Le difficili promesse del Jobs Act

La domanda alla vigilia della direzione democratica era se Renzi sul Jobs Act avrebbe voluto stravincere o si sarebbe limitato a vincere. L’esito è stato spiazzante, nel senso che il premier e segretario non ha certo cercato lo scontro, eppure una rottura s’è consumata egualmente. Non a scapito suo, però, bensì a danno di una minoranza interna che era già debole prima, e si ritrova ora frammentata e senza direzione di marcia. Sembra che D’Alema (soprattutto) e Bersani abbiano ormai imboccato traiettorie più personali che di gruppo, lasciando il timone a dirigenti accomunati da un dato anagrafico che è molto politico: giustamente pensano di avere un futuro davanti a sé, sono convinti di averlo nel Pd, si preoccupano di coltivarlo dentro la stagione renziana ovviamente sperando che essa non duri in eterno.

Questo punto cruciale smonta qualsiasi ipotesi che dallo scontro in streaming sull’articolo 18 vorrebbe approdare a traumi e scissioni. Di più: alla luce di questa nuova configurazione interna del Pd, diventa altamente improbabile che a qualcuno venga voglia di tendere trappole parlamentari al governo sul Jobs Act. Anche chi non ama Renzi ha bisogno che Renzi rimanga a palazzo Chigi ancora un po’.

Il day after della direzione Pd dice poi un’altra cosa, stavolta a proposito del centrodestra e del famoso “soccorso azzurro”. Da Forza Italia infatti sono venute infatti reazioni generalmente negative, tese a svalutare il peso e la qualità della riforma del mercato del lavoro. La ragione è evidente, qua e là perfino confessata: Berlusconi a parte, la simpatia forzista per gli strappi di Renzi alla tradizione della sinistra è strumentale alla speranza che la sinistra stessa vada in pezzi su temi come l’articolo 18. È un ragionamento elementare, ma del resto non è che a destra si sia in grado di elaborare strategie tanto raffinate. Per cui se i forzisti vedono Renzi seguito dall’80 per cento del proprio partito, ridurre al minimo la conflittualità interna e perfino riaprire un dialogo con alcune delle confederazioni sindacali (Cisl e Fiom in particolare), ecco che il soccorso azzurro diventa politicamente aggiuntivo (in parlamento vedremo), in sostanza superfluo, in fin dei conti testimonianza a futura memoria che le scelte importanti del governo di Renzi sono state condivise anche da chi vi si dovrà opporre in campagna elettorale.

Sulla vittoria politica del premier rimane solo un’ombra, che però è molto scura: della vicenda dell’articolo 18 gli italiani hanno capito (e apprezzato) la novità che presto ci saranno tutele e protezioni estese a chi non le ha mai avute. È un impegno molto preciso che dal premier si trasferisce ai suoi ministri, in particolare Padoan e quel Giuliano Poletti che della riunione dell’altra sera al Nazareno è stato un po’ la rivelazione. Renzi non può ingannare nessuno su questo punto cruciale. Non solo perché se lo facesse darebbe ragione alla più acida delle critiche di D’Alema (chi se ne importa, in definitiva), ma perché qui in gioco sono le aspettative, i bisogni e le speranze di tante persone in carne e ossa.
Quel miliardo e mezzo messo come posta per i “nuovi” ammortizzatori sociali è davvero poca cosa, e contemporaneamente è tanto per le casse dello Stato: non tradire il paese su questo punto sarà molto più importante e più difficile, per Renzi, che respingere l’offensiva dei suoi vecchi nemici.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.