Goldman Sachs e il bene dei clienti

Ieri è circolato molto in rete un pezzo scritto per il New York Times da Greg Smith, un direttore esecutivo della banca d’affari Goldman Sachs, con il quale motiva le sue dimissioni dopo dieci anni di carriera: «L’ambiente è ormai tossico e distruttivo». È molto pesante nel giudizio nei confronti dei suoi massimi dirigenti (e mi chiedo se ne riceverà conseguenze legali) che, secondo Smith, non sono stati in grado di arrestare la deriva della banca verso comportamenti che non sono più tesi, come ai bei vecchi tempi, a fare il bene del cliente (dove per “cliente” è da intendersi, ad esempio, un hedge fund da miliardi di dollari). Al contrario, massima preoccupazione dei dipendenti di Goldman Sachs è ora solo quella di fare profitti. Per questa ragione Smith ha deciso di dimettersi, per il contrasto tra i suoi valori di integrità, e la deriva dell’organizzazione.

Non è possibile non sorridere al paradosso: un dirigente di banca che si scandalizza tanto da «non riuscire più a guardare i giovani neo-assunti negli occhi» perché lo scopo dei dirigenti della banca è ormai diventato quello di fare più soldi possibile. Allora quale è la funzione principale di una banca, potrebbe chiedersi un demagogo qualsiasi? Quella di fare il bene dei clienti, far fare loro dei profitti, che sono cosa diversa da guadagni estemporanei sulla scorta di brevi speculazioni. Sembrerebbe una distinzione di poco conto, quella tra le banche che vogliono massimizzare i propri profitti e quelle che vogliono massimizzare i profitti dei loro clienti, ma è tutt’altro che triviale, ed è dunque opportuno dismettere l’ironia per osservare invece una lezione importante.

La fragilità con cui le grandi istituzioni sono in grado di operare per la propria stessa salvaguardia nel tempo, e i conflitti di interesse che possono annidarsi tra i dirigenti di grandi organizzazioni e i membri di quelle organizzazioni (soci o clienti) sono tra le lezioni principali che si sarebbero dovute imparare dalla crisi finanziaria, e che invece sono state largamente ignorate. È una lezione che vale anche per altri ambiti, la politica per esempio. Ma nel caso della finanza dà luogo a conseguenze particolarmente pericolose.

Per usare l’esempio più ovvio, le banche d’affari hanno una evidente sproporzione di informazioni rispetto ai loro clienti, anche clienti importanti e potenti, e questa asimmetria è stata spesso usata a fini individuali e personali che poco avevano a che fare sia con la salute (e i profitti) della banca, che con gli interessi dei clienti.

Il salvataggio di importanti istituti di credito è stato importante perché fosse evitata una crisi dalle proporzioni anche maggiori, ma senza un intervento di struttura sulla regolazione di queste grandi organizzazioni, i conflitti di interesse sono destinati a riesplodere periodicamente, e l’entità dei danni da essi provocati non dipenderà dallo stato delle finanze pubbliche, dalla riforma del lavoro, o da altre – importantissime – riforme che stanno occupando i governi di mezza Europa.

È difficile regolare bene, e la regolazione tende quasi per definizione a essere eccessiva oppure influenzata da chi deve essere regolato. Si potrebbe partire da una osservazione banale: profitti in sistematico eccesso sono un segnale di mercati imperfetti in cui forze monopolistiche sono in grado di operare. L’azione pubblica dovrebbe dunque svolgersi – anche con la tassazione – al fine di riportare i profitti del settore finanziario in linea con gli altri settori economici con due effetti positivi: più risorse per le politiche pubbliche e mercati finanziari più efficienti.

Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_