Il Golden Rice e il futuro dell’agricoltura

Lo so, sembra un quadro astratto. Bisogna farci un po’ l’occhio. Rappresenta il riso. È un’immagine elaborata da Ingo Potrykus, l’ideatore, insieme al suo gruppo di ricerca del Golden Rice, di una varietà di riso arricchito con la protovitamina A. In alto, a sinistra e a destra, notate due rettangoli, sono le cosidette varietà di partenza. Gli incroci di linee sono, invece, le successive e molteplici ibridazioni. Le linee verticali colorate all’interno dei rettangoli, rappresentano le modifiche che tali incroci hanno portato sul genoma originario. Sono presenti traslocazioni e mutazioni geniche e alla fine, la varietà tradizionalmente coltivata, sulla sinistra, nome in codice IR64, è un (almeno per me) bellissimo arabesco di colori. C’è tutta la sapienza umana e la competenza di agronomi, genetisti e breeders, sapienza che ora possiamo, come dire, radiografare grazie alla biologia molecolare.

Ma non è per questo che Potrykus ha ideato questa immagine. È solo per colmare un vuoto di conoscenza. Quando si parla di ogm si è portati a pensare che da poco, da circa metà degli anni ’80, abbiamo cominciato a modificare geneticamente le piante. Dunque, scatta subito l’associazione: prima le piante erano naturali e sane, da ora non più. È un bias cognitivo, un pregiudizio. Ecco qui. Potrykus ci fa vedere quante modifiche genetiche abbiamo apportato negli anni, tutte a scopo migliorativo – modifiche che non posso qui elencare perché occuperei due pagine.

Poi ci fa vedere sulla destra, la sua varietà ingegnerizzata, cioè, il golden rice, ovvero, ci mostra l’aggiunta, con la tecnica del DNA ricombinante, dei geni utili alla produzione della protovitamina A. La indica con una freccia. Vedete? È una piccola linea verticale colorata che si inserisce nel preesistente arabesco.

Domanda Potrykus. Perché se con le tecniche tradizionali – ce ne sono svariate, dall’incrocio alle mutazioni indotte con cobalto – modifico, spesso in maniera grezza e imprecisa, il genoma di una pianta, non devo sottostare a controlli rigidi e severi e costosi, tantomeno devo affrontare campagne stampe avverse? E perché se invece inserisco, con la tecnica del DNA ricombinante, un solo gene che – come da figura – comporta una piccola e precisa modifica, non solo devo difendermi da accuse infamanti, ma pagare per avviare a una serie di controlli che mi portano via soldi, e tanti: realizzare una pianta GM non costa tanto, quello che costa sono le svariate procedure di controllo, roba da decine di milioni di dollari.

Dunque aggiunge Potrykus: finora abbiamo modificato, tradizionalmente, i genomi delle specie, di tutte, tutte, proprio tutte, e nessuno si è mai spaventato, né ha chiesto controlli. E quello che vale per il riso, vale per tutte le colture, anzi se guardate il mais o il grano, il quadro sembrerà dipinto da Pollock. Bene, siamo sicuri infatti che in tutte queste modificazioni non ci sia scappato un gene pericoloso? Diciamo la verità: non ce lo siamo mai chiesto. Ce lo chiediamo ora, e spaventati chiediamo sicurezza massima e rischio zero, trattiamo queste piante come centrali nucleari fuori controllo – e alcuni paroloni come “contaminazione genetica” tendono a farci credere che un gene produca uranio e non una semplice proteina – e invece le piante GM si distinguono dalle altre piante, tradizionalmente modificate, solo per il modo, ovvero la tecnica grazie alla quale aggiungiamo (o silenziamo) dei geni.

Una tecnica, quella del DNA ricombinante, che mi permette di prendere il gene utile, di cui a differenza del passato, conosco tutto, il promotore che lo attiva, la sequenza codificante, l’interruttore che la spegne, e posso tagliarlo dal genoma d’origine e inserirlo nella mia varietà, un transgene, appunto. C’è anche il cisgenico, all’interno dello stesso ordine botanico, ma sono distinzioni labili. Il mio DNA condivide il 50% dei geni con la pianta del banano. Il 98,5 con gli scimpanzè. Insomma deriviamo da una stessa cellula eucariotica, e un gene codifica un carattere non l’essenza di una specie.

