I cambiamenti climatici e la percezione del futuro

Le risorse naturali sono un elemento centrale per la nostra società. Il gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) ha recentemente reso disponibile il quinto rapporto sul clima mondiale. In breve, l’IPCC ritiene che l’inazione sulle politiche contro i cambiamenti climatici stia conducendo verso un futuro a rischio di eventi disastrosi e probabilmente irreversibili. Ma andiamo per gradi.

Cosa dice la scienza. Sgombriamo subito il campo da negazionismi climatici: le variazioni di temperatura del pianeta esistono e si ripetono da ben prima che l’uomo apparisse sulla Terra. È ormai scientificamente accettata la teoria delle variazioni geometriche del moto della Terra intorno al Sole, anche se i suoi effetti non sono semplici da quantificare. Sappiamo però che la quantità di anidride carbonica (CO2) in atmosfera è correlata alla temperatura del pianeta, il cui innalzamento provoca l’ulteriore rilascio di anidride carbonica in atmosfera, che a sua volta fa aumentare la temperatura finché il pianeta raggiunge e si assesta su un nuovo equilibrio ad una temperatura maggiore. Questo fenomeno naturale ha tuttavia subito una accelerazione visibile negli ultimi 150 anni causata dalle attività umane. Esiste una stretta correlazione tra il consumo globale di energia e la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera. Lo straordinario sviluppo economico mondiale dalla rivoluzione industriale in poi è infatti basato sulla disponibilità di energia affidabile, sicura, economica e versatile delle fonti fossili (petrolio, carbone, gas naturale) che ha provocato l’immissione progressiva in atmosfera di una enorme quantità di anidride carbonica da processi di combustione. Numeri alla mano, la concentrazione di CO2 in atmosfera è quasi raddoppiata negli ultimi 150 anni e la tendenza per i prossimi anni è in direzione di un ulteriore aumento.

Sugli effetti dei cambiamenti climatici sono stati scritti fiumi di parole, alcune assennate altre meno. L’ultimo rapporto dell’IPCC evidenzia i rischi dei cambiamenti climatici derivanti dallo squilibrio idrico indotto, con inondazioni provocate dall’innalzamento del livello dei mari, diminuzione delle rese agricole delle zone fertili causate dalla siccità, oltre agli immancabili conflitti (potenziali) per le risorse. Stiamo dunque andando incontro ad una catastrofe? Diversi scienziati hanno provato a stimare l’effetto dell’aumento della temperatura globale sulla società moderna e, partendo da dati storici, hanno prefigurato diversi scenari con conclusioni variegate. Purtroppo la fisica insegna che l’estrapolazione del futuro da dati storici complessi, per quanto ben fatta, è pratica assai incerta e ha insito il rischio di fallimenti clamorosi. Se tutti gli studi prevedono un ulteriore aumento di temperatura, la quantificazione dell’aumento appare ancora oggi aleatoria. Va da sè che altrettanto aleatorie risultano allora le predizioni di catastrofi e guerre per le risorse dietro l’angolo. Semplicemente non abbiamo mai sperimentato variazioni di temperatura similari – per le meno non durante gli ultimi 10.000 anni – e dunque non sappiamo prevedere ciò che potrebbe realmente accadere. L’unica cosa certa è paradossalmente proprio l’incertezza totale di un cambiamento repentino e globale, con tutto ciò che ne consegue. Questo dice la scienza.

Cosa fare. Innanzitutto porre un freno immediato alle emissioni globali, evitando incrementi per i prossimi 10 anni per poi imboccare una massiccia e virtuosa discesa, con un taglio dal 40 al 70 per cento nel 2050 fino allo zero (!) per cento, ovvero nessuna emissione di anidride carbonica in atmosfera, nel 2100. Questo dice l’IPCC. Le cause dell’aumento delle emissioni sono rintracciabili nell’aumento della popolazione mondiale, nell’aumento del PIL e nella crescita dei consumi di energia. Ora, per ridurre della metà le emissioni entro il 2050 non si può certo sperare in una decrescita della popolazione e anche un rallentamento dell’economia globale non è una scelta auspicabile per le sue implicazioni sociali negative. L’unica strada percorribile passa allora attraverso la drastica riduzione della domanda di energia o la decarbonizzazione delle fonti energetiche. O tutti e due. In termini economici, il rapporto dell’IPCC stima un costo pari allo 0.06% del PIL mondiale annuo, che non è poco. Tali previsioni tengono conto del costo degli interventi necessari e dei benefici garantiti dal miglioramento della qualità dell’aria e dalla riduzione della dipendenza energetica fossile, anche se mancano di considerare altri possibili benefici derivanti dalla prevenzione di eventi atmosferici estremi scongiurati o mancate riduzioni delle produzione di cibo, per l’ovvio motivo che monetizzarli risulterebbe estremamente complesso e aleatorio. Si chiede al mondo, insomma, di investire massicciamente su progetti – produzione di energia da fonti rinnovabili, nucleare, auto elettriche, sistemi di accumulo dell’energia, stoccaggio sotterraneo della CO2 e biocarburanti realmente sostenibili – il cui ritorno economico non è per nulla garantito. Altrimenti detto, si richiede un’inversione di prospettiva al paradigma economico e industriale moderno perché i costi vanno pesati contro benefici aleatori o difficili da quantificare che, nel contesto economico convenzionale, condurrebbero irrimediabilmente a preferire il business-as-usual delle fonti fossili.

