Il trasloco dei piccoli giornali

L’ipotesi che ha prospettato Giuliano Ferrara è pessima per il Foglio in sé, e pessima per il Foglio che è in noi.

Chiudere i battenti, cessare le pubblicazioni, cancellare una testata che ha fatto un pezzo della storia degli ultimi cruciali quindici anni di storia italiana. Un evento che non si concretizzerà, ma la cui eventualità pone davanti al problema di come affrontare un tornante cruciale per chi fa piccoli giornali per proporre idee, politica, posizioni, analisi. Qualcuno è già finito fuori strada, come Liberazione, c’è chi si dichiara sul ciglio, come Il manifesto, altri hanno situazioni di crisi conclamate e altri ancora ci sono ma non lo fanno sapere. Europa – il giornale che dirigo – non sta tanto meglio.

(«Il Foglio conta di non chiudere», L’editoriale di Giuliano Ferrara sui problemi economici e i progetti online)

Non ho voglia né bisogno di riaprire il dossier di quanto il Foglio possa piacere o dispiacere, dell’opinione che si può avere del suo direttore, delle parti alterne e cangianti che ha giocato fin dalla fondazione nella commedia berlusconiana (tendente al dramma per il paese). Per chi ha gusto del giornalismo e della scrittura applicati alla politica, questo è un modello, che può solo fare tanta maggiore rabbia quanto più tradisce (e l’ha fatto) la promessa all’imprevedibilità e al disincanto: perché l’amicizia che perdona tutto al Cavaliere si ammette, ma neanche un romanticismo patologico giustifica tante campagne sballate e sconfitte, ultima quella per le elezioni contrapposte al golpe del “preside” Monti, ora corretta in un più mansueto e responsabile accompagnamento critico del riformismo professorale.

Ma tant’è, ognuno ha i suoi incantamenti. Per ricordarmelo, tengo appesa nella stanza la riproduzione di una prima pagina di Europa con titoli e foto su Veltroni versione Grande Timoniere. Ci piaceva quel Pd lì, ora ci adattiamo e applichiamo le nostre poche idee a un Pd meno immaginifico, pragmatico talvolta fino all’eccesso ma magari chissà speriamo più vincente. Ognuno s’incanta e ripiega con ciò che ha.

Il Foglio non deve chiudere, va da sé. Per la qualità controversa delle idee e delle parole che produce, per la leva impareggiabile (Europa esclusa) di giovani talenti che educa, promuove e smista, per l’urticante presenza di un direttore e dei suoi cinici coetanei e complici, per smentire i quali occorre sempre migliorare se stessi, esercizio che solo gli stolti si risparmiano.

Dopo di che non credo che il Foglio chiuderà (intanto mi interrogo su quanta parte del suo problema risieda nel più generale disarmo, politico e non solo, che Silvio Berlusconi sta imponendo ai vari comparti del suo sistema di potere e di battaglia), però so che il suo problema è il problema di tanti altri, che pur non essendosi dati alle spese pazze ed essendosi meritati nome, rispetto e ruolo, ciò nonostante non reggono l’urto della crisi, e tutti scrutano con scarsa lucidità e flebili speranze nelle prospettive offerte dall’ormai mitologico trasloco dall’edicola al web.

Il paradosso è quasi ovunque lo stesso. Più o meno condivisibile che sia, la produzione intellettuale e giornalistica di molte di queste testate è riconosciuta, circola, rimbalza, crea opinione e contrasto. Insomma, funziona. Ma non remunera. Quelli che per leggere sono disposti a recarsi in edicola e spendere sono pochi, mentre la stragrande maggioranza di quelli che usufruiscono dei contenuti (magari di qualità, elaborati da strutture redazionali regolari dunque onerose per quanto leggere) lo fa gratis sulla rete, e ormai ritengono la gratuità un diritto acquisito. Pur di averla garantita – si trattasse anche solo di spendere un euro – sono disposti a scambiarla con meno qualità, con contenuti più improvvisati, meno professionali, tanto il consumo è rapido e l’offerta pressoché illimitata.