Potrykus combatte da anni per liberalizzare il mercato, basta controlli così severi e assurdi, che tengono, in sostanza, fuori gioco tutta la ricerca pubblica – in Italia è vietato addirittura sperimentare in campo. Questi controlli impediscono che i ricercatori pubblici lavorino su varietà piccole ma utili. Chi ce l’ha – se non una multinazionale – 20 milioni di euro per mettere sul mercato una pianta GM, fosse un pomodoro resistente al virus o una mela Renetta resistente a un fastidioso coleottero?- ma le multinazionali spendono per controlli e vogliono recuperare, quindi si limitano a migliorare piante di largo consumo.

I ricercatori italiani che io conosco, la prima cosa che mi dicono è: oggi sono andato a chiedere un finanziamento, perché non ho soldi per pagare i miei collaboratori. Pensate se mai possono svolgere il loro lavoro con tecniche moderne.

Spesso nei discorsi così eccitati intorno alle questioni biotecnologiche si ignora il contesto di riferimento: rispetto a cosa queste piante sono peggiorative o migliorative? Pericolose o meno? Qui dobbiamo fare un salto indietro di 150 anni. Poco, qualche generazione. Eppure sono sufficienti a dimostrare che a metà Ottocento le condizioni di salute dei nostri avi non erano così buone, per non parlare dei secoli passati. Questa non è una mia opinione, ci mancherebbe. Svariati studi di demografi, antropologi, agronomi, economisti concordano sui dati. Cito solo per ragioni esemplificative gli splendidi studi del premio Nobel per l’economia, Robert W. Fogel. Sono ossessivamente dedicati alla questione mortalità, e non solo quella infantile (Fuga dalla fame, Edizioni vita e pensiero). La miseria è perdurata per millenni ed era ancora tangibile e devastante ai primi del Novecento. Con il miglioramento dell’alimentazione, miglioramento che è recente (empiricamente e senza diagrammi del resto si intuisce la cosa: mio nonno pensava solo a mangiare, per tutta la vita ha sofferto di fame), la mortalità è cominciata a scendere e l’aspettativa di vita a salire. Migliorano tanti parametri, altezza, indice di massa corporea, peso. Una collezione impressionante di dati, spesso raccolti dagli archivi dell’esercito, ci mostra come il nostro fisico sia diventato più resistente alle malattie, a partire dalla seconda metà del 1700, ma solo di recente abbiamo assistito a una vera rivoluzione, per cui la curva dell’aspettativa di vita si impenna e quella della mortalità si abbassa. In sostanza, spiega Fogel, è valida l’equazione: cattiva nutrizione maggiore frequenza di infezioni, buona nutrizione bassa frequenza. Naturalmente c’entrano l’assistenza sanitaria, l’aumento del reddito, il progresso tecnologico e l’igiene personale, ma la colonna portante è rappresentata dall’alimentazione.

E qui il diagramma di Potrikus ci fa vedere come il miglioramento genetico (cercare i geni a noi più utili e spostarli a nostro vantaggio) ci abbia fornito piante migliori, più basse, più produttive, più resistenti ad alcune malattie. All’elenco vanno aggiunti però altri elementi. L’arrivo dei primi concimi, i diserbanti, gli agrofarmaci, la meccanizzazione. La modernità. La rivoluzione verde. Abbiamo mangiato meglio, abbiamo mangiato tutti. Prima, in assenza dei suddetti elementi, la resa era bassa, le carestie frequenti e mio nonno ne buttava di maledizioni, perché nonostante coltivasse in regime di biologico forzato (per povertà non poteva permettersi concimi e altro) gli insetti, ingrati, attaccavano lo stesso i suoi campi, facendo strage di carboidrati e microelementi. Dunque, cattiva alimentazione quindi alta mortalità.

Non è una mia opinione, se qualcuno non ci crede si deve prendere la briga di smentire i dati, di Fogel e di altri. Del resto, più semplicemente, basta guardare cosa è successo negli ultimi 47 anni: quando sono nato, nel 1966, c’erano tre miliardi di persone. Nel 1974, 4 miliardi, 1987, 5 miliardi, 1999, 6 miliardi, 2010, 7 miliardi. Una rivoluzione demografica mai vista, a pensare che nel 1800 eravamo un miliardo, e solo negli anni 30 nel novecento, abbiamo raggiunto i due miliardi.

La buona alimentazione e la rivoluzione verde c’entrano. Basta dare un’occhiata a quei paesi africani che non hanno goduto dei nostri stessi benefici, basta vedere quanto tempo le donne dedicano a zappare per sottrarre il sorgo, il panico o il mais dall’attacco delle orobanche, un erba infestante che succhia linfa dalle radici, abbassando notevolmente la produzione. Come mai le orobanche attaccano? Eppure, si dirà, in quei luoghi non contaminati dalla civiltà, l’agricoltura è buona e naturale, non è intensiva, niente chimica, solo pratiche naturali e tradizionali. E invece, per 75% del loro tempo, in alcuni periodi, le donne zappano. Società maschiliste con tutte quelle costrizioni religiose arcaiche che personalmente non vedo l’ora che scompaiano costringono le donne nei campi e le sottraggano dai laboratori di ricerca.

Per il mio lavoro incontro agronomi africani e leggo i loro documenti consensuali. Sono seri, cazzuti e indignati, più dei nostri intellettuali, e si schierano, lottano per aumentare la produzione, almeno il 6% in pochi anni, ciò significa avere concimi, erbicici, e miglioramento genetico, insomma conoscenza agronomica moderna, il resto, le pratiche naturali ecc ecc, quelle le lasciano volentieri a noi, noi chiacchieroni egoisti, benestanti capaci di spendere tanto nei bei supermercati, per sentirsi dalla parte sostenibile del mondo. Che bell’inganno.

Nei momenti di sconforto, naturalmente, quando il pessimismo si fa sentire, possiamo
anche raccontare questa storia in modo diverso. Chi ce l’ha fatto fare, per esempio, a transitare all’agricoltura? Non arrivavano a un milione di persone, i nostri avi, cacciatori raccoglitori. Il mondo era giovane e forte e i suoi abitanti lavoravano tre ore al giorno, forse sei, mangiavano 186 specie diverse tra flora e fauna, i resti fossili evidenziano individui in buona salute, senza problemi. Non appena passiamo all’agricoltura, perdiamo 10 cm di statura, passiamo da 186 specie a 4 miseri cereali. Ci prendiamo la scoliosi, le carie, le infezioni per la vicinanza agli animali. Ma chi ce l’ha fatto fare? Fatto è che i nostri beneamati cacciatori raccoglitori – filosoficamente e religiosamente in accordo con la natura, così pensiamo – hanno fatto fuori l’80% della macrofauna, chissà forse non amavano la natura come l’amiamo noi. Forse più prosaicamente hanno avuto fame e hanno cercato un rimedio. I rimedi sono la nostra ragione di vita. Cerchiamo da sempre rimedi contro l’imponderabile. Per millenni c’abbiamo provato, aggraziandoci dei e divinità, ma niente, l’imponderabile non svaniva, le cavallette attaccavano, i funghi infettavano le coltivazioni, e allora: bassa alimentazione, alta mortalità.
C’abbiamo provato ancora con vari strumenti, nuovi aratri, bardature per cavalli più efficienti, semine di precisione e non a spaglio, rotazioni e altro, ma niente, abbiamo dovuto aspettare l’arrivo dei concimi e la rivoluzione verde. Cercavano dei rimedi alla fame e li abbiamo infine trovati.