Il problema col futuro. È noto che una parte consistente della discussione scientifica sui cambiamenti climatici ruota intorno al tasso di sconto dei loro effetti. Nel linguaggio economico, il tasso di sconto permette di calcolare il valore che un capitale futuro avrebbe oggi. La scelta del tasso di sconto è cruciale nella valutazione economica presente di eventi futuri come i cambiamenti climatici, perché necessaria per attualizzare il costo economico di cambiamenti climatici che si renderanno palesi solo tra qualche decennio. I tassi di sconto esistono in qualsiasi pianificazione dell’uso delle risorse e vi sono ottime ragioni per prediligere il presente o il futuro a seconda della situazione – meglio acquistare un maglione oggi se fa freddo anziché risparmiare per un cappotto domani se potrebbe fare freddissimo, viceversa un uovo risparmiato oggi potrebbe dar luogo a una gallina e potenzialmente più uova domani. Optare per un’azione decisa e immediata a favore delle generazioni future contro i cambiamenti climatici, come vorrebbero gruppi ambientalisti più o meno organizzati, anche qualora pregiudicasse lo sviluppo economico presente equivale ad assumere un tasso di sconto nullo, cioè a assegnare un valore trascurabile al presente rispetto a un futuro comunque incerto, il che è palesemente assurdo. La pratica opposta è invece assumere un tasso di sconto elevatissimo, privilegiando enormemente il presente rispetto al futuro e rimandando ogni azione preventiva costantemente al futuro con il risultato dell’inazione completa. Per quanto assurda per ragioni diametralmente opposte questa pratica è ahimè una costante a tutti i livelli, dai legislatori ai cittadini, ed è la ragione per cui le questioni ambientali sono di fatto escluse dalle priorità dell’economia produttivista moderna in favore di lavoro, occupazione e crescita. Questa è la realtà e bisogna prenderne atto.

Ce la possiamo fare? Probabilmente no. O meglio, sicuramente un giorno riusciremo a promuovere politiche climatiche globali, ma non nei prossimi anni. I punti fondamentali dietro il pessimismo generale sono tre. (i) La crescita dei consumi energetici è prevista nei Paesi in via di sviluppo che, nei prossimi 20 anni, conteranno per più dei tre quarti delle emissioni mondiali. È altamente improbabile che molti di questi siano disposti a rinunciare a qualcosa. (ii) Gli effetti dei cambiamenti climatici variano molto da regione a regione, non sono sempre negativi e, come detto, sono molto difficili da stimare. Trovare un accordo globale, equo e condiviso, non è semplice. (iii) Per limitare il riscaldamento globale, circa tre quarti delle riserve mondiali già scoperte di fonti fossili dovrebbero restare sottoterra. Significherebbe di fatto rinunciare a estrarre petrolio, gas naturale e carbone da giacimenti già ritrovati a seguito di investimenti miliardari. Scenario improbabile, dato l’indotto economico e occupazionale che ruota intorno a questi business.

Tra il 2000 e il 2010, ad esempio, il governo cinese ha autorizzato e costruito oltre 300 Gigawatt di nuove centrali elettriche a carbone. Stiamo parlando della potenza termoelettrica totale di Germania, Italia, Francia, Spagna e Inghilterra nello stesso periodo più qualcosa per quando fa buio. Anche con una stima economica conservativa si parla di oltre 300 miliardi di dollari di investimenti per centrali che dovranno restare operative per 30-35 anni prima di coprire i costi e generare profitto. Davvero qualcuno si aspetta che Pechino decida di uscire da un investimento di tal portata e optare per la ben più costosa tecnologia delle fonti rinnovabili con oltretutto il ben noto problema dell’intermittenza? Insomma, la crescita delle emissioni di anidride carbonica è alimentata da Cina e USA che, in tempi di espansione industriale cinese e rivoluzione dello shale gas americano, a concordare accordi limitanti non pensano proprio. Lo slancio europeo ha un valore per ora puramente simbolico. Perdurando questa situazione, i piani di Bruxelles per ulteriori sforzi verso la decarbonizzazione dell’economia europea rischiano anzi di trasformarsi in una zavorra anti-competitiva a fronte di benefici marginali o nulli.

È possibile che le cose cambino in futuro ma non sarà facile. Da sempre l’uomo si adatta ai cambiamenti dell’ambiente ed è improbabile che il riscaldamento globale costituisca un’eccezione. Rispetto al passato, la differenza oggi la fanno i numeri della popolazione sul pianeta, con città da centinaia di migliaia o milioni di abitanti. Evacuare una città moderna a seguito di un evento climatico irreversibile non è la stessa cosa che evacuare un villaggio da poche centinaia di abitanti, né è ben chiaro quali possano essere le implicazioni nella percezione sociale del futuro per le questioni ambientali. Quel che è certo è che promuovere un’economia di consistenza basata sui cicli chiusi di materie prime affinché le attività produttive non pregiudichino il potenziale a lungo termine delle risorse naturali appare una necessità sempre più stringente per un’economia realmente sostenibile.

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[Si ringrazia il blogger Energisauro, co-autore di questo articolo]

Filippo Zuliani

Fisico, ingegnere, analista e acciaista. Vive e lavora in Olanda, tra produzione industriale e ricerca universitaria. Sul suo blog parla di energia, materie prime, materiali, trasporto più qualcosa di economia e storia. Sperabilmente con senno.