Frammenti di storie, pixel e pensieri

Il 25 aprile 2015 una violenta scossa di magnitudo 7,8 ha colpito il Nepal centrale lasciando sotto le macerie più di 8.000 morti e circa 20.000 feriti. Da allora la terra ha continuato a tremare, facendo altre vittime. Le città hanno subito danni incalcolabili e nel mondo rurale le cose non sono andate meglio. Si è scatenata la corsa agli aiuti, resa difficile da vie di comunicazione già molto precarie e, dopo il sisma, del tutto inesistenti. Le organizzazioni umanