“Halibut”, una recensione difficile.

Più si è vicini alla persona che ha creato l’opera di cui si scrive, più è complesso scrivere una buona recensione. Coi morti sono tutti bravi, ma i vivi, soprattutto se li conosci (e soprattutto se li conosci bene) sono un problema. Chi lavora “nelle arti” in un modo o nell’altro conosce i colleghi: con alcuni diventa amico e difficilmente ne parlerà male, con altri instaura un tacito rapporto di solidarietà che implica un «tu parli bene di me e io parlo bene di te» che com’è ovvio danneggia una recensione onesta. Alcuni poi gli stanno antipatici e anche lì la speranza di onestà intellettuale scompare.

Fonti che giudico affidabilissime hanno spesso tessuto lodi sperticate di opere che ho giudicato a malapena “carine”, per via delle summenzionate regole; per questo motivo recensisco di rado e malvolentieri amici e conoscenti, e lo faccio solo se ho qualcosa da dire a proposito del loro lavoro, al di là di quanto mi sia piaciuto.

15613_10203673079203249_1376792796756735743_nConosco Lorenzo Bechi da molti anni ed è uno dei miei più cari amici. Seguo il suo lavoro come regista sin dagli inizi e talvolta ho anche collaborato con lui, come in Bathrooms, dove il caro amico, a corto di attori, mi ha fatto recitare nella parte più imbarazzante possibile: chi ha visto o vedrà il film capirà che questo potrebbe essere un argomento a favore della recensione vendicativa.

Una caratteristica interessante del suo lavoro è la relativa povertà dei mezzi: il budget dei suoi lungometraggi infatti, tutti autoprodotti sotto l’etichetta FILMSOLO, è risibile, soprattutto in paragone alle produzioni standard. Gli attori del suo nuovo film, Halibut” sono suoi amici (io stavolta non ci sono, forse non aveva parti abbastanza imbarazzanti da propormi) e i set sono spazi aperti, garage, o claustrofobici (e bellissimi) edifici abbandonati. Ha persino girato un episodio nella cantina di casa mia, un luogo tra i più orribili che abbia mai visitato, con buona pace del padrone di casa che è anche lui un mio amico nonché attore del film, nella meravigliosa parte dello squalo che vorrebbe essere: «O aquila, o condor, o falco; non un gufo, non un pappagallo. Nessuna possibilità per il barbagianni che è saggio, ha un nome carino, ma è troppo sfigato».

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Vincenzo Marasco, lo squalo.

Nonostante questi limiti, e anzi proprio per questi, Halibut fa dei suoi canoni forzati una poetica e grazie ai sempre più astuti trucchi della regia sembra sempre che la povertà dei mezzi sia “fatta apposta”. Il montaggio, il testo e lo stile della sceneggiatura la rende adatta anche ad attori non professionisti*, le ambientazioni sono così sceniche da invitare alla contemplazione che piace tanto ai russi e anche a me, la musica è poca ma non si sente la sua mancanza, perché sostituita da parole, immagini o (soprattutto) dalla sua stessa assenza.

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Riccardo Bianchini, qua scimmia.

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Matteo Salimbeni spazza da qualche parte qua dentro.

Non ho detto di cosa parla il film: Halibut prende un nome da un pesce (l’halibut) che è tipo una brutta sogliola strabica che vive in fondo al mare. Lo davano da mangiare in alcune mense delle elementari e nonostante sia meglio di una sogliola tutti i bambini lo odiano. È un film palesemente allegorico, alla vecchia maniera, come Dante e gli alchimisti. L’allegoria verte, a mio parere, sull’inutilità di qualunque sforzo umano e del disperato tentativo di non essere soli. Credo che tutti dovremmo pensare spessissimo a queste cose e sono favorevole a chiunque le faccia notare. Halibut sembra triste e infatti lo è, ma non solo, perché fa anche ridere: gli uomini, infatti, sono brutti e ridicoli come halibut – perlomeno se li osserviamo a distanza.

Non ho chiesto a Lorenzo se intendesse dire questo perché non ha alcuna importanza e perché nessuno intende dire nulla. Quel che mi è piaciuto molto di questo film è che rende evidente come il dolore, visto da lontano, sia buffo. Chi si diverte nel vedere quei video in cui gli animali fanno cose stupide e divertenti, spesso facendosi molto male, si potrà divertire nel vedere la stessa cosa con gli esseri umani. Le soluzioni sono due, diventare molto tristi (ma ridere), diventare molto cattivi (e ridere) o tentare di allontanarsi da sé, come un piccolo halibut trascendente, e ridere di noi.

Questo è Halibut e spero che possiate vederlo presto nelle sale.

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Riccardo Bianchini, non più scimmia

Francesco D'Isa

Artista e scrittore. Da quando è nato, nel settembre del 1980 a Firenze, Francesco D'Isa ama la sintesi e odia la biografia.