Dalla parte di LeBron

Io lo dico (e scrivo) adesso, prima che si giochi gara-6 di queste Finali NBA, con i Dallas Mavericks in vantaggio 3-2 e a una partita sola dall’aggiudicarsi il titolo NBA: io sto dalla parte di LeBron James. Queste Finali NBA – indipendentemente dal risultato finale – sono state questo: un generale schierarsi a favore o contro il numero 6 dei Miami Heat. Il partito dei critici – o forse sarebbe meglio usare la parola che usano qui, “haters”, quelli che lo odiano – è ovviamente fortissimo in queste ore. Era già molto numeroso dal giorno in cui LeBron ha scelto di lasciare Cleveland (scelta giusta e motivata, modalità della stessa alquanto rivedibile, anzi sbagliata) per “portare i suoi talenti a South Beach”, ma oggi guadagna via via nuovi adepti ed entusiasti sostenitori. Tutti concentrati su un singolo numero: 2.2. È il numero dei punti segnati in media da LeBron nei quarti quarti delle 5 partite di finale finora disputate. È un numero senza dubbio insufficiente, per uno del suo talento e per uno della sua forza, che porta i suoi critici a una conseguente conclusione: James non è un “closer”, uno che sa chiudere le partite. Non importa se nelle serie contro Boston e Chicago avesse dominato i quarti quarti e segnato tutti i canestri decisivi. La memoria dei tifosi è corta, quella degli “haters” ancora di più. Non basta, “queste sono le Finali”, dicono – ed è qui che si deve dimostrare qualcosa di più. Giusto, ma quello che chiedo io è di uscire anche solo un istante da questa assurda visione che – in uno sport complesso come la pallacanestro – conti solo un dato, un numero, ovvero quello dei punti. Succede così per consuetudine (accade lo stesso in tanti altri sport, dove l’attaccante che segna è molto più celebrato del difensore che sventa gli attacchi avversari) e succede così ancora maggiormente nell’universo NBA perché – da Michael Jordan a Kobe Bryant – gli ultimi due grandi fenomeni che si sono imposti a livello globale nell’immaginario collettivo sono stati due grandi “scorer”, due grandi realizzatori. Scottie Pippen, uno che con Michael Jordan ci ha giocato un’intera carriera e che lo conosce meglio di tutti, appena prima del via di queste finali ha detto una cosa molto interessante – e controversa: “LeBron James potrebbe essere più forte di Sua Maestà Michael Jordan. Jordan è stato uno scorer migliore, LeBron potrebbe essere un giocatore più completo”. Apriti cielo. O forse no. Io non mi scandalizzo. Io credo che Scottie Pippen possa aver ragione. Non oggi, ovvio. Perché la carriera di James non è ancora terminata e le vittorie – quelle sì, essenziali, più del singolo dato dei punti realizzati – sono lì a dimostrare che Jordan è stato il vincente dei vincenti e LeBron James per il momento non può dire lo stesso. Ma vediamo come finisce questa serie. E poi vediamo come finisce la sua carriera. Quando tutto sarà in archivio trarremo delle conclusioni. Che comunque mai potranno essere certezze. Perché ognuno ha comunque diritto alle sue opinioni. Questa è la mia.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).