Frustare il vento

Il tema delle accuratezze grammaticali e lessicali ai nostri tempi è socialmente interessante: l’inclinazione a correggere il prossimo, a indignarsi per una deviazione dalla norma, a fare le pulci – inclinazione a cui ci dedichiamo quotidianamente su molti fronti e in molte occasioni diverse – conosce una sua peculiare e moltiplicata applicazione sull’uso della lingua. Tanto da aver da tempo suggerito il nomignolo di grammar nazi per i più assidui correttori in questo campo, attivi soprattutto su internet in una declinazione soi-pensant dotta del generico trolling da commenti.

Dico che è socialmente interessante perché è appunto un sintomo di meccanismi e insicurezze psicologiche che traboccano nella ricerca continua dell’affermazione di sé, nella competizione con tutto e tutti, nella ricerca istantanea di un riconoscimento: e questi sono aspetti peculiarissimi di questi tempi, e che secondo me definiscono le ragioni di molti dei disastri umani a cui partecipiamo, dalla politica alla vita quotidiana, passando per il giornalismo.

Per questa ragione è ancora più interessante la recente emersione di un conflitto che un tempo era roba da linguisti e riviste specializzate: la pretesa contrapposizione tra “prescrittivisti” e “descrittivisti” nell’uso della lingua. Tre anni fa ne parlammo a Condor, in radio, con lo spunto di un bel libro di Andrea Benedetti, raccontato qui. Adesso la stessa questione è affrontata su Slate a proposito di una polemica nata sul New Yorker. La lingua è l’inglese ma non cambia la questione: e al di là della polemica di questa volta (tra Steven Pinker su Slate e Joan Acocella del New Yorker che lo ha attaccato), l’articolo su Slate di Pinker (linguista e membro della commissione che si occupa di un importante dizionario) mette nero su bianco un po’ di cose che andrebbero imparate. Ne ricopio e sintetizzo alcune.

– la contrapposizione presunta è tra chi pensa che le regole della lingua debbano essere “prescrittive”, ovvero imporre una correttezza stabilita a monte e da conservare più integra possibile, e chi le concepisce come “descrittive”, ovvero duttili al cambiamento e all’uso che gli umani fanno della lingua stessa, e capaci di codificarlo e assecondarlo.

– in realtà, salvo alcune posizioni estremiste in un senso e nell’altro, gli approcci prevalenti alle regole della lingua sono più sfumati, e mescolano in dosi diverse le due cose.

– la cosa principale da tenere presente è che le regole sono convenzioni. E le convenzioni sono accordi in seno a una comunità che suggeriscono la condivisione di un modo di fare le cose rispetto a un altro non per la sua qualità implicita o perché quel modo sia più efficace: ma perché è più efficace che tutti usino lo stesso. Come guidare a destra piuttosto che a sinistra, per fare un esempio. Un sistema non è migliore dell’altro, ma se si usano tutti e due è un casino.

– le convenzioni della lingua sono condivise e applicate soprattutto in certi contesti – istituzioni pubbliche, giornalismo, scuola, legge, economia, scienza – in cui la loro esistenza facilita la chiarezza e la comprensione e crea un ambiente proficuo alla costruzione di stile e grazia di scrittura, ed elaborazione creativa nei campi più diversi.

– una volta accettato questo, diventa immotivato lo scandalo estetico o morale per le alternative alle regole. Ci possono essere sì parole o formule che non ci piacciono e ci sembrano “brutte”, e ci sono i veri e propri strafalcioni e sbagli da ignoranza, ma questo non c’entra: le deviazioni dalle regole o le alternative discusse (spegni o spengi? il circonflesso o la doppia i su principi? o niente?) sono solo un modo come un altro di dire le stesse cose, ma il modo che le nostre convenzioni hanno scartato. Poteva essere il contrario, e può ancora essere diversamente: fin tanto che chiunque sperimenta modi diversi e comprensibili di dire le cose. Trovare sul dizionario la correttezza di una o di un’altra forma non dimostra che l’altra sia illogica o inferiore. È solo andata così: come sapete, buona parte della correttezza linguistica a cui ci riferiamo oggi con l’italiano viene dal fiorentino per una serie di accidenti storici e letterari che hanno fatto acquisire all’italiano alcuni usi di quella lingua. Le cose potevano andare diversamente per mille ragioni.

– questo non significa che seguire quelle convenzioni non abbia un senso e un’utilità fondamentali: come dimostra l’esempio della guida a destra o a sinistra.

– le convenzioni dell’uso della lingua sono tacite: non c’è un tribunale, non ci sono divieti, non ci sono obblighi scritti. Il consenso è ampio e implicito, ma cambia nel tempo per le ragioni più varie. “Incatenare le sillabe e frustare il vento sono entrambe imprese dell’orgoglio, ostile a misurare i suoi desideri alla sua forza”, diceva già nel Settecento Samuel Johnson, compilatore del più autorevole dizionario della storia della lingua inglese. “E quindi i lessicografi hanno sempre deciso cosa mettere nei dizionari facendo attenzione al modo in cui le persone usano le parole”, scrive Pinker.

– ci sono “regole” che conosciamo da sempre, tradizioni scolastiche, norme prescrittive, che non per questo vale la pena conservare e tutelare. Molte sono state snobbate sistematicamente dai grandi scrittori. “Falsi obblighi proliferano come leggende metropolitane”, scrive Pinker, e provare a smontarli non deve essere visto come un tentativo di abolizione di tutti i concetti di buona prosa. Le leggi sciocche si discutono e si cambiano, come le vere leggi (Pinker cita tra le ragioni che portano all’osservanza di norme rigide e senza ragion d’essere, una sorta di “ignoranza conformista”, per cui si usano delle forme piuttosto che altre per timore della riprovazione altrui, anche se non si conoscono ragioni o convenzioni fondate per quella scelta).

Concludo io. Ci sono in giro due fenomeni polemici, sulla lingua, mi pare (tre, se sommiamo quelli che scrivono lunghi post citando Slate e Debenedetti): uno riguarda i molti che alla comprensione delle evoluzioni della lingua e delle loro ragioni preferiscono il giustizialismo istantaneo, il capro espiatorio conformista (“non si dice attimino!”), il proibizionismo che rassicura e permette di avere un’opinione, quindi di esistere. Sindrome che ci riguarda tutti, e ci rende cretini e capricciosi ogni giorno in dosi diverse. L’altro è un po’ più strutturato, ma ugualmente sterile e pigro: è quello della secolare discussione su ciò che la lingua (e quindi la cultura) starebbe “perdendo” nel corso della sua evoluzione. Dibattito che serve a occupare qualche pagina dei giornali da quando esistono i giornali, ma a nessuno risulta che la lingua esistente non abbia oggi le capacità di chiarezza, eleganza ed efficacia che aveva un secolo fa o due. Probabilmente sono anzi superiori oggi. Perché alla fine la sua evoluzione prevale su ogni nostro orgoglioso tentativo di frustare il vento.


Vedi anche:

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).