Emmanuel Macron e le donne

«I am a feminist», aveva detto il nuovo presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron il 2 dicembre del 2016 durante il Women’s Forum for the Economy&Society di Deauville. Aggiungendo però che per lui non era molto importante definirsi femminista, ma piuttosto essere riconosciuto come tale dalle donne. Diversi giornali e siti si sono occupati nelle scorse settimane di quanto i programmi dei candidati – e della candidata – alle presidenziali fossero a favore dei diritti delle donne. Come ne è uscito Macron, in base a quello che ha fatto e detto finora? Non bene. Macron ha insistito moltissimo sulla parità tra uomini e donne e questo lo posiziona immediatamente in un contesto ben preciso (quello del femminismo di stato, ma ci arriviamo): questa insistenza però non trova nel suo programma riscontri efficaci, reali e, in alcuni casi, realistici. Il femminismo di Macron sembra essere quello di uno slogan scritto su una maglietta. Un femminismo (se proprio vogliamo concedergli l’uso di questa parola) puramente cosmetico.

Quando era ministro
Macron non può rivendicare molte misure a favore dei diritti delle donne, ma per questo c’è anche una spiegazione sensata: la sua carriera politica è piuttosto breve rispetto a quella degli altri candidati che hanno corso per le presidenziali.

Nell’agosto del 2015 Macron, a quel tempo ministro dell’Economia nel governo socialista, sostenne comunque una legge sulla crescita e le pari opportunità economiche e accettò un’integrazione voluta da diversi e diverse parlamentari che aveva a che fare con l’obbligo di analizzare le conseguenze della pubblicità differenziata per uomini e donne, le differenze di prezzo in base al sesso dei consumatori e le ineguaglianze che pesano sul potere di acquisto di donne e uomini, la cosiddetta “tassa rosa“, problema di cui già si occupava da diversi anni il collettivo femminista “Georgette Sand”. Con quella stessa legge Macron intendeva però estendere il lavoro della domenica, che tra le altre cose avrebbe penalizzato prevalentemente le donne (impiegate abitualmente la domenica con una percentuale pari al 56 per cento) e «in particolare le giovani donne delle periferie». L’Alto Consiglio per la parità tra donne e uomini – creato per decreto da François Hollande e dall’ex primo ministro Jean-Marc Ayrault nel gennaio del 2013 – si espresse contro questa precisa misura.

La questione della parità
Il “femminismo” di Macron si riduce in tutte le sue varie declinazioni in una richiesta di parità. Ma. Prima obiezione: il gruppo di collaboratori a lui più vicino, che è composto da quindici persone, conta solo quattro donne; dei circa quattrocento esperti che hanno lavorato al programma del suo partito, solo un terzo sono donne. Seconda obiezione: la parità – cioè il principio quantitativo della parità – spesso nasconde la cancellazione delle donne. Il cosiddetto femminismo di stato ha interpretato il movimento delle donne come portatore di una domanda di parità, mettendo al centro dell’azione la spartizione d’ufficio del potere tra donne e uomini (pari opportunità, “quote rosa”, donne come uomini e molto spesso donne-che-piacciano-agli-uomini). Quando un ruolo tradizionalmente maschile viene occupato da una donna, non è detto che vada considerata automaticamente una conquista per le femministe. Le rivendicazioni pari­ta­rie nello spa­zio pub­blico – che spesso sono proprio sulla bocca degli uomini – fun­zio­nano come annul­la­mento della dif­fe­renza fem­mi­nile: il trucco della quan­tità è l’inadeguata rispo­sta maschile al cam­bia­mento innescato dalla rivo­lu­zione fem­mi­ni­sta. Ecco perché non è quasi mai una buona misura: le dimensioni non contano.

Nel programma di En Marche! per le elezioni presidenziali Macron dice di voler rendere pubblico l’elenco delle società che non rispettano la parità di retribuzione tra donne e uomini, idea in contraddizione con quella del governo di cui faceva parte, secondo cui la divulgazione di queste informazioni sarebbe stata impossibile a causa di una legge degli anni Settanta. Non è dunque chiaro se Macron potrà applicare o no questo suo proposito. E non è chiaro, nel caso ci riuscisse, se la misura basterà ad avere delle conseguenze positive sulle grandi ma anche sulle piccole e medie imprese.

Durante la campagna elettorale, Emmanuel Macron ha preso più volte parola per incoraggiare le donne a rendersi politicamente attive e a presentarsi alle elezioni legislative del prossimo giugno. Inizialmente En Marche! aveva raccolto solo il 15 per cento di candidature di donne e a gennaio Macron aveva dunque diffuso un video in cui lanciava un appello: «Risvegliatevi, discutetene, andate fino in fondo, l’impegno politico non è sempre per gli altri». L’obiettivo dichiarato da Macron era raccogliere il 50 per cento di candidate non in tutte le circoscrizioni, ma in quelle dove il suo partito avrebbe – secondo le loro informazioni – maggiori possibilità di vittoria. L’appello ha funzionato e la percentuale di candidature di donne è notevolmente aumentata (attualmente è al 45 per cento).

Nel video Macron dimostra però di non avere molta dimestichezza con il problema: sostiene che spesso sono le donne a scegliere di non candidarsi perché fare politica rappresenterebbe per loro un impegno eccessivo e che mal si concilia con gli impegni familiari. Questo è vero, ma l’autocensura dipende anche dal fatto che c’è poco interesse a militare in prima persona per partiti e movimenti in cui la partecipazione femminile è spesso di facciata e viene ridotta a una questione quantitativa: «Emmanuel Macron lascia pensare che si tratti solo di una questione di responsabilità individuale, e dimentica il meccanismo di cooptazione degli uomini politici più potenti. Passa sotto silenzio la questione della dominazione maschile che dalla notte dei tempi mette degli ostacoli alle donne che desiderano impegnarsi in politica», ha spiegato una delle portavoci del collettivo femminista francese Osez le féminisme!.

Macron, nel suo discorso, invita poi le donne che pensano di candidarsi a «parlarne in famiglia». Se da una parte si può intuire che cosa il nuovo presidente intenda dire, non è altrettanto accettabile l’insinuazione paternalistica di dover chiedere un permesso o di dare per scontato che tutte abbiano una famiglia. Giustamente, invece, Macron spiega che il parlamento deve rappresentare fedelmente la società (in cui le donne sono più della metà della popolazione) e che con un’alta presenza femminile (reale, sarebbe necessario aggiungere) la linea politica di un governo potrebbe essere molto differente.

Prima di essere eletto Emmanuel Macron aveva anche promesso di «ridurre il finanziamento pubblico dei partiti politici» che hanno una rappresentanza sbilanciata in termini di parità. «Emmanuel Macron non propone niente di meno che applicare la legge, e questo non ha nulla di innovativo», fa notare Claire Serre-Combe di Osez le féminisme!, che sottolinea come queste dichiarazioni siano soprattutto una strategia comunicativa. La parità in politica, in Francia, è obbligatoria dal 1999 e i partiti che non la rispettano sono già soggetti a sanzioni: molti partiti hanno però l’abitudine di candidare le donne nelle circoscrizioni perdenti, cosa che permette loro di rispettare la legge ma non di raggiungere l’obiettivo di una pari rappresentanza di genere. Impegnandosi a candidare il 50 per cento di donne nelle circoscrizioni che possono vincere, Macron fa dunque un piccolo passo in una giusta direzione.

Il programma di Emmanuel Macron prevede anche di favorire il lavoro del Défenseur des droits, un’autorità amministrativa indipendente nata nel 2008 le cui indicazioni non sono in alcun modo vincolanti. Macron ha citato l’organismo per dire che vanno estese le «operazioni di controllo casuale su larga scala in materia di politiche salariali e risorse umane», con l’obiettivo di renderne pubblici i risultati. Ottimo, commentano diversi giornali francesi, ma a che serve se non si affidano a quell’autorità poteri diretti per le sanzioni? «Défenseur des Droits non ha alcun mezzo reale di intervento», nota Osez le Féminisme!: ha poteri reali di indagine e di informazione, ma affinché la misura di Macron sia efficace almeno in questo sarebbe necessario aumentare in modo significativo le persone che ci lavorano, dato che il numero di aziende che violano la legge è molto alto. Ma su questo, il programma di Emmanuel Macron non dice nulla. Macron non ha nemmeno spiegato come intende raggiungere la proposta di avere nella direzione dei teatri e delle istituzioni culturali un numero pari di direttori e direttrici: per i cinque teatri nazionali, che dipendono dal ministero della Cultura, non dovrebbero esserci ostacoli particolari, ma per le istituzioni culturali private come intende procedere? Anche qui, non si trovano nei suoi programmi o nei suoi discorsi indicazioni concrete.

