Fatti e spazzacamini

imola

Questi che vedete qui ritratti sono un eterogeneo gruppo di tecnici. Ispettori ministeriali del Mipaf (io e il mio collega che guarda in macchina), agricoltori, periti assicurativi e un paio di professori universitari – insegnano fisiologia delle piante coltivate (in particolare di pesco e pero). Si tratta di un gruppo di lavoro convocato, con una certa premura, per discutere di un caso agronomico: in alcune province emiliane la produzione di pesco e di pero presenta, quest’anno, strane anomalie. Nell’ambito dello stesso appezzamento si trovano alcune piante che producono tanto e altre che non producono niente. Mistero. Il gruppo di lavoro aveva il compito di indagare la causa di questa incongruenza. Alla fine della riunione, verso le venti, mi ero sentito per un paio d’ore molto felice, nonostante alloggiassi in un assurdo albergo tre stelle alla periferia di Faenza (noi ministeriali risparmiamo tanto, molto prima dei pentastellati). Invece il giorno dopo ho provato un fortissimo senso di scoramento, che è durato per tutta la giornata, nonostante viaggiassi in treno in prima classe in direzione Napoli, verso un mare azzurro e incorniciato dai promontori. Qual era la causa di questa instabilità d’umore?

In campo (una giornata molto calda, non mi ero nemmeno portato il cappello) ognuno di noi ha detto la sua sul fenomeno. Io ho citato uno studio sullo stress idrico del pesco (non faccio altro che citare studi), che secondo me aveva causato la moria dei frutticini. Anche gli altri hanno detto cosa pensavano: problemi di allegagione per la varietà di pero Abate Fetel o piogge abbondanti in particolari fasi fenologiche. Poi durante la riunione le impressioni e le opinioni dei singoli sono state passate al vaglio con alcune procedure di verifica (cose molto tecniche e tuttavia fondamentali) e alla fine siamo riusciti a individuare tre cause per spiegare il fenomeno. Abbiamo anche attribuito una percentuale di incidenza a ognuna di loro (il mio stress idrico non è stato preso in considerazione e ci sono rimasto pure un po’ male). Insomma, ci siamo premuniti di misurare con strumenti tecnici le impressioni acquisite in campo e alla fine, nonostante questo albergo assurdo (la mia camera dava su una cabina elettrica e c’era un ronzio di fondo continuo come quello dell’universo) nonostante questo, mi sono sentito felice: un gruppo di tecnici di varia estrazione hanno messo in comune le proprie competenze, hanno identificato dei fatti e sono arrivati a una soluzione condivisa. Chiamateli, se volete, intellettuali applicati. Se il prossimo anno mangeremo pesche e pere migliori sarà anche merito di questi tecnici. Con un buon gusto in bocca e tante vitamine si percepisce meglio la poesia della vita. Dunque, a proposito di vita, poesia e migliore percezione del mondo: come sarebbe bello, ho pensato, prima di addormentarmi (felice, nonostante il brusio cosmico) se queste competenze anche se specifiche e tecniche potessero entrare nel dibattito pubblico. I fatti sono importanti per il nostro buon umore e la nostra salute, soprattutto.

I fatti sono un’invenzione recente, non c’erano nemmeno le parole per indicarli. Factum: quello che è stato fatto. Nel 400 d.C. San Girolamo tradusse il Vangelo di Giovanni, 1:14: Verbum caro factum est, E il verbo si fece carne. Factum: da fare, quello che è stato fatto. Non sono un latinista, anzi giusto per rispettare i fatti: per quattro anni sono stato rimandato al liceo. Prendo questa informazione da La stanza intelligente di Weinberger (Codice Edizioni). In alcuni periodi fatto significava fatto disdicevole. Poi è arrivato Bentham e l’utilitarismo. Nel 1819 la Casa dei Comuni britannica discusse un nuovo disegno di legge sugli spazzacamini. I progressisti sostenevano che non fosse giusto far lavorare i ragazzi con meno di 14 anni, mentre i conservatori insistevano che era meglio che i bambini lavorassero «anziché vederli alla prese con imbrogli e furti oggi così comuni tra i maschi di tenera età», come diceva Thomas Denman. Mr. Ommaney era convinto che per i giovani spazzacamini (di otto anni) non ci fosse nessun problema: lui li aveva visti, erano vivaci, allegri e contenti. E Denman rilanciava: a quell’età hanno pure la costituzione fisica perfetta per pulire i camini. I progressisti combatterono le impressioni di Ommaney esibendo delle prove fattuali, e cioè le statistiche mediche che affermavano altro: i giovani spazzacamini esibivano tutti i sintomi della vecchiaia precoce. Erano le statistiche a dirlo: statistiche, dalla radice stat, Stato: un insieme di informazioni di Stato, indipendenti da opinioni e conclusioni personali.

Adesso facciamo presto a dire i fatti e a prendere in giro le statistiche (anzi chi è che non cita Trilussa e il pollo) e l’utilitarismo, ma fino all’Ottocento avevano la meglio i ricchi che, per lo più, esercitavano il potere basandosi sulle proprie impressioni e sulla autorità che il proprio status gli attribuiva. Poi arrivò Bentham. Secondo Bentham il piacere e il dolore influenzano in uguale misura la nostra vita, quindi il criterio per giudicare un’azione è stabilire se produca «la massima felicità per il maggior numero di persone». Il principio di Bentham applicato al caso dei giovani spazzacamini significava, per esempio, che la felicità del duo Denman/Ommaney (usare piccoli di otto anni per pulire il proprio camino) non contava più della felicità dei ragazzini (poveri). Con questa nuova filosofia lo Stato non poteva più basare le sue azioni sulle impressioni di quelli come Ommaney (ho visto anche gli spazzacamini felici), ma doveva impegnarsi ad accrescere la felicità generale. Per prima cosa doveva capire com’era davvero la vita dei cittadini, c’era bisogno di fatti, e di metodologie per accertarli. Fu il tempo dei libri azzurri, i rapporti sulla povertà, la criminalità, l’istruzione. Libri pieni di aneddoti, storie, interviste e tabelle statistiche: fatti su fatti, e anche se i metodi statistici non erano così raffinati, alla fine hanno vinto i progressisti.

È bello quando tutto torna. I problemi del pesco e del pero erano stati risolti grazie a una metodologia comune. Contento e soddisfatto, riflettevo sull’importanza dei fatti e dei metodi per accertarli e mi immaginavo come Luke Skywalker: che i fatti siano con te. Era quindi una bella giornata, sul treno per Napoli, verso il mare, ed ecco che comincia a squillare il cellulare. Biologi, agronomi, tecnici vari tutti a dirmi: «ma hai visto?» Che dovevo vedere? oltre il mare, dico. «Hai visto l’articolo della Tamaro sul Corriere?» E no! Sto in piena rimembranza utilitaristica. «Ma come si fa – mi dicono – a dire tante imprecisioni? A non rispettare i fatti? Ma è mai possibile? Questi letterati, sono proprio presuntuosi. Ma chi ve l’ha detto che quello che sentite è giusto?» Ce l’hanno con me?, Ho pensato. Con la categoria degli umanisti? Vabbè, sto in prima classe. Mi faccio dare il Corriere e leggo. Oh no, ancora? Gli OGM sono sterili, la natura è violentata dall’uomo, le tossine BT causano la moria delle api. Ma che roba è? Dove le ha prese queste informazioni la Tamaro? Ma una scrittrice, un’intellettuale per formazione attenta alle parole, non è in grado di riconoscere i fatti? Ci sono le statistiche, ci sono i report, ci sono gli studi in peer review. Le nostre impressioni non sono sempre valide: e che siamo come Mr Ommaney?

All’improvviso, non mi è tornano più niente. Perché i risultati dei convegni tecnici, frutto di competenze e ragionamenti, di valutazioni e prove in campo, non riescono a far breccia nel nostro immaginario? A entrare in un dibattito pubblico? Agli spazzacamini odierni, chi ci pensa? Mi rendo conto che la metodologia per accertare i fatti è noiosa. Noi siamo sensibili alle belle parole, ai racconti e ai miti, una lunga evoluzione culturale ci ha voluto così: chiuderci in una stanza e confrontare le nostre impressioni e valutarle, dover rinunciare a un’idea – nel mio caso allo stress idrico del pesco (non ci posso ancora pensare) – ecco questo rituale risulta noioso. Troppi numeri, troppe tabelle: non è meglio un bell’aggettivo, una bella storia e tutto si risolve?

I letterati quando ci si mettono sono bravissimi. Ascoltavo Erri De Luca ai Visionari su Rai 5, il giovedì alle 22.10. Bisognava commentare la parola “nuvole” ed Erri De Luca disse di aver fatto parte di quella generazione che ha impastato la calce per farsi la casa con l’acqua piovana, l’acqua che cadeva dalle nuvole e veniva raccolta in contenitori. Gratis. E poi ha aggiunto: ora quelli che a dispetto dei referendum vogliono privatizzare l’acqua, dovrebbero dimostrare di essere i padroni delle nuvole. Porca puttana, ho pensato. Bella. Ho votato no ai referendum sull’acqua e per poco De Luca non mi convinceva, tardivamente. Mi sono detto, questo è il problema: ai convegni dei tecnici manca il mito, la storia, come “i padroni delle nuvole”. I tecnici vengono accusati di “fredda ratio”. Infatti, non hanno né il tono né la padronanza stilistica di De Luca. Di notte ci penso e mi chiedo che significa “fredda ratio”. Noi tecnici in riunione quasi ci scannavamo per capire che cavolo fosse successo al pesco e al pero con me che gridavo: «è lo stress idrico, avete letto lo studio?» I tecnici sarebbero freddi? Per esempio, quelli che cercano di capire se alcune cellule mesenchimali si trasformano in neuroni, di modo da evitare imbrogli, quelli sarebbero i detentori della “fredda ratio”, contro l’umanesimo? Di notte mi sono pure alzato. Ho camminato per la casa, un po’ indispettito contro i letterati. Mi è venuto un sospetto: ma non è che De Luca si è costruito una casa abusiva? No, non voleva dire quello, dai. Mica ha impastato la calce con l’acqua gratis e ha costruito una casa verso la quale poi è stato necessario portare l’acqua potabile e il gas e l’impianto fognario? Non è che alla fine di questa bella storia, ho pagato io per l’acqua, io Stato? No, mi sono sbagliato, non sarà così, non voleva dire questo con la bella storia. Non è il suo caso. Però in tanti l’hanno fatto, intere borgate edificate impastando calce e allora quante nuove condutture gli operai hanno messo in posa per portare a loro acqua pubblica, e quanti costi, manutenzione, gestione a carico dello Stato. Mi sa che pure l’acqua che scende dalle nuvole non è completamente gratis. Che sfiga, era una così bella storia.

La cultura umanistica, con le sue storie, ha un grande valore: ci costringe a concentrarci sull’altro. Non è poco, anzi. Moltiplicare lo spirito empatico ha fatto diminuire la violenza, e ha migliorato lo stato dei diritti umani e anche quello degli animali. Ha fatto crollare la schiavitù, e rispetto al passato ci sono più possibilità che se qualcuno in una qualunque parte del mondo tortura un nostro simile venga scoperto e punito. Le storie costringono a mettersi nei panni degli altri, e salvaguardare la cultura umanistica significa proteggere i valori umani. Tuttavia, se oggi – in questo mondo complesso che non sempre riusciamo a capire – se penso a un intellettuale umanista lo immagino curioso e inquieto, senza pregiudizi, umile e democratico, impegnato (a volte) a gettare i ponti fra varie isole. Uno che si interessa di convegni tecnici, uno basico, un intellettuale perito agrario, un intellettuale ragioniere, bravo soprattutto nelle arti applicate. Invece, come sono gli intellettuali italiani? Si può rintracciare una linea di tendenza?

