Come funziona il bio e il tech in agricoltura?

In passato, più di trent’anni fa, ho gestito per un paio d’anni due grosse aziende, la Balzana (Santa Maria la Fossa) e la Moscarelli (Cellole). Vivevo a Caserta, avevo capelli lunghi, fondavo associazioni interculturali (Africa/Italia), ammiravo i bellissimi spettacoli d’avanguardia di Toni Servillo, ero iscritto a Dp e volevo (mi sembra) fare lo scrittore. Soprattutto mi professavo ambientalista. Durante il corso di chimica avevo interrotto il professore con una specie di arringa: a che serve oggi un corso di chimica? Visto le piogge acide e l’inquinamento delle falde ecc. Il professore mi aveva risposto così: NaCl. Mica ci pensate a inalare il cloro, vero? Non ve lo consiglio. Nemmeno vi consiglio di fare reagire del sodio puro con l’acqua. Ma NaCl è il comune sale da cucina: un corso di chimica serve a questo, a cercare la giusta, inoffensiva e utile, combinazione di elementi. Poi resteranno, ci disse, sempre delle scorie da gestire, le reazioni perfette non esistono. Nonostante la lezione o forse perché mi bocciò due volte all’esame non ho mai imparato a fidarmi completamente della chimica. Un anno coltivai i 400 ettari della Balzana a orzo e rinunciai completamente al diserbo. Non dimenticherò mai la faccia dei due contoterzisti che mi aiutavano e nemmeno il loro commento quando mi trovai con una micidiale infestazione di chenopodio. Dissero una frase di difficile traduzione: quest’anno raccogliamo coppol’ ‘e cazzo! Credo renda l’idea. Nemmeno dimentico il grossista che comprò l’orzo: meglio che fate lo scrittore, perché come contadino avvelenate le persone. Ancora oggi quando l‘incontro mi ricorda quel campo di chenopodi con qualche traccia di orzo…. La contraddizione di fondo tra buone intenzioni e realtà è una frase che in questa intervista pronuncia Giordano Masini, direttore di Strade e contadino bio. Mi ha ricordato che l’agricoltura e la vita (e l’amore soprattutto) sono così, proprio come la chimica, un compromesso (spesso difficile sia da raggiungere sia da accettare) tra vari elementi, ovvero, tra intenzioni (e ideali) e realtà (caotica e che non si piega facilmente). Possiamo usare vari strumenti (e studiarli approfonditamente) per gestire i costi ma un mondo pulito, a costo zero e senza scorie da gestire, per ora è lontano a venire. Ma chissà in futuro. Intanto la parola a Giordano Masini: ci parla di come funziona il bio e il tech.

Ciao, allora, hai un’azienda agricola bio e hai aperto anche un blog tempo fa, la valle del Siele, sottotitolo: appunti dalla frontiera. Perché?

Diciamo che forse dovremmo scomporre questo perché in almeno due perché, conseguenti l’uno all’altro.

Vai… col primo

Il primo è perché ho deciso di fare l’agricoltore, ed è una cosa che ha a che fare con un periodo preciso della mia vita, la fine dell’Università – studiavo lettere – e con un bisogno di concretezza che le prospettive aperte dai miei studi non riuscivano a soddisfare. E cosa c’è di più concreto e “materiale” della terra e del lavoro della terra?

E di conseguenza il secondo?

Perché ho deciso di raccontare la terra e l’agricoltura, e questo invece ha a che fare con un cambio di prospettiva mio. L’agricoltura non è quello che si immagina chi vive lontano dall’agricoltura, e già qui ci sarebbe molto da raccontare: i miei amici della città avevano una visione poetica di un mondo che per me puzzava – nella migliore delle ipotesi – di grasso e di nafta.

Va bene per gli amici della città, ma tu come ti aspettavi dall’agricoltura?

Un mondo di duro lavoro, di esperienze che crescono e si trasformano in nuove opportunità, in innovazione, in investimenti…

Mi sembra stia per arrivare un ma…

E sì…arriva…invece mi sono pian piano trasformato in un contabile di sussidi e di incentivi pubblici. L’agricoltura oggi somiglia sempre di più a una rendita slegata dal proprio lavoro, e questa consapevolezza mi ha portato da una parte alla voglia di raccontare questo mondo in cui mi riconoscevo sempre meno, dall’altra ad allontanarmene.

Tu sei un agricoltore bio, come mai?

La scelta di fare bio fa parte proprio di questo percorso di abbandono dell’agricoltura reale. All’inizio me ne sono tenuto sdegnosamente alla larga, il bio era troppo coerente con l’immagine poetica dell’agricoltura che io rifuggivo.

Però…?

Tuttavia il biologico ha un potere di attrazione straordinario, perché riduce il rischio d’impresa dell’azienda agricola, compensando i mancati raccolti (variabili) con dei sussidi (fissi), e questo finisce per essere troppo “razionalmente” seducente per resistervi.

Aspe’… razionalmente… non è una tipica espressione da bio romantico…

Il fatto è che la mia azienda è al confine tra Lazio e Toscana, terreni collinari argillosi a sud del Monte Amiata, non offrono molte alternative colturali ai cereali a paglia e agli erbai, e dove le rese non sono mai – nemmeno in convenzionale – troppo remunerative, il bio è una alternativa convincente, dal momento che sostituisce un profitto basso e variabile con un reddito stabile che si va a sommare a quello del contributo disaccoppiato della PAC.

Quindi con quel razionalmente intendi dire che viste le condizioni strutturali e pedologiche della tua azienda è logico produrre bio – e sì, date le condizioni è razionale diminuire gli input energetici.

Sì, ma non solo: la scelta di ridurre e razionalizzare gli input produttivi l’avevo fatta già da tempo, ma senza sussidi non avrei mai scelto di passare al biologico. Tuttavia, attenzione: il biologico integrale obbliga a scelte che non sono coerenti con la salvaguardia ambientale!

Perché no?

Ad esempio, su quel tipo di terreno tenace non esistono alternative all’aratura profonda per il controllo delle malerbe, e infatti era una pratica che avevo abbandonato quasi del tutto: comporta un impiego di energia (combustibili fossili) molto maggiore e contribuisce all’erosione dei terreni. Certo, poi c’è chi ti spiega da dietro una scrivania che i campi di grano possono essere sarchiati con gli erpici strigliatori, ma sfido chiunque ad entrare tempestivamente più e più volte, alla fine dell’inverno e in primavera nei campi, quando basta una pioggia a renderli inaccessibili per settimane.

Per i non addetti l’erpice è una macchina agricola che con lame o dischi ti consente di lavorare superficialmente il terreno, l’erpice strigliatore è usato in particolare per incidere le cotiche erbose. Ce l’hai?

L’erpice strigliatore è consigliato nel biologico per estirpare le malerbe appena germogliano, io l’ho comprato, la buona volontà e i soldi ce li ho messi, ma poi è rimasto lì. È questa contraddizione di fondo tra buone intenzioni e realtà che merita di essere raccontata, e che in un certo senso mi sono riproposto di fare.

Le contraddizioni tra buone intenzioni è la realtà è uno degli aspetti che rendono la conoscenza e la vita o bellissima oppure difficilissima, comunque, visto che parliamo di erpice, vogliamo parlare di cose tecniche? Come funziona il bio? in pochi punti…

Come funziona il bio… Direi che il bio è prima di tutto una grande semplificazione. Per dire, una produzione industriale la puoi riprodurre più o meno ovunque uguale a se stessa: basta un capannone, macchine utensili, maestranze preparate e un modello di gestione aziendale. Non importa se la fabbrica di scarpe sia in Polonia, nelle Marche o in Cina, sempre scarpe vengono fuori. Con l’agricoltura non può funzionare così. Ogni azienda è differente, ogni terreno, anche nell’ambito della stessa azienda, è differente dagli altri per composizione del suolo, clima, esposizione, pendenza, accesso all’irrigazione… e permette alcune colture invece di altre, alcune pratiche agronomiche invece di altre, l’impiego di determinate attrezzature invece di altre. L’agricoltura è la complessità per eccellenza, soprattutto nella varietà orografica e climatica italiana. Ogni agricoltore costruisce negli anni una competenza specifica per ogni appezzamento, non riproducibile altrove, ma che altrove andrebbe aggiornata e adeguata a diverse esigenze.

E il bio invece…

Il bio invece fornisce una ricetta one size fits all, che deve funzionare anche quando non funziona perché c’è un principio etico a monte a cui la realtà deve adeguarsi. E che ripudia una parte della complessità e lo strumento per eccellenza che permette di adeguare le competenze e l’esperienza pregressa alla complessità, ovvero l’innovazione. Tutto ciò è compensato attraverso l’elargizione di sussidi pubblici (che sono il vero dato all’origine della proliferazione del numero di aziende biologiche di cui spesso leggiamo). Ma l’agricoltura dei sussidi – non solo bio, per carità – sta ammazzando l’agricoltura vera, tanto le sue competenze antiche quanto la sua capacità di innovare. Sono anni che non assisto più a prove in campo delle varietà da coltivare. D’altronde, a cosa servirebbe, se la resa del mio lavoro mi viene comunque accreditata sul conto corrente direttamente dagli enti pubblici?

Ok, mi sbaglio o tu sostieni una posizione shock: bio e biotech vanno d’accordo

Perché una posizione shock? L’innovazione va d’accordo con tutto. Gli Ogm resistenti ai parassiti permettono di ridurre l’impiego di insetticidi, quelli resistenti agli stress idrici di consumare meno acqua: come si vede, l’agricoltura vera più simile al biologico è quella biotecnologica. Hanno anche una radice linguistica comune.  Ma io vado d’accordo anche con la chimica

Eh no…

Eh sì. Voglio dire, prima ancora di arrivare alle biotecnologie, credo che anche la chimica andrebbe d’accordo con il bio. Finché andavamo a scuola le materie della conoscenza scientifica erano chimica e biologia. Poi è diventato chimico VS biologico, come se fossero concetti in contraddizione tra loro. Abbiamo una concezione statica delle cose, mentre l’innovazione le trasforma e noi non ce ne accorgiamo nemmeno. Fino a non molti anni fa i diserbanti che distribuivamo sui campi erano molto più tossici di quelli ora a disposizione, ma l’idea diffusa è che il diserbante è male, punto. Per mettere insieme le cose, mi piacerebbe coltivare piante Ogm resistenti al glifosate, in modo da poter usare un solo diserbante a basso impatto ambientale in post emergenza.

Scusa, vuoi spiegare cosa significa un solo diserbane in post emergenza?

Ci sono tanti tipi di diserbanti. Sono prodotti complessi, perché devono riuscire a eliminare le malerbe senza danneggiare la coltura. Per questo se ne usa spesso più di uno in combinazione, quello specializzato sulle piante a foglia larga, quello contro le graminacee, ecc. Invece il glifosate non è un diserbante selettivo, infatti viene usato generalmente prima della semina, per eliminare tutte le infestanti sul campo.

Quindi entri in campo prima della semina e diserbi, cioè cerchi di eliminare le infestanti, sennò queste competono per le risorse…

Sì, tuttavia in questo modo non ho una azione definitiva perché successivamente germinano nuove malerbe, che tornano a infestare il campo.

Quindi…

Quindi spesso sul grano si procede così: glifosate (o un prodotto analogo) in pre-semina, poi diserbanti selettivi (uccidono alcune infestanti ma non il grano) in post-emergenza. Complessivamente si finisce per usare tre o più prodotti. Con gli Ogm resistenti al glifosate, invece, è stato trovato l’uovo di colombo: è la coltura stessa a essere resa resistente al diserbante. Quindi l’uso di un unico prodotto, meno tossico dei diserbanti selettivi, finisce per dare risultati complessivamente migliori. Sia per la resa che per l’ambiente.

Ma oggi tu diserbi? no vero…

Non uso nemmeno un diserbante e naturalmente nemmeno un Ogm, ma spesso rinuncio a trebbiare perché il poco raccolto non ripagherebbe neanche il costo del contoterzista. Nessun problema per me, finché la società è disposta a sussidiare questa follia, ma per l’ambiente? Quanta terra in più è necessario coltivare per compensare questa riduzione forzata della produzione per ettaro?

Ok, dalla tua esperienza agricola è nato un blog, con quale finalità?

Volevo promuovere un’agricoltura libera. L’agricoltura libera è quella che m piace.

Immagino si tratti di libertà negativa, libera da…

Libera dai luoghi comuni, dai pregiudizi, dai sussidi, libera soprattutto di svilupparsi attraverso l’innovazione e il mercato. E libera di parlare di sé senza piangersi addosso.

E questa idea di libertà ha portato a qualcosa?

Sì, credo di sì. Questa visione mi ha permesso di confrontare la mia esperienza con le tante discipline che contribuiscono a formare il sapere agricolo.

Sono tante…?

Sì, a cominciare dalla scienza e dall’economia, per finire alla politica. Tuttavia alla fine mi sono sembrate tutte impoverite.

Impoverite? Come mai?

Sono discipline senza: senza il mercato, senza competizione, senza la tecnologia e l’innovazione, senza nemmeno l’aspirazione – sarebbe etica anche questa, volendo – a produrre più cibo per una popolazione mondiale in costante aumento. Ora c’è un sapere autarchico.

Sapere autarchico…?

Quel che basta per noi basta per tutti: protezionismo commerciale, luddismo, ignoranza e corporativismo lamentoso.

Nel tuo blog affronti questi argomenti, hai avuto riscontri?

Avevo 25 lettori. Tuttavia piano piano quel che scrivevo è sembrato interessante per qualcuno in più dei miei vecchi 25 lettori. Ho cominciato a collaborare con alcune testate, e per una serie di circostanze fortunate oggi contribuisco a dirigerne una, Strade, che non è un magazine che si occupa direttamente di agricoltura, ma che del bisogno di concretezza e complessità che io un tempo cercavo nell’agricoltura ha fatto un po’ uno stile editoriale, anche se rivolto prevalentemente all’approfondimento politico.

L’azienda bio?

È ancora una parte importante della mia vita, oggi faccio il pendolare tra Roma e Proceno, e quanto a complessità non mi posso lamentare, ho una vita piuttosto incasinata. Continuo a cercare di capire cosa farò da grande, come quando me ne ero andato dalla città più di vent’anni fa.

Ne approfitto, siamo quasi sotto Natale. Vuoi fare un appello di pace, tra bio e tech, industrialismi e naturisti ecc.?

Io un appello lo vorrei fare alla politica, a chi ha la responsabilità di prendere decisioni. Le evidenze scientifiche contano, e se un prodotto non è dannoso, non c’è ragione per bandirlo. Poi di terra ce ne è tanta, ognuno coltivi la sua come meglio crede, ma teniamo a mente una cosa: nel 2008 e nel 2011 i prezzi dei cereali sono raddoppiati, io che il grano lo vendo ho fatto festa, ma in molte parti del mondo questo ha provocato inflazione, fame e miseria. È un segno che non c’è cibo per tutti, quindi produrne abbastanza e a costi contenuti per sfamare una popolazione mondiale in crescita è ancora oggi un imperativo morale.

 

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.