Il mito della ricerca applicata

Agli scienziati, l’idea che quello che fanno debba servire a qualcosa che non sia la ricerca di conoscenza non sembra passare per la testa. Si potrebbe mettere insieme una corposa antologia delle motivazioni che hanno spinto i più grandi scienziati di ogni epoca a dedicarsi alla ricerca: ma senza farla troppo lunga mi limiterei a citare una frase attribuita a Richard Feynman: “La fisica è come il sesso: certo, può dare risultati pratici, ma non è per quello che lo facciamo”. Va’ a sapere se l’ha mai detta davvero. Di sicuro, Feynman era piuttosto esperto in entrambe le attività di cui parla, e ha scritto un libro che si chiama Il piacere di scoprire, quindi ci fidiamo.

Eppure, l’idea che la ricerca scientifica sia valida e degna di essere supportata solo se ha una ricaduta pratica immediata è dura a morire, e anzi sembra diventare sempre più prepotente. È un’idea che nasce da una totale incomprensione non solo delle motivazioni degli scienziati, ma anche del modo di procedere della scienza. C’è sotto il pregiudizio che il sapere scientifico sia una specie di sottoprodotto culturale, buono al massimo a far funzionare telefonini e computer. Si tira in ballo, con ragione, il sistema scolastico di Croce e Gentile per spiegare come mai questo punto di vista abbia potuto attecchire nella nostra classe dirigente, poco familiare con il metodo scientifico ma imbevuta di alate citazioni latine (almeno fino a qualche anno fa: oggi non sanno nemmeno il latino). Ma se si allarga un po’ lo sguardo si vede che, anche fuori dai nostri disgraziati confini, esiste una pressione sempre crescente a occuparsi di ricerche che privilegino l’interesse pratico e il risultato a breve termine.

Ora, il problema è che la scienza in effetti porta molto spesso a risultati che trovano un’applicazione pratica: ma le famigerate “ricadute tecnologiche” che piacciono tanto a politici e investitori non si possono prevedere, né possono servire a indirizzare la ricerca di base. La storia della scienza mostra che la direzione è sempre stata quella opposta: progressi, spesso imprevisti, nella comprensione di base, hanno portato in un secondo tempo a conseguenze tecnologiche. Di certo, se un giorno potremo usare un computer quantistico, lo dovremo più alla curiosità di un Feynman che a qualche fantomatica “filiera dell’innovazione”. Il sapere scientifico non è una collezione di ricette empiriche. Per padroneggiare davvero una tecnologia bisogna prima aver compreso i meccanismi che ne consentono il funzionamento.

Immaginate di poter mettere le mani su un manufatto creato da una avanzatissima civiltà extraterrestre. Magari potreste imparare a usarlo, provando un po’ a casaccio. Potreste forse provare a smontarlo (ci vorrebbe un bel coraggio) e persino riuscire a riprodurlo tale e quale, facendone delle copie identiche. Ma se prima o poi non capite su quale principio fisico si basa, non farete grandi passi avanti. Generazione dopo generazione, potreste tramandare il segreto di quel congegno, ma non sareste mai in grado di farne uno migliore, non sareste mai sicuri di usarlo nel modo giusto (e senza correre rischi) e vivreste col terrore di perderlo per sempre. Diventerebbe una sorta di feticcio.

È un esempio fantascientifico, ma esistono esempi reali nella storia dell’umanità. Ci sono state civiltà tecnologicamente molto avanzate che, per mancanza di un adeguato contesto di sapere scientifico, hanno perso tutto il vantaggio accumulato: è accaduto all’impero cinese a cavallo dell’anno Mille, e può accadere di nuovo. Se c’è una ricetta sicura per il suicidio di una società, è quella di abbandonare la ricerca di una comprensione profonda dei fenomeni naturali per inseguire il mito della cosiddetta ricerca applicata.

Amedeo Balbi

Amedeo Balbi, astrofisico, è ricercatore all'Università di Roma Tor Vergata. Il suo (altro) blog è Keplero. I suoi libri su Amazon. Twitter: @amedeo_balbi