Cosa ho imparato dai Salesiani

Di sicuro tutto viene da là: cioè ho servito messa. D’accordo, avevo 12 anni, facevo le medie ai Salesiani, ma è lì la chiave, quella che apre tutta la vita.
È lì? Mah?
Sarà l’insonnia – mi hanno pure consigliato un rimedio omeopatico, l’ho preso, niente! Dice, no tranquillo, se non funziona subito vuol dire che sta funzionando, l’omeopatia è così. Quindi se funziona è come se non funzionasse?

Cioè, questi preti dei salesiani. Dai, parlavano di cose assurde. Va bene, stavo a Caserta, metà anni ’70 il clima era diverso (mi faccio vecchio, altro che omeopatia, come si può sconfiggere la vecchiaia secondo principi omeopatici? Dovrei introdurre piccole gocce di vecchiaia ogni giorno, diluite in soluzione? Ma ci pensa già la vita, i telomeri si accorciano). Comunque, San Domenico Savio: meglio pulire un chilometro di strada con la lingua che cedere alle tentazioni. Poi dici che i feticisti sono aumentati. Oppure, don Guarino: dieci minuti di piacere non sono preferibili a una eternità di sofferenza (all’inferno, sottintendeva). No, cioè, Albertella (il nome non me lo ricordo), uno che si masturbava già, precocemente, mi chiese: ma come si fa a farlo durare dieci minuti? A me dura poco.

E poi servivo messa. Ero già ateo o non ancora? Lo sono diventato servendo, oppure servivo proprio perché ateo? Insomma, la liturgia, quella, me la ricordo bene. I gesti in sequenza, le parole in cadenza, appunto. Com’erano rassicuranti. È un’abitudine, quella di cercare l’abitudine. Ma è un elemento reazionario, in effetti. Guarda come siamo abitudinari noi che facciamo gli intellettuali. Eh, i vecchi tempi. Evviva, arriva l’apocalisse.

Lo siamo anche nelle proposte: belle, esteticamente raffinate, ma servono come liturgia. Stay hungry stay foolish. Ma dai… in Italia non stanno insieme le due cose: non sei appagato? Sì, allora, non sei folle. E diventi rabbioso: quel borbottio continuo che leggi nei commenti agli articoli del Fatto. O sei folle ma appagato: abitudine, appunto, l’eterno ritorno. L’eterno riposo dona loro signore, adesso e nell’ora della nostra morte.
Quella liturgia, servire messa, serviva come protezione, che felice bisticcio linguistico, in sostanza, nello specifico, mi proteggeva dalle preghiere delle vecchiette, le bizzoche. In prima fila, tutto il giorno a pregare. Quel rimurginare veloce: ave maria piena di grazia, a v ma pi d grz, la frase si riduceva, a un borbottio. Una nenia inquietante, sarà il clima buio della chiesa, i lumini accesi, quella fiammelle, che affanno, che ansia: ave maria piena di grazia, il tono diventava rauco: aaaa ppppp ggg ziaaaa. Che tensione, che invasione di richieste. Vai con la liturgia, e tutto passava, una forma di protezione. Cioè, le vecchiette pregavano? Esprimevano il loro canto a Dio? L’amore non lo canto è un canto di per sé, più lo si invoca, meno ce n’è. Infatti. Erano solo richieste, un po’ arrabbiate, desideri in sequenza, appagamento senza follia. Come i commenti agli articoli del Fatto: rassicuranti: multinazionali, multinazionali, ali ali. In prigione ne ne ne…

Richieste siffatte, ripetute in continuazione diventano invocazioni maligne, e allora è necessaria una liturgia di contenimento: ti siedi, ti alzi, leggi, spargi l’incenso, passi con il piattino. Però, per esempio, Albertella, che serviva messa con me, dopo essersi tolti i paramenti da chierichetto, correva a masturbarsi, e in effetti lui ha introdotto nella mia vita una consapevolezza, cioè, un’altra soluzione è possibile, contro le inquietudini della vita, i borbotti permanenti, quelli che ti scuotono e ti frustano, quell’invasione di mugugni, il logorio delle insoddisfazioni moderne, contro tutto questo, ricerca del piacere: vabbè cinque secondi, diceva Albertella, ma ci si può lavorare, no? Fondiamo una liturgia del piacere.