La strada che porta a un sistema nel quale la carta e l’edicola siano presidio residuale (ma certificazione di qualità e solidità) è tracciata, ineludibile. Da solo però nessuno di noi piccoli può percorrerla, moriremmo tutti nella transizione perché nasciamo con altre strutture, altri pesi, sostenibili (e a stento) solo con i ricavi della diffusione. Certo, la pubblicità cresce a vista d’occhio sulla rete ma seguendo le stesse implacabili regole che hanno consentito ai grandi giornali di drogare la concorrenza e schiacciarci tutti, uno dopo l’altro, nel mercato tradizionale. Si sa che sopravviviamo per il sostegno pubblico: come usarlo per la riconversione è il tema di oggi e dell’immediato futuro.

Non credo che la massa dei moralizzatori con i loro opinion leader se ne renda conto, ma la campagna contro i contributi pubblici all’editoria politica, cooperativa e di partito è il frutto più avvelenato – a me talvolta pare perfino l’unico – di quell’odioso neoliberismo selvaggio che in altri campi porta le medesime persone a sfilare indignate nelle piazze.
«Se non sai vivere nel mercato, è giusto che tu muoia» è la frase che mi sento rivolgere sempre, da gente che non si permetterebbe mai di parlare così a un minatore del Sulcis, a un metalmeccanico di Termini Imerese, a un panettiere di Milano, a un orchestrale dell’Opera di Roma, a un attore del Valle. Siamo in tanti fuori dal mercato, forse ci siamo tutti, voglio dire tutti gli italiani: vogliamo morire abbracciati? Può disprezzare tanto il valore della produzione intellettuale, giudicandola non meritevole di tutela né di sostegno, chi magari in altra sede si straccia le vesti per il degrado culturale del paese (sempre colpa di qualcun altro)? E dove possono trovare spazio i precari da tre euro al pezzo, formarsi nuove professionalità, competenze e intelligenze, se su piazza rimangono solo i colossi? Si fa l’esempio – notevole ma peculiare – del Fatto, che è nato e prospera solo sulle proprie forze. Ma dal direttore in giù, quasi tutti coloro che ne fanno il successo sono cresciuti dentro piccola, grande o grandissima editoria sovvenzionata.

Europa per esempio, piccolo luogo del giornalismo e della politica, negli anni ha anche formato giovani capaci, ha dato loro buona occupazione, in definitiva ha creato valore, anche se non utili per gli editori: era meglio che non fosse successo? La gramigna da scacciare sono gli abusi, l’assistenzialismo, l’ingrassamento indiretto della politica. Un’operazione di bonifica è già in corso, è negli impegni del parlamento e del governo, ma prima ancora è nell’impegno del sindacato e di chi i giornali li fa davvero. I fondi per le testate meritevoli pare che siano in via di parziale reintegro, piccola boccata di ossigeno per chi stava per soffocare.

Come però il governo Monti ha cominciato ad affermare, e come tutti sappiamo, la prospettiva non è andare avanti così. La prospettiva è un piano generale di ristrutturazione del settore, nel quale le risorse siano usate per spingere chi ha qualcosa da dire laddove c’è gente ansiosa di ascoltare, replicare, consumare, cioè sulla rete e sulle piattaforme multimediali. Questo al fine di creare un circolo virtuoso, potenzialmente autosostenibile nel tempo e nelle condizioni diverse dettate da un luogo dove la gratuità è dogma e prassi anche a scapito delle prerogative della proprietà intellettuale.

È un’impresa all’ordine del giorno in tutti i paesi, che in Europa e in Italia può svolgersi grazie all’impegno del sindacato secondo le modalità particolari del nostro modello sociale e industriale. L’unica impresa nella quale possono trovare spazio e successo le avventure nuove, partite dal basso, e quelle preesistenti più capaci di innovare e di inventare formule miste di presenza online e su carta. Vale la pena di provarci, saremo obbligati a provarci, ma da soli non ce la faremo. Noi, che siamo tutti un po’ fogli e un po’ manifesti.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.