Sostegno e conciliazione
Nel programma di Macron non c’è alcuna indicazione per l’affermazione positiva dei diritti e dell’autodeterminazione delle donne. E ci sono invece proposte o superflue o molto superficiali.

Macron ha proposto di punire con multe «immediate e dissuasive» le molestie sessuali contro le donne. E ha detto:

«Noi non tolleriamo più le inciviltà. Le molestie contro le donne, gli insulti, la degradazione dell’arredo urbano, gli sputi. Queste inciviltà saranno punite con delle multe immediate e dissuasive».

Macron ha dunque parlato delle molestie sessuali come di un esempio di «inciviltà», mettendole al livello di uno sputo sul marciapiede. L’idea generale è probabilmente punire in modo più rapido ed efficiente i piccoli reati, ma è paradossale qualificare come “inciviltà” le molestie contro le donne. A queste dichiarazioni di Macron hanno reagito con forza molte femministe: «Macron assimila le molestie di strada a un’inciviltà sanzionabile con una multa. Ora, per la strada, le donne subiscono delle aggressioni sessuali, punibili con 5 anni di prigione, o delle manifestazioni di odio sessista che vanno ben al di là della semplice inciviltà». Le molestie sessuali non sono dunque un’offesa, ma un reato, già punito per legge.

Una misura sanzionatoria che sembra avvicinarsi all’idea di Macron è stata introdotta a Bruxelles nel 2012 e estesa a tutto il ​​Belgio nel 2014, ma non ha dato risultati: si dovrebbe immaginare di avere ad ogni angolo di strada e in ogni momento un poliziotto come testimone, che le molestie diventino all’improvviso molto semplici da dimostrare e che le donne importunate (il 100 per cento delle donne francesi ha ricevuto qualche tipo di molestia sui mezzi pubblici almeno una volta nella vita, dicono le ricerche) vadano immediatamente al commissariato a sporgere querela contro persone di cui non conoscono l’identità. Libération ha raccontato che nel 2012 a Bruxelles, su più di 177 mila abitanti, ci si è occupati di soli 3 casi di insulti sessisti: nel 2013 i casi sono stati 13, nel 2014 erano 16 e nel 2015 invece 8. «Siamo consapevoli che, dato il numero di donne molestate, ogni donna non sarà protetta», ha spiegato Marlène Schiappa, la principale referente di Macron sulle cosiddette “questioni femminili”, aggiungendo però che il provvedimento dovrebbe funzionare soprattutto come deterrente: «Il ruolo dello stato è dire che ci sono delle cose vietate, questo aiuta a combattere la cultura dello stupro. Questa misura ha il valore di un esempio, e la migliore comunicazione contro le molestie per le strade è l’esemplarità».

Macron ha poi parlato di diritto all’aborto ma in modo molto generico: l’ha inserito nella parte del programma che si occupa di facilitare la conciliazione per le donne tra casa e lavoro, ma non ha fatto alcuna proposta per renderlo più accessibile e semplice. Ha parlato della creazione di un congedo di maternità anche per le non dipendenti. Ma anche su questo punto, comunque positivo, nota Libération che Macron non ha spiegato come intende fare le cose e soprattutto con quali risorse. Uno degli obiettivi dichiarati da Macron è infine «aiutare le donne a conciliare vita familiare e professionale». Questo è un bene, ma sarebbe più efficace se gli uomini venissero coinvolti nel processo, mentre nella pagina dedicata alla parità di genere, non sono mai menzionati. L’estensione del congedo di paternità? Non c’è. L’obbligo di condividere una parte del congedo parentale, come in Svezia? Nemmeno. Incentivi per ridurre l’orario di lavoro dei padri? Non pervenuti. Inoltre, la sensibilizzazione all’uguaglianza è gravemente carente nella parte del programma di Macron che si occupa di formazione: ed è un peccato poiché Macron stesso ha più volte affermato che «il problema è culturale». Appunto.

Giulia Siviero

Per ogni donna che lavora ci vorrebbe una moglie. Sono femminista e lavoro al Post. Su Twitter sono @glsiviero.