É cambiato tutto. Ora, con la pancia piena, possiamo vederla in ombra questa rivoluzione, pensare che ha creato problemi e li ha creati eccome– i primi diserbanti hanno inquinato falde, e poi gli agrofarmaci dati con mano pesante, monoculture capaci di impoverire il terreno, la meccanizzazione ha abbassato lo strato arabile del terreno – e allora mettiamo giù sulla pagina un elenco di parole detestabili, come chimica, intensivo, industria, tecnica e civiltà, e possiamo sfogarci con commenti indignati: fame, multinazionali, morte. Tuttavia su un dato, a mente fredda, noi tutti dobbiamo concordare: in parte, con affanno, ma ce l’abbiamo fatta. Siamo in tanti, sette miliardi e alcuni parametri, mortalità infantile, aspettativa di vita, democrazia, diritti civili, sono in aumento. Dalle mie posizioni, ancora venate di marxismo britannico, scienza e cultura e rivoluzione (sì, confesso) devo dire che pensare che il Re Sole possedeva tutta la ricchezza del mondo ma non poteva salvarsi da una brutta infezione, mentre ora, un povero può prendere un antibiotico e avere delle possibilità che mio nonno e i suoi avi non hanno avuto, tutto questo mi provoca una brivido di eccitazione progressista. Sapere inoltre che non posso eliminare l’imponderabile dalla mia vita – ma certo la sua presenza è meno invasiva – mi fa sentire inquieto e possibilista (né ottimista né pessimista) per il futuro.

Questo non vuole dire che il presente mi basta e mi rallegra. Anzi continuo a detestarlo. I rimedi causano altri guai e necessitano di nuovi rimedi. È nella nostra natura. Il presente non può bastare, le scorie vanno gestite. Il mondo presente possiamo rappresentarlo alla maniera di Hans Rosling, eclettico professore di statistica svedese. Lui usa le scatole IKEA per disegnare uno schema del mondo, un po’ come Potrykus disegna l’evoluzione del genoma del riso. Una scatola equivale a un miliardo di persone. A partire dal 1960, quindi, dai tre miliardi di persone, fino ai giorni nostri, ai sette miliardi, come si è mosso il mondo? Vediamo: all’estremo della scala ci sono ancora due miliardi di persone che risparmiano per comprarsi le scarpe. Poi, seguono tre miliardi di persone (tre scatole IKEA impilate l’una sull’altra). Che consumi possono permettersi queste persone? La bicicletta, e aspirano, per così dire, al motorino. Fanno parte di quell’economie dette emergenti. Ancora, un miliardo di persone in fila, per loro c’è la macchina (dice Rosling: quando la società cinese Geely ha comprato la Volvo gli svedesi hanno capito che qualcosa nel mondo stava succedendo), e infine un altro miliardo di persone, a cui appartiene chi scrive, che dal 1966 si è spostato in avanti, e quindi può permettersi l’aereo (nel 1966 solo 286 milioni di persone prendevano l’aereo in un anno, oggi, tre miliardi di persone usano l’aereo).

Ciò significa che a) c’è ancora un enorme divario tra i due miliardi di persone che posseggono scarpe (e fanno molti figli) e noi, che all’estremo della scala prendiamo l’aereo (e facciamo pochi figli), ma b) nel complesso c’è un filo rosso che unisce il mondo, si passa, infatti, dalle scarpe, alla bici, alla macchina, all’aereo.

Ottimisti o pessimisti? Stavamo meglio prima? La terra è stata violentata o migliorata? La risposta, sospetto, dipende dagli umori e dalla maggiore apertura o chiusura verso la modernità – c’è da dire che ci siamo fatti vecchi, l’Italia soprattutto, ma anche l’Europa sta invecchiando, anche la Cina, se è per questo, insomma a partire da una certa età alcune cose davvero non vogliamo capirle, il nostro cervello non ce la fa. Per esempio come vedere la questione del cambiamento climatico? Prendiamo l’anidride carbonica che, in realtà, non è tossica, o almeno lo è in concentrazioni superiori al 5%, ora siamo allo 0,038%, ossia 380 parti per milione, ossia 380 grammi di CO2 per una tonnellata d’aria.