La bicicletta, quella è una buona abitudine, pedali nei viali di villa Pamphilj, guardi le ragazze, ascolti gli accenti, i commenti, ma sei tu quello che passa e coglie le frasi smozzicate, se tu che le completi, mica ti invadono.
Però poi servire messa, quella pratica, è servita. Dai, sì. Da scrittore, me ne sono servito: il mondo è una seria di borbottii permanenti. Sono voci popolari, costrutti antropologici, richieste inevase, dolori indecenti e dolori inventati e spesso si ripete quella situazione: al primo banco della chiesa, le bizzoche pregano e chiedono. Borbottii, io stesso ne produco in quantità, ‘sta cazzo di insonnia, poi. Devo per forza costruire una liturgia di contenimento, narrativa certo, altrimenti mi travolgono. Ordiniamo tutto, mettiamo a posto, come dopo essersi sfrenati, dopo la dissipazione improduttiva, quella lallazione di richieste, dopo tutto questo costruiamo una storia di contenimento. Una liturgia laica, ma pur sempre una liturgia. Con qualche vantaggio in più, almeno per me. La liturgia laica ti fornisce delle differenze.

Quando c’è stato Vito Mancuso a che tempo che fa? Due settimane fa. È questo che non mi convince. Il fatto che Mancuso sorrideva sempre. Questo atteggiamento cristiano: sorriso perenne davanti a questioni complesse. Come rispondere, infatti, non solo a borbottii inquieti, invadenti, ma anche a richieste serie? Uccidi tuo figlio, fallo per me, fallo per Dio! E qui la risposta, ma non c’è dubbio, deve per forza squalificare sia la richiesta sia il richiedente. Insomma, una risposta seria deve prendersi la responsabilità di squalificare Dio. Cambiare paradigma. A costo di sopportare il disordine che ne deriverebbe. E invece, Mancuso aveva il sorriso sulle labbra. Ma come? Dio ti ha chiesto di uccidere tuo figlio, e tua figlia ti chiede ora, spaventata, se tu diresti sì a una richiesta del genere. Non puoi rispondere a una richiesta così, dicendo: tranquilla bambina mia, io non ti tradirò. E no, te lo chiede Dio. Lì devi andare fino in fondo, devi squalificare la richiesta: non si uccide un figlio, e basta. Non lo si fa per nessuno, nemmeno per Dio.

Mancuso sorrideva, rassicurante. Un’abitudine cattolica. I cattolici tendono a invaderti, con il sorriso sulla labbra. Un’enorme produzione di sorrisi (a volte esaltati) non richiesti. Anche i vecchi comunisti hanno questo atteggiamento. Una volta Toni Negri disse: sono un comunista vecchio stampo, e sorrideva, contento della sua diversità.
E a me capita spesso a Natale e Pasqua. Di essere invaso dai sorrisi. I miei amici cattolici mi mandano messaggi sorridenti: Cristo è nato o è risorto. Ma io sono ateo, e voi lo sapete. Dunque, va bene per la nascita, ma buona Pasqua… per me, ateo, vuol dire, scusatemi tanto, essenzialmente, buona morte. Mi augurate buona morte? Oh! E di contro mica mando sms ai cattolici dicendo: per me Cristo non è risorto. Insomma, un po’ di distanza.
E tutti quei cattolici che chiamavano Eluana Englaro per nome? Le davano del tu, non la conoscevano, non sapevano nulla di lei, ma sentivano necessario invaderla con i loro sguardi, il corpo mistico, no? siamo parte della stessa sofferenza, non li senti i borbottii? Quella lettera di Celentano, pubblicata dal Corriere, la più brutta mai scritta in tutta la storia della Repubblica: invitava il padre di Eluana a convertirsi, così, forse chissà, Eluana si sarebbe svegliata. Tutti lì, in piazza, a sorridere con le candele e a prendersela con un uomo, Beppino Englaro, solo perché non sorrideva. La più brutta lettera mai scritta. Celentano è diventato anche il leader della sinistra. Le campagne del Fatto e di Santoro, sull’acqua e sul nucleare all’insegna dello slogan: io sto con Adriano. Ma col cazzo! Non mi faccio invadere, respingo, senza sorridere nemmeno, squalifico Adriano e che me ne importa se canta bene. Valuto caso per caso.

Ho fatto i Salesiani, sono esperto in teologia. In teologia non ci sono risposte, solo domande. Perché Dio mi chiede di uccidere mio figlio? Non puoi rispondere: mi dispiace, puoi legittimamente fare la domanda, ma scordati la risposta. In fondo perché Socrate è stato ucciso? Perché ha cercato una risposta laica. Cosa contestava? il principio tragico, che è quello teologico: non ci sono risposte, solo obbedienza. Ma perché mai diceva Socrate, un dio deve chiedere a un umano di rispettare due obbligazioni in contrasto tra loro? Agamennone deve partire per Troia perché i diritti dell’ospitalità sono stati offesi e contemporaneamente deve uccidere sui figlia Ifigenia per propiziare il viaggio? Oh, e dai, già faccio abbastanza. Niente, devi farlo, non ci sono risposte, e la tragedia, non ti puoi ribellare. E invece Socrate. E no, noi adesso ci mettiamo buoni buoni, ragioniamo, maieuticamente si intende, e cerchiamo di assegnare un valore ad ogni bene, facciamo le differenze, analizziamo. E se è il caso ci ribelliamo ai falsi dei. Squalifichiamo le loro richieste. Non ci limitiamo a sorridere e cercare una risposta di circostanza. In realtà la teologia è un controsenso, infatti le uniche riposte possibili ad alcune richieste, squalificano il richiedente. Squalificano Dio. Per questo la liturgia si è fondata un principio imbattibile, appunto: domandate pure, ma scordatevi la risposta- ma come rispondiamo ad alcune questioni: che si fa con le staminali? Con la legge 40? Fine vita? Testamento biologico? Io e Dio. Certo è facile così, con il sorriso. Ma va be’, forse è l’insonnia.

Ho imparato anche un’altra cosa, ai Salesiani, empiricamente: in tutte le religioni Dio è un testimone, testimonia il mio dolore, ma silenziosamente e senza intromissioni. Non si intromette per mitigarlo, non si espone con richieste. Tutto è intimo e silenzioso, se c’è qualche borbottio, allora è notturno, privato, una cosa fra me e Dio, voi non c’entrate, nemmeno la dovete sapere e non devo spiegazioni.
Perché, dai, è quello: più che il dolore, la morte. E lì il punto. Moriamo e chiediamo perché, ma è come la teologia, non ci sono risposte, perché la vita è una continua evoluzione, reazioni chimiche che prevedono la morte.
La gestione, l’unica possibilità. Che ho imparato durante il mio esame di stechiometria? Ventidue? Che schifo. Stavo dietro a Cristina e non studiavo, soffrivo, mannaggia. Ho imparato che non ci sono reazioni perfette, ossia risposte perfette, sempre e dovunque si producono scorie, e borbottii. Il massimo che possiamo fare è imparare a gestirli. Esistono modi creativi, uno è il piacere per esempio. Il piacere mica è una qualità degli oggetti? È una nostra percezione. Mica il dolce è dolce? Mica la molecola di glucosio è dolce? Osservate la molecola, dov’è il dolce? Non c’è. È nel nostro cervello. Lo zucchero ci serve, è utile, ci regala energia prontamente disponibile, per questo è dolce. Adattamento evolutivo. Quindi, piacere e dolore, dipendono da quello che il corpo chiede in quello specifico momento. Il dolore è una forma di riposo, te lo chiede il corpo. Addormento la mente, ovatto tutto, mi deprimo per contenere gli stimoli. Parlo fra me e me, pochi borbottii, sempre gli stessi. Ma piacere e dolore devono rispondere alla stessa matrice, stessi elementi, reazione diverse. Scorie, quelle sempre, e comunque. La morte, no, l’insensatezza. Varie declinazioni della morte, la vecchiaia che arriva poco alla volta.

