Günter Grass e il tamburo del Sessantotto

«Estremismo: malattia infantile del comunismo», era il commento con cui mio padre, citando Lenin, concludeva le nostre accese discussioni politiche. Non voleva capire che il comunismo al quale lui era legato, a noi appariva tremendamente senile. La nostra «rivoluzione» aveva altri eroi, giovani e belli: da Ernesto Che Guevara alla splendida fanciulla bionda che, accovacciata sulle spalle del suo fortunato compagno, agitava una bandiera rossa, durante il Maggio francese (molti anni dopo venimmo a sapere che la ragazza era di origini aristocratiche, era lí quasi per caso e si era messa in posa per il fotografo).

Quando andavamo alle manifestazioni operaie con i bidoni vuoti di benzina usati come tamburi, in un fracasso assordante, mi sentivo allegro ma anche, nonostante il metro e novanta di altezza, un po’ Oskar Matzerath. Il protagonista de Il tamburo di latta di Günter Grass, è infatti il vero anticipatore del Sessantotto. È stato giustamente definito dal New Yorker, in occasione dell’uscita dell’omonimo film di Volker Schlöndorff, «un maligno Peter Pan». Il piccolo tedesco-polacco Oskar Matzerath, decide all’età di tre anni, di non crescere più, disgustato dal mondo e dalla sua scomposta famiglia. Grazie a uno strano sortilegio della volontà e della follia diviene un nanetto mostruoso che non fa altro che spaccare i timpani agli adulti con un tamburo di latta e un grido sconvolgente. Il rifiuto di crescere, in Grass, va contro le leggi che governano il mondo, è una forma di autodifesa, che non ha nulla di utopistico: si tratta di scegliere il male minore. L’aspirazione di Oskar è il ritorno nel ventre materno. Il mondo gli si complica davanti col passare degli anni. Alla fine, rinchiuso in manicomio: «Oskar era solo, tradito e abbandonato. Come poteva conservare la sua faccia da bambino di tre anni se gli mancava ciò che più gli era necessario, il suo tamburo? Tutti gli accorgimenti usati per anni al fine di trarre in inganno gli adulti, come: bagnare il letto, balbettare le preghiere della sera, la paura di Babbo Natale, che in realtà era Greff, porre di continuo le domande senza senso caratteristiche dei tre anni (per esempio: perché le automobili hanno le ruote?), tutti quei contorcimenti che gli adulti si aspettavano da me dovevo eseguirli senza il mio tamburo…».

Oskar Mazerath incarna bene la filosofia e il carattere del suo autore e di una certa sinistra tedesco-occidentale. Lo storico della letteratura Ladislao Mittner, intitolò giustamente il capitolo sullo scrittore casciubo-tedesco La rivoluzione degli eterni poppanti, annotando: «Grass è affetto da una grave forma di infantilismo, che spinge la sua fantasia specificamente viscerale a gustare gli umori e gli odori del corpo con un epicureismo alla rovescia e con un acre insistenza da maniaco, che varia senza posa figurazioni palesemente spermatico-uterine, se non addirittura scatologiche. Ma proprio questo infantilismo ha un’enorme carica aggressiva: Grass è un arrabbiato che vuol tornare alla condizione pre-edipica del bambino o addirittura a quella del feto, perché non accetta il mondo dominato dagli altri, dai vecchi, che non capiscono nulla, anzi non vivono affatto».

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).