Dimenticare Pasolini, scrive Pierpaolo Antonello (per la casa editrice Mimesis). C’è un capitolo molto interessante su chi sono e a cosa servono gli intellettuali, con un confronto tra Italia e Gran Bretagna. Antonello scrive che «rispetto al contesto britannico, in Italia è mancato anche il terreno medio, ovvero una divulgazione di alto profilo che non fosse considerata una forma di annacquamento di particolari complessità disciplinari, ma come necessaria mediazione rispetto a contenuti di carattere specialistico, dove tra i compiti dell’intellettuale ci sia anche quello di traduzione dei linguaggi. Questa difficoltà, oltre che per lo snobismo intellettuale, è stata determinata anche per il livello di astrazione della lingua italiana, malata di quello che Calvino chiamava terrore semantico, e che nasconderebbe la mancanza di vero rapporto con la vita, e che Tullio de Mauro ha reputato una delle cause del deficit di competenza linguistica degli italiani». Così, mentre gli inglesi possono annoverare tra gli intellettuali Susan Greenfield, Steven Hawking o Richard Dawkins, attenti alle novità tecnologiche e scientifiche, da noi c’è stato «un sostanziale rifiuto nel comprendere le novità cognitive e culturali introdotte dalle rivoluzioni tecnologiche e lo statuto dei nuovi mezzi di comunicazione. A questo ha contribuito anche la succitata ostilità degli intellettuali nei confronti della scienza e della innovazione tecnica e della ridefinizione di modalità di intervento culturale con un trinceramento in categorie filosofiche assolutamente obsolete (si pensi alle formule usate da Emanuele Severino e Umberto Galimberti)».

L’intellettuale italiano ha una speciale tendenza all’apocalisse. I prodotti della modernizzazione sono stati salutati con perentori rifiuti, a destra e a sinistra (più a sinistra in verità), accompagnati da una corrente non minoritaria di “nostalgismo ruralistico”. Questa convergenza non si riscontra nel contesto anglosassone, «dove prospettive del genere sono dominio discorsivo della destra Tories». Che strano. Per tornare all’agricoltura, a metà degli anni ’80 noi studenti del primo anno di Agraria scoprimmo una particolarità nella variopinta massa di professori. I professori di destra – in realtà baroni democristiani – preferivano un’agricoltura basata su pratiche convenzionali, tradizionali, diremo oggi, chimica ad oltranza. I secondi – iscritti al PCI – si occupavano di genetica sperimentale, detestavano l’industria chimica e desideravano lavorare sulla pianta per proteggerla dagli stress biotici e non. All’epoca militavo in Democrazia Proletaria. Ascoltavo i Rolling Stones. Sympathy for the Devil era la mia canzone preferita. Sarà perché abitavo a Caserta, una città dalle antichissime tradizioni borboniche, e noiosissime, ma mi veniva facile un’equazione: quei professori di genetica sperimentale erano come i Rolling Stones, ci invitavano a seguire un nuovo ritmo. Erano progressisti, volevano migliorare il mondo con strumenti nuovi. Qualche anno più tardi, che delusione, hanno vinto i conservatori (di destra e di sinistra) con le loro impressioni, ha vinto la campagna idealizzata e bucolica, e la mancanza d’interesse verso le metodologie per accertare i fatti.

In fondo si può capire l’intellettuale apocalittico italiano. Si sente sotto pressione. In un mondo (che crede) svuotato dai valori autentici, dominato dalla “fredda ratio” e dalle nuvole a pagamento, in questo mondo a che santo bisogna votarsi se non all’intellettuale stesso, una sorta di superuomo che indica la strada ai poveri di spirito, confusi dalle tentazioni? Sarà una questione di potere. Un modo per continuare a fidarsi delle proprie impressioni senza temere statistiche e valutazioni empiriche e comparazioni.

Eppure non mi do per vinto: il futuro dell’intellettuale umanista esiste e sta anche nella comprensione della fisiologia del cannone sparapolli. Ne parla Steve Johnson nel libro Un futuro perfetto (Codice Edizione). C’entra con il famoso atterraggio sul fiume Hudson: il comandante Sullenberger riuscì a far planare l’aereo sul fiume Hudson senza colpo ferire. Lessi, a suo tempo, un sacco di articoli, commosso. Un superpilota capace di far galleggiare l’aereo sull’acqua: grande impresa, nessuno può negarlo. E per completezza di informazione, e anche per rafforzare il gesto, si deve ammettere che quella è stata un’impresa collettiva. Sullenberger non ha agito da solo. L’aereo ha retto allo schianto grazie a una fitta rete di intelligenze umane che è stata capace di costruire un aereo capace di reggere allo schianto. Qui arriva la macchina sparapolli. Uno dei momenti di maggiore vulnerabilità dei jet di linea si registra quando gli uccelli vengono inghiottiti dai motori. Gli attuali jet vengono quindi sottoposti a test rigorosi per verificare il grado di resistenza dei motori. Tra le altre cose con la macchina sparapolli. «Alla base militare Arnold, nel Tennessee un team di scienziati e ingegneri utilizza gas elio ad alta pressione per lanciare carcasse di pollo a forte velocità contro i motori accessi». I polli morti vengono sparati contro i motori grazie alle tasse dei contribuenti americani ed è, ammettiamolo, un buon modo per spendere i propri soldi. Infatti lo stormo di oche canadesi che quel giorno, a New York si scontrò contro i motori dell’aereo non li ruppe. Si conservarono integri, tutti e due. L’attività di collaudo dei motori con la macchina sparapolli è stata così efficace che il nucleo del motore sinistro non si è spento, ha continuato a girare, non con piena potenza ma con un numero di giri sufficienti a garantire quel minimo di spinta necessaria per atterrare.

A questo va aggiunto un sistema di controllo computerizzato, fly-by-wire. Il software (data di creazione 1972) riesce a fornire al pilota informazioni e assistenza anche con il pilota automatico disattivato, prevedendo gli stalli e stabilizzando l’aereo in caso di turbolenza. Ciò significa che il coraggioso Sullenberger quel giorno ai comandi non era solo, il motore riusciva a tenere in vita le apparecchiature elettroniche, quindi la commovente discesa nelle acque del fiume «fu assistita da un partner silenzioso, un computer che rappresentava l’intelligenza collettiva maturata dopo anni e anni di ricerca e progettazione». Quindi l’ammaraggio è stato in realtà una danza, tra il pilota e centinaia e centinaia di tecnici che per anni hanno fatto riunioni per misurare, valutare. Hanno rinunciato alle proprie impressioni o le hanno confermate dopo attenta analisi, alla luce della “fredda ratio”. Certo i tecnici chiusi nelle stanze per scoprire la mancata produzione del pesco e del pero sono meno nobili dei progettisti della macchina sparapolli o del fly-by-wire, ma il senso non cambia. La modernità con i suoi problemi, la necessità di saperi e metodologie condivise, gli umanisti devono di tanto in tanto intervenire nelle riunioni tecniche, un po’ per conoscere i nuovi fatti, un po’ per accertarsi che quello che hanno dentro e che preme per uscire sia sì una bella storia ma anche soggetta a verifica. Che bella novità sarebbe. Anche perché, ammettiamo che il mondo sia in difficoltà e rischiamo di precipitare, vogliamo o non vogliamo collaborare insieme per garantire un buon atterraggio? Se no come facciamo dopo, a cose fatte, a raccontare la bellezza del salvataggio, come facciamo a commuoverci quando veniamo a conoscenza delle parole di Sullenberger? «Ora li riporto tutti a casa, sani e salvi.»

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.