Il diritto all’infelicità

È l’emoji più digitato su Twitter:
lol
Faccina-Che-Ride-Fino-Alle-Lacrime, LoL, Laughing out Loud.

Dal 4 luglio 2013, giorno in cui è partito il conteggio, a quando scrivo è comparso 678.558.907 volte, anche se in questo istante sono sicuramente molte di più.

Seguono in classifica:
black-heart-suit heavy Unknown Unamused smiling

Insomma, anche se ogni tanto si fa il broncio, è un mondo in cui ci si diverte un mondo, si ride a crepapelle e si scoppia d’amore.

L’universo sorride!

Interruzione per breve esperimento scientifico che si può anche saltare. Con calma, dedicando attenzione a ogni mutamento che ci accade in faccia, eseguiamo un sorriso. Facciamolo gradualmente, con lentezza, in modo da sentire ogni muscolo contrarsi, sono 12 in tutto, divisi in sei coppie, accorgendosi che per primi si alzano gli zigomi (zygomaticus major e zygomaticus minor) e che immediatamente dopo si inarcano gli angoli delle labbra (levator anguli oris) e si solleva il labbro superiore (levator labii superioris) così da aderire alle gengive quasi, soprattutto sotto il naso (risorius). Adesso che il sorriso è formato, la faccia impostata e i muscoli tesi, aggiungiamo l'ultimo ingrediente necessario perché sia perfetto: strizziamo gli occhi (orbicuaris oculi) e adesso sì che sembriamo felici. Sarà faticoso, ma l'esperimento prevede che questo meraviglioso sorriso spontaneo ci rimanga in faccia per tutto il tempo necessario alla lettura. Non rilassiamo i muscoli, proviamo a continuare a sorridere.

Capita anche a voi di aspettare qualcosa di bello – tornare finalmente a casa, incontrare un amico a pranzo, andare a una festa – e di ritrovarvi poi inspiegabilmente a disagio, insofferenti e tristi, invece che allegri?

Capita anche a voi di non riuscire a godere di quello che avete desiderato e aspettato?

State continuando a sorridere, vero?

È un’incapacità di felicità che ci fa sentire in colpa e inadatti; che ci fa credere di sprecare tempo e perdere le cose belle della vita perché si è inadeguati a goderne.

Il senso di inettitudine aumenta anche perché intorno sorridono tutti, non solo su twitter: file di denti bianchi pullulano nelle pubblicità dei dentisti e nelle pubblicità in generale, sui giornali, in tv, ma anche nella vita sociale, nei bar, sul lavoro e alle feste dove tutti sono impegnati a farsi divertitissimi selfie. Sorridono tutti, sorridono sempre, sorride Belen, sorride Obama e sorride Michelle, sorride Renzi con Tony Blair. Perché chi ha successo sorride. Ma anche chi non ce l’ha deve sforzarsi dal momento che il sorriso è l’ingrediente base per averlo, il successo. La prima tecnica che si insegna ai venditori telefonici, per risultare convincenti, è di parlare sorridendo. Ognuno pare impegnato ad attraversare la vita spargendo allegria.

State ancora sorridendo? Sentite che i muscoli si sono induriti? A me ne sono spuntati un paio sulle tempie che non sapevo di avere. E la faccia incomincia a fare male.

Nel tentativo di non scrivere troppe idiozie, ho dato un’occhiata al sito di Repubblica per verificare la quantità di sorrisi in un’ora e in un giorno qualsiasi. Invece mi sono imbattuto in questa notizia, la prima a destra.

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L’autore di un’immagine del genere andrebbe processato.

Osservatela bene.

Chi è quel cretino vestito di nero con la cravatta bianca che saltella in un prato, mentre le nuvole alle sue spalle – o è la scia di un aereo – compongono la scritta «success»?

Perché si trova lì? Che posto è?
Se è il capo dei Teletubbies, perché si è vestito come uno dell’Isis?

E se si è vestito così, come fa ad avere più materia grigia di me?
E, soprattutto, come fa a essere più felice?

Ogni cosa intorno a noi parla di felicità, sussurra che la felicità è una condizione per la quale bisogna impegnarsi ogni giorno e ogni minuto perché è un obbiettivo possibile, anzi obbligatorio, il cui raggiungimento dipende soltanto da noi, dalla nostra espansività e intraprendenza, in breve dal nostro sorriso.

È come essere imprigionati in un eterno «Cheese!», che in inglese vuol dire formaggio e invece è l’imperativo inflitto a ogni bambino fin dalla foto di classe della prima elementare. Un comando talmente ripetuto da diventare interiore.

Non è stato sempre così.
Il sorriso è un obbligo recente.

In un bel libro uscito qualche mese fa – The Smile Revolution in 18th-century Paris di Colin Jones, Oxford University Press – si sostiene che abbia un inizio preciso.
Questo:

Louise Élisabeth Vigée Le Brun, Autoritratto con la figlia Jean-Lucie

Louise Élisabeth Vigée Le Brun, Autoritratto con la figlia Jean-Lucie, 1786

L’autoritratto con figlia e sorriso di Vigée Le Brun fu esposto al Salon del 1787, e fece scandalo. Un critico definì quel sorriso, così spudorato da lasciare intravedere i denti, «un’affettazione che artisti, conoscitori e persone di buon gusto condannano all’unanimità».