Bene, prima della rivoluzione industriale, prima del 1750, questa concentrazione si attestava sugli 0,030. Però di contro, andando indietro, è anche vero che nel 1600 la Terra aveva 500 milioni di abitanti e concentrazioni di CO2 di 0,027: ora abbiamo raggiunto i sette miliardi, quindi se la popolazione si è moltiplicata per 12, il tasso di CO2 si è moltiplicato solo dello 0,4. E allora siamo più bravi a produrre persone o gas serra. Buoni, altruisti o egoisti sfruttatori? Forse entrambe le cose, non si possono desiderare i benefici senza tenere conto dei costi, quelli possiamo solo studiarli, individuarli e gestirli. Ma a seconda che siamo pessimisti o ottimisti, vecchi o giovani, dobbiamo anche qui concordare su una cosa: non possiamo lasciare due miliardi di persone in quella posizione, con le loro scarpe. I poveri fanno tanti figli, e ora fortunatamente la mortalità infantile è bassa, quindi se prima per ogni coppia ne nascevano 4 e 2 bambini morivano, ora, si va, e per fortuna, a 4 nati su 4 vivi. La popolazione potrebbe raddoppiare nel giro di una generazione, con serie conseguenze, quelle sì, difficili da gestire.

Ma se usciranno dalla povertà, allora il tasso di fertilità si abbasserà e potremmo equilibrarci e fermarci intorno ai 10 milardi. Cosa serve? Riforme, democrazia, energia a buon mercato, istruzione a largo sprettro, igiene, ricerca e politica globale. Energia? Quella è un problema, alcune sono in discesa (vedi il nucleare, chi vuole investire in questa tecnologia, chi vuole passare per cattivo?), altre non sono ancora affidabili (pensate al tasso di riconversione ancora basso per il solare, pensate al carico di base, che le rinnovaibile non possono ancora garantire). All’orizzonte ancora carbone. E il cibo? Quello pare ce ne sia a sufficienza, mal distribuito, certo. Quindi produrre di più forse non sarà una priorità, anche perchè, e i genetisti sono concordi, più di questo dalle piante non si potrà pretendere. I frutti giganti come nel film il dormiglione non esisteranno mai.

Quindi? Quindi dobbiamo mantenere la posizione attuale, non arretrare, perché l’imponderabile è sempre in agguato e cercare di risparmiare imput energetici. La rivoluzione verde ha creato piante che producono ma consumano. Dobbiamo risparmiare. Sembra facile, ma come? Meno agrofarmaci. Giusto. Le buone pratiche agronomiche per il controllo delle infestanti e degli insetti, rotazioni per esempio. Ottimo. Poi si imparano al primo anno di agraria, sono l’abc. Ci sono decreti legge che facilitano la pratica delle rotazioni (sono antieconomiche). Il problema infatti è che tendiamo a specializzarci. Un agricoltore che coltiva soia o mais orienta la sua azienda su quella produzione. Compra macchine e contatta specifici fornitori. Non possiamo fargliene una colpa. Anche noi, nel nostro lavoro, tendiamo alla specializzazione. Io tenderei– ma ho ancora venature marxiste – a sostenere quelle iniziative che promuovano lo scambio dei terreni. Tu fai mais e io soia, abbiamo la stessa superficie, siamo vicini? Scambiamoci i terreni. La proprietà resta, ma io continuo a fare mais su un’altra superficie e tu fai lo stesso: una rotazione. Lotta biologia integrata? Ottimo. In ambiente controllato si interviene solo quando l’infestazione supera una certa soglia di danno.