Che insensatezza naturale. Vado alla libreria del cinema con Gelasio e Pino, Lorenzo e Maurizio. Ci prendiamo una cosa, parliamo di un libro che bisogna fare, sul cancro. Steve Jobs, naturalmente, c’entra. Tre di noi avevano l’Iphone. Io sto ancora al Blackberry. Vabbè. E si parla: la facilità dell’Apple, cos’è? Solo una forma di piacere sessuale, bello da toccare, da vedere, da sfogliare. Il piacere è libertà, ma libertà è una forma di disciplina, cioè, non può esistere senza regole e Jobs aveva disciplina, stay hungry, stay foolish, e a cosa serviva questa fame e questa follia? A trasformare il dolore in piacere. Il borbottio invadente con il piacere della conoscenza. Connecting the dots, unisci i punti, sii affamato e folle, cioè sii indipendente. Niente Administrator, i prodotti plug and play garantivano libertà della dipendenza – niente Dio che amministra richieste folli? l’unica perfezione è nel metodo. Il piacere può durare più di cinque secondi? il piacere è quello che unisce e cambia la percezione, dopo aver sperimentato il piacere non torni a là, dov’eri prima. Non tornerò mai a prima, mai.

Discorsi così, e poi il suo cancro, e poi Gelasio ha detto che è tutto sbagliato: il modo con cui guardiamo al cancro. Non è un alieno, un mostro che cresce dentro di noi, che ci obbliga a scelte e che dobbiamo combattere. Questo paradigma è sbagliato, presuppone l’esistenza di un altro da te – un demonio- che ti ha invaso e contro il quale innalzi le barriere della volontà. Non funziona così. Il cancro è parte di te, una cellula che danneggiata (piccolissime, infinitesimali modificazioni) vuole continuare a vivere e quindi ti danneggia, vita contro vita e vince la morte. Le cellule cancerose vogliono vivere, assorbono tutto quello che può assorbire.
Il fatto è, diceva Gelasio, mentre io cominciavo a guardare la cassiera, che non si può sconfiggere il cancro (ma ci sono, ripeteva, vari tipi di cancro, ognuno ha una sua caratteristica, ognuno una sua probabilità di spegnersi), i dati sono anche tristi e chiari, prendo un certo tipo di cancro, uno violento e faccio la chemio, ebbene, rispetto a uno che non la fa, ho una sopravvivenza media di 4 mesi. Poi mi può andare bene, ma la maggior parte rientra in questa casistica. E bisogna stare attenti, sono dati che non si possono pubblicare a cuor leggero, altrimenti passa l’idea che la chemio non serve, e il problema è che la chemio te la chiedono soprattutto i pazienti, nessun paziente che io visito, diceva Gelasio, vuole staccare la spina: vuole vivere, esattamente come il suo cancro, la morte è la vita, rispondono alla stessa esigenza, e non è detto che hanno direzioni così opposte, in fondo.