A corte nessuno si sarebbe mai sognato di sorridere, meno che mai di farsi ritrarre con quell’espressione. Il sorriso era considerato un segno di stupidità e maleducazione, perfino di pazzia, o poteva essere preso come un gesto di superiorità verso gli altri. Le bocche, inoltre, erano un disastro, i denti mancavano o erano marci, e l’alitosi imperava. Perciò, nella pittura precedente, i rari sorrisi esprimevano l’intento satirico o grottesco del pittore nei confronti del soggetto.

Le cose cambiarono a fine Settecento, sostiene Colin Jones.

Determinanti furono i progressi della scienza dentistica e dell’igiene dentale, e il culto crescente per i sentimenti, ma anche un nuovo spirito che si andava diffondendo nella società. Ha raccontato Colin Jones al Boston Globe: il sorriso è «un comportamento che è stato davvero creato fuori dalla corte… Si sviluppò nella sfera pubblica di Parigi, nei café, nei boulevard, nelle passeggiate, nei parchi pubblici, e nei salons… come segno di una nuova società, più ugualitaria». «Il sorriso è un gesto partecipatorio; mostra che fai parte di un gruppo», inoltre è «contagioso» perché «se qualcuno ti sorride, normalmente gli restituisci il sorriso».

L’ideale culturale del sorriso aveva incominciato a diffondersi e avrebbe continuato a farlo fino a oggi, pur con arresti e riprese. Per esempio, nessuno sorride nei primi dagherrotipi, anche perché i tempi di esposizione erano troppo lunghi (Non avete smesso di sorridere, spero...). Fu soltanto negli anni Venti del Novecento che la fotografia capì di essere il mezzo perfetto per catturare quell’espressione, che intanto si era diffusa fino a diventare il simbolo stesso della felicità.

Se Jones ha ragione si tratta di un gesto la cui storia pubblica è connessa all’illuminismo e all’ascesa della borghesia. In poche parole, al capitalismo.

Forse non è un caso che il 4 luglio 1776, pochi anni prima dell’autoritratto di mademoiselle Vigée Le Brun, la Dichiarazione di Indipendenza americana riconobbe “a tutti gli uomini il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”.

Lo so che siete stanchi, ma fate uno sforzo, è quasi finita...

Quando è successo che quel diritto è diventato un dovere?

Quando è successo che sorridere è diventato obbligatorio?

Qualcuno ha mai pensato alle conseguenze psico-culturali del sorriso forzato?

Sorridere troppo fa male. Alla lunga. Costringe a contrarre i muscoli, ghiaccia la faccia, impedisce di esprimere altri stati d’animo e perfino di provarli, perché il sorriso è un anestetico che nasconde ogni altra emozione: mentre si sorride è difficile percepire di essere arrabbiati o insoddisfatti o disperati o delusi o anche soltanto malinconici e perfino sereni, e se anche lo si percepisse si percepirebbe che quelle emozioni le si sta nascondendo. Il sorriso può diventare una maschera e una museruola.

Sorridere è estenuante. Alla lunga. Infatti, se conti i sorrisi reali delle persone che camminano da sole per strada – io l’ho fatto a Roma in una mattina di primavera – ne vedi 3 su 100, e uno dei sorrisi era chiaramente l’effetto di un ictus.

La verità è che il sorriso è lo strumento di una collettiva, quotidiana messa in scena di felicità. Il guaio è che se nella sfera pubblica si è obbligati a una simulazione costante di benessere, ogni sentimento di tipo diverso tenderà a sfogarsi nella sfera privata.

Non c’è alcun legame tra sorriso e felicità per il motivo semplice che il sorriso è un gesto mentre la felicità – se esiste – non è un attimo, non è uno stato di benessere momentaneo, è un processo, una fatica, è qualcosa che si costruisce, un’armonia complessiva con il mondo, pur tra cose noiose, brutte e faticose e qualcuna divertente, bella e preziosa, è sentire di esistere in un modo che ha senso ed è intonato a chi siamo.

Sorridere è diventato un obbligo sociale lol, un lavoro ulteriore e non pagato 27-face-with-open-mouth-and-cold-sweat, il lavoro precondizione di ogni altro lavoro Unamused, ma ognuno ha diritto e bisogno anche di sentirsi triste Unknown-1 e arrabbiato rage, annoiato yawne lamentoso lament, di alternare risate a sbadigli senza sentirsi in colpa, che si ha bisogno anche di sentirsi infelici a volte senza che nessuno si allarmi e ti chieda perché, o pensi che ci sia qualcosa di sbagliato.

State ancora sorridendo, mi auguro.

Ecco, adesso rilassate i muscoli, zygomatici, levatores, orbicuaris e risorii, riprendete l’espressione neutra che si deve avere quando si legge e quando si vive.

È un sollievo essere tristi, a volte. A sorridere troppo fa male la faccia.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.