Si risparmia molto. L’Emilia Romagna in questo settore è leader, molti prodotti ortofrutticoli sono ottenuti con questa tecnica. Certo, non è molto stabile, insomma basta che cambia un parametro e saltano gli schemi, ma ci si deve lavorare. Agricoltura di precisione? Quella fondata su un perenne monitoraggio, tipo: quanto azoto ha il terreno, quanto è che l’umidità supera un certo limite e permette lo sviluppo di crittogame? Anche questa pratica è ottima. Se c’è azoto non si interviene, se non ci sono insetti o funghi non si buttano agrofarmaci. Oppure l’agricoltura blu, poca lavorazione del terreno. Qui i risultati sono incoraggianti, ma per funzionare è necessario anche prevedere l’uso di piante GM, quelle resistenti agli erbici. Non si pratica l’aratura (molto dispendiosa) si semina sul sodo, con seminatrice di nuova generazione, si passa l’erbicida una sola volta, quando la pianta coltivata fa capolino, così le erbacce muoiono mentre la nostra pianta resiste. Ah, in Argentina, l’uso della soia resistente – sono aziende estensive, centinaia e centinaia di ettari – permette la minima lavorazione dei terreni. Immaginate il risparmio. Ma fatto sta che comunque la mettiamo il miglioramento genetico dovrà fare la sua parte.

In futuro, si potrà dotare le piante, tutte le piante, e non solo le leguminose, dell’associazione con quei batteri che producono azoto? Forse sì, sarebbe bellissimo (alcuni studi, tra cui quello di Roberto Defez sono incoraggianti) non dovremmo più usare concimi a base di nitrati. Un bel risparmio. Si potrà far in modo che il grano scacci da solo gli afidi? Meno colonie di afidi meno chimica. Sì, anzi, la pianta esiste, l’hanno creata i ricercatori inglesi. Hanno notato che la menta, quella che mangiamo comunemente, produce un ferormone che manda un segnale agli afidi: andate via, gli dice. Quindi gli afidi non attacccano la menta. Allora i ricercatori hanno preso il gene della menta che produce il ferormone e l’hanno inserito nel genoma del grano. Una piccola linea verticale del guazzabuglio colorato del grano. Funziona, potete guardare il video qui. Ah, non fa mica male, è una pianta GM, ma il rimedio è naturale, a base di menta. Infine, piante resistenti alla siccità? Sì, sì, quelle sono essenziali, visti anche i cambiamenti climatici. Ma come si fa? Bisogna giocare su molti tavoli. Per esempio, allungare le radici. Più in basso vanno più acqua trovano. Oppure aumentare i peli radicali (sono strutture cellulari che assorbono acqua), oppure fare in modo che la fioritura duri poco (questa fase fenologica consuma molta acqua), o che gli stomi (sono aperture attraverso le quali le piante evapotraspirano) si chiudano per più tempo in regime di carenza idrica, così le piante mantengono il turgore.

Come fare? Si tratta di trovare quei geni che regolano i suddetti caratteri. Dove stanno? Nell’ambito della stessa specie, magari in varietà selvatiche? Allora, se proprio ci opponiamo al DNA ricombinante, possiamo fare incroci, migliaia e migliaia e cercare di passare quei caratteri nelle piante coltivate. Oppure quei geni stanno in altre varietà. Qui gli incroci risulterebbero difficili e dobbiamo usare la tecnica del DNA ricombinante. Del resto, più conosceremo i genomi delle piante più sarà facile prendere i geni che ci servono e del resto, alla fine, con tutte le tecniche che vogliamo utilizzare sempre dovremo spostare geni. Meglio saperlo e farlo al meglio.

Insomma, ci toccherà integrare le conoscenze e non fidarci delle soluzioni semplici. Ci toccherà lottare affinché la ricerca pubblica torni protagonista e si imponga con le stesse chanche che ora hanno un paio di industrie sementiere – fra poco oltre alla Monsanto entreranno in campo Pioneer, Sygenta, Bayer e spero un paio di industrie biotech africane, emergenti e combattive. E soprattutto dopo le indignazioni, le recriminazioni, i complotti, le nostalgie, prima o poi, ci toccherà dichiarare che no, il presente non ci basta, e affrontare il nuovo imponderabile e cercare i rimedi. Ci toccherà essere seri: studiare e tanto anche. Studiare e conoscere significa contaminarsi. Come il riso illustrato da Potrikus, che è buono e utile perché contaminato, colorato, vario e ricco di apporti e di sapienza, e generazioni dopo generazioni, migliora.
In fondo, il vero biologico è tecnologico.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.