La cameriera era bellissima, bionda, quelle sopracciglia alte, una gonna jeans larga e le guardavo le cosce, finché Gelasio si è rivolto a me, per dirmi: il cancro non si può sconfiggere, possiamo renderlo cronico, è una questione di gestione delle scorie, bisogna essere onesti, non fomentare inutili illusioni, combattiamo meglio se invece di essere ottimisti o pessimisti, diventiamo possibilisti, leviamo le emozioni da mezzo meglio un approccio leale. Così ragioniamo con una metodologia analitica, e io allora l’ho detto a me stesso, come un borbottio, adesso mi alzo, vado dalla cameriera e le dico che nel momento in cui tocchiamo una zona di dolore, perché io soffro e anche lei, bene, è il caso di procedere sì con una liturgia di contenimento che però prevede il piacere, Albertella, insomma, non dieci minuti, anche meno, purché questo piacere sia semplice e netto, e pieno perché impuro, insomma, proviamo a unire i punti, cioè andiamo a scopare ora, spogliati, nudi, fragili, trasformiamo quei borbotti interni, conosciamoci, nudi a letto, senza fronzoli, o ti tira o non ti tira, e senza illusioni, gestiamo le nostre scorie, e mi sono alzato, sono andato al bancone, le ho sorriso, ho attaccato discorso (un particolare vino o una stronzata) quando mi sono ricordato di Autogrill di Guccini, che mi piace tanto e allora mi sono detto: se le dico della malinconia e vieni vieni andiamo via, questa mi risponde: ma che fai? mi citi Guccini? Sforzati almeno di sorridermi, fomenta una necessaria illusione e contemporaneamente al mio blocco creativo nei confronti della cameriera, ho visto Lorenzo, che doveva pubblicare il libro, scuotere la testa, e chiedere a Gelasio: ma così è troppo razionale, sicuro che non ci fa bene avere l’illusione, di potercela fare intendo, che qualcosa si può sconfiggere, invece di gestire semplicemente quello che possiamo gestire?
E Gelasio ha chiesto, allora e senza minimamente sorridere: lei è cattolico? No, ha risposto Lorenzo e anche Maurizio, stessa risposta, io pensavo: lo dico o non lo dico alla cameriera, insomma la bellezza non è una qualità dell’oggetto, ma un’esigenza del corpo, come il dolce, per esempio e se entrambi, cioè io e te, bellissima cassiera, sentiamo qui e ora la morte e le sue declinazioni che ci colpiscono a dose minime, giorno dopo giorno, allora dobbiamo unire i punti, creativamente, cercare la bellezza e il piacere, come Steve Jobs, altrimenti se non lo facciamo, non ci resta che il mito, la liturgia, stessi gesti, parole in sequenza, consolazioni minime, dobbiamo andare avanti, spostare le colonne d’Ercole. Ma non ho detto niente, è rimasto un mezzo borbottio, rauco, pure.

E allora, ha risposto Gelasio, se non è cattolico deve accettare il dogma della biologia, sappiamo tante cose ora, gli organismi biologici differiscono totalmente dalle macchine, un sistema evolutivo infatti è creativo e adattativo, solo perché non ha un progetto. Cioè, non viene costruito secondo i principi di un’economia di funzione. Se ci fosse un ingegnere intelligente – se ci fosse Dio- allora il progetto sarebbe razionale, voglio dire, a monte si assegnerebbero delle funzioni prestabilite, tutto sarebbe necessario ed esclusivo. E invece? La nostra mente è piena di operazioni non pianificate, gli errori sono riparati da adattamenti evolutivi, non previsti in partenza. Il cancro risponde alla stessa logica, per questo non possiamo sconfiggerlo, dovremmo tornare indietro e intervenire sui meccanismi evolutivi, un’operazione che nemmeno Dio ha mai pensato di pianificare. Mi dia retta, le illusioni saranno anche una condizione necessaria ma non sufficiente. Non sono migliori di noi. Ci sono domande che hanno risposta nella stessa evoluzione biologica, Dio non c’entra in questo gioco, se esiste è un testimone silenzioso. In assenza andiamo lo stesso avanti, errori incomprensibili e riparazioni non previste. Uniamo i punti, aumentiamo li tasso di conoscenza. Più conosciamo più proviamo piacere.
Il discorso di Gelasio mi ha convinto. Peccato che mi sono distratto e ho solo perso, per così dire, il ritmo e il tempo con la cameriera. La vecchiaia c’entra, quella non perde colpi.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.