio, asciugandolo di tutta quella autoreferenzialità che in questi anni ha consentito persino allo stesso patron dell’Ilva, Emilio Riva, di cimentarsi in affermazioni come questa (tratta dal libro del 2005 di Antonio Calabrò Intervista ai capitalisti, Rizzoli, e “riemersa” grazie a Roberto Mania di Repubblica).

Domanda di Antonio Calabrò: «Cos’è per lei la responsabilità sociale di un’impresa?»
Risposta di Emilio Riva: «Fare lavorare le persone con una giusta remunerazione. Educarle al gusto della responsabilità, della dignità del lavoro, della qualità di quello che si fa. Assicurare condizioni decenti di vita, come abbiamo fatto negli stabilimenti del Nord in cui abbiamo trasferito manodopera da Taranto, organizzando subito per loro case per vivere e mensa. E dare sicurezza: mi piace assumere i figli di quelli che lavorano con me, stimolare la stessa evoluzione sociale: il padre operaio analfabeta, il figlio capo-acciaieria, il nipote direttore di stabilimento. La fabbrica è cambiamento e crescita».

Non è chiaro se e quante risorse della famiglia Riva si riusciranno a recuperare per utilizzarle per le necessarie bonifiche del sito produttivo tarantino mentre è chiaro che spetterà allo Stato accollarsi gli esborsi più onerosi, anche per ataviche sue colpe.

Mi piace spesso ricordare una frase dell’economista William Knapp che, già diversi decenni fa, sosteneva che «il capitalismo si regge su un insieme di costi sociali non pagati». Beh, oggi il conto è arrivato anche nel nostro Paese ed è salatissimo. E il caso Ilva ne rappresenta una sorta di paradigma. Come giustamente, infatti, scriveva ieri sul Sole 24 Ore Carlo De Benedetti, «ridurre (la vicenda Ilva, ndr) a un caso di criminalità individuale non aiuta a capire. Quella dell’acciaieria di Taranto, e delle morti che ha portato, è storia d’Italia. Conoscerla, e soprattutto capirla, può aiutarci a costruire il futuro».

Allora una piccola proposta al riguardo vorrei farla. In questi mesi si sta discutendo molto di una Rai che dovrebbe tornare finalmente ad essere servizio pubblico e riportare la realtà, non i reality, al centro della sua programmazione. Ebbene, dopo l’ottima Milano, Italia di vent’anni fa, che raccontò come e perché stava morendo la prima Repubblica sotto i colpi di Tangentopoli, dopo l’anonima Malpensa, Italia di tre anni fa che si propose, senza successo di «affrontare», come recitava il suo slogan, «da nuovi punti di vista l’attualità», forse ci sarebbe bisogno di una terza prova, di una nuova trasmissione televisiva che, sulla falsariga delle due precedenti, si potrebbe chiamare Ilva-Italia. Da sviluppare attorno a un concetto chiave ormai ineludibile, ben esemplificato dal titolo di un bel libro di Jeffrey Sachs: Il prezzo della civiltà.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com