Il calzino di Fazio

Non si saprebbe da dove cominciare per elencare le scemenze che tutti quanti diciamo sulla Rai, caso unico di azienda di cui tutti quanti riteniamo di essere i migliori amministratori delegati (ennesima estensione dell’attitudine proverbiale a essere tutti allenatori della nazionale): l’ultima è la polemica in cui ci siamo messi distinguendo gli stipendi di “artisti” e “giornalisti” per stupidità demagogica (è anche un paese che adora etichette, simboli, definizioni formali, e ignora logica e sostanza).
Poi siamo gli stessi che condividono sui social i post e gli articoli che dicono “tutti parlano di quello che non sanno”. Gli altri.
Ma appunto, non saprei da dove cominciare, e quindi dico una cosa su un approccio più generale che abbiamo sulla Rai, il più ubriaco di tutti. Quello per cui siccome ognuno di noi paga il canone ognuno di noi è titolato a far valere i suoi gusti ed essere ascoltato rispetto alla costruzione dei palinsesti. Ieri ho sentito un signore in radio dire che il proprio pretendere che Bruno Vespa non faccia un programma non può essere ignorato, perché lui paga il canone. Ed è una scemenza che con toni più o meno solenni ogni tanto diciamo tutti. Scambiando un’azienda non solo per una democrazia (non lo è), e non solo per una democrazia diretta (non lo è), ma per una democrazia diretta minoritaria (non lo è) in cui ogni veto sia vincolante.
Il nostro pagare il canone ovviamente non può darci il diritto di pretendere niente, ma di sicuro niente di superiore alla frazione milionesima che paghiamo (al massimo, funzionasse così, potrei pretendere di decidere il colore di un calzino – uno – di Bruno Vespa una volta ogni trent’anni). E se vogliamo considerare che si tratta di un’azienda pubblica in una democrazia, beh, in una democrazia gli elettori non decidono ogni giorno di ogni singola legge e decisione presa dai loro rappresentanti eletti (con la tv, grazie alla tanto bistrattata audience – bistrattata giustamente, per me – lo fanno già molto di più). La democrazia funziona che gli elettori votano, liberi, e dopo i loro eletti decidono come ritengono.
Figuriamoci un’azienda. La Rai è un’azienda pubblica i cui palinsesti vengono decisi da dirigenti nominati da coloro che gli italiani hanno liberamente votato. Tutto corretto e rispettoso delle regole. Quei dirigenti hanno il mandato di far svolgere un servizio pubblico e tenere i conti in ordine: non di assecondare i gusti di ognuno di noi ascoltando ogni minuto le sue insofferenze per Vespa, Berlinguer, o altri cento che lavorano in tv. Non funziona così e non può funzionare così: il canone è un tributo che, come le altre tasse, non implica che dopo ognuno di noi può decidere lui se sarà costruito un ospedale pediatrico o o un pronto soccorso, una scuola o un cavalcavia, e se a Natale l’albero il comune lo metterà in una piazza o un’altra. Abbiamo delegato, per legge: al massimo possiamo costruire dei movimenti di opinione per far conoscere opinioni estese a chi deve decidere, e auspicare che ne tenga conto. Ma devono essere estese (è quello che fa l’Auditel, peraltro, con la tv). Il singolo cittadino-che-paga-il-canone a cui non piace Fazio, se lo tiene, Fazio – o cambia canale – e il suo gusto è irrilevante. Quasi irrilevante.
Può cominciare a scegliere il calzino.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).