Ho qualcosa da nascondere

Io ho vissuto l’adolescenza in un paesino del cuneese: 1500 abitanti che più o meno si conoscevano tutti, ma soprattutto tutti conoscevano la professoressa di matematica della scuola: mia madre.

La cosa aveva riflessi significativi sul già risicato diritto alla privacy che come adolescente potevo pretendere. Peggio di me stava solo il figlio del medico condotto. Era come esser figli dell’NSA. Non c’era scorribanda o marachella che non giungesse in un modo o nell’altro all’orecchio dei miei genitori. Spesso la sanzione giungeva già nella fase degli atti preparatori, poiché il monitoraggio parentale della comunità era più efficace degli attuali algoritmi di pre-crime.

Quando hai 15 anni il diritto fondamentale alla riservatezza e a una vita privata inizia a diventare urgente ed è da sempre una battaglia piuttosto impegnativa: l’autorità è costituita usualmente dai genitori e, almeno a casa mia, negli anni ’70 ed in un paesino in provincia di Cuneo, era un’autorità poco democratica, piuttosto impermeabile ai diritti fondamentali e decisamente invasiva. Tutte caratteristiche ovviamente giustificabili per la mia tutela e per la mia sicurezza, sebbene le mie “trasgressioni”, lo comprendo ora, fossero fondamentali per permettermi di crescere. Lo comprendo ora, a posteriori, nell’attuale difficile ruolo di genitore.

In quel periodo constatai per esempio che il contante, la paghetta, è un passaggio fondamentale per il rispetto del diritto a una vita privata. Se ogni spesa era tracciata, sindacata o sindacabile dall’autorità, comprare ad esempio Skorpio o Lanciostory  diventava un’impresa impossibile: tutti i fumetti a casa mia erano considerati porcheria ma le copertine di Skorpio erano decisamente contrarie alla pubblica decenza. Non potevo andare a comprarli dal tabaccaio del paese che teneva anche i giornali: era peggio di un parental control sul PC con accesso remoto. Dovevo usare un TOR ante litteram, ovvero prender la corriera, andare nella cittadina vicina a 15 Km e comprare all’edicola della stazione, che era una specie di anonimo deepweb. Del pari, se dovevo violare uno dei non rari blocchi di frequentazione, tipo blocco DNS – per esempio non potevo andare da Camillo a causa di quei dannati petardi esplosi fuori tempo in canonica – allora dovevo evitare di passare dalla via principale, deviare sulla strada vecchia bypassando  la drogheria e soprattutto il macellaio, uno dei più noti provider d’informazioni del paese, costantemente sulla porta del negozio, fisico imponente e grembiale bianco chiazzato di sangue. L’incubo della mia adolescenza. Insomma dovevo fare un proxy.

Fino ai diciott’anni, fino all’università a Torino, io la privacy ho dovuto conquistarmela passo passo, come tutti gli adolescenti, ma con qualche svantaggio in più.

Non sapevo in allora che quella battaglia – che ora vedo combattere ai miei figli (e mai una volta che rispondano al telefonino, anche se è un’appendice costante del loro corpo) – fosse una battaglia fondamentale: il diritto ad una vita privata con i suoi corollari di riservatezza inizia lì, nell’adolescenza, ed è un diritto fondamentale intimamente legato alla dignità della persona che campeggia all’art.1 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

Giunto nella grande città ho vissuto l’euforia dell’anonimato e quando è arrivato internet ho  immaginato, come tutti, che il mondo virtuale ne fosse il regno.

Ma nel giro di pochi anni il mondo è tornato ad esser un paese e la dimensione digitale della nostra vita ha generato milioni di sensori assai più invasivi e persistenti dei miei 1500 compaesani.

Ora, non voglio farla lunga, ma in allora, come oggi, io non controllavo affatto il dato e  l’informazione personale volontariamente o forzosamente appresa ad ogni mio movimento; ciò che in qualche modo mi salvava nella tribolata adolescenza (non sempre invero) era il controllo della situazione sociale e del contesto.

Il controllo sul dato-informazione non l’avevo con il macellaio del paese e non posso pensare di averlo oggi sul web con Google, Facebook e soprattutto con le mille agenzie statuali affette, per svariate e talvolta encomiabili ragioni, da bulimia informativa. Ma in allora avevo contezza e in qualche modo governavo le banali regole tecniche (le vie del paese, gli orari della corriera) e quelle sociali di prossimità del mio territorio.

Oggi non ci riesco più. E non è solo per la quantità dei dati captati e memorizzati ad ogni passo ma per la totale opacità del contesto e delle regole tecniche e sociali che governano la nostra vita digitale.

Algoritmi ignoti, insondabili ai loro stessi creatori, ricostruiscono la nostra immagine, creano punteggi  e giudicano rilevanze e congruità a nostra totale insaputa. Banche, assicurazioni, imprese di ogni risma e fattezza (a breve l’internet delle cose ci stupirà) ma soprattutto lo Stato, con le sue mille agenzie di verifica e controllo, accedono ad ogni informazione decontestualizzandola, creando relazioni e correlazioni di cui non abbiamo coscienza, ma di cui subiamo quotidianamente le conseguenze.

Non possiamo impedire tutto questo, il big data e gli open-data salveranno il mondo, d’accordo. Ma possiamo e dobbiamo pretendere di sapere il chi, il come e il quando. Abbiamo bisogno di sapere qual è il contesto, e quali sono le regole; solo così troveremo strategie, non per delinquere o eludere la legge (come sostiene parte della magistratura), ma per esercitare i diritti fondamentali della persona.

Nel mondo fisico sappiamo quando lo Stato ha il diritto di entrare in casa nostra, o a quali condizioni possa limitare le nostre libertà personali, di movimento, d’espressione; nel mondo digitale non sappiamo, e neppure ci chiediamo, chi, quando e a quali condizioni possa impossessarsi dei nostri dati, dei nostri dispositivi tramite software occulti, della nostra vita.  Accettiamo supinamente un’intollerabile opacità.

Io ho qualcosa da nascondere da quando ho ricordi: sono riservatezze variabili a seconda dell’interlocutore, del tempo, del luogo e del contesto. E non voglio per me e i miei figli una società stupidamente disciplinata da una costante sorveglianza e decerebrata dagli algoritmi. Vorrei una società in cui l’asimmetria dell’informazione sia l’esatto opposto dell’attuale, dove purtroppo il cittadino è totalmente trasparente e lo Stato e le sue regole sono opache e incerte.

Carlo Blengino

Avvocato penalista, affronta nelle aule giudiziarie il diritto delle nuove tecnologie, le questioni di copyright e di data protection. È fellow del NEXA Center for Internet & Society del Politecnico di Torino. @CBlengio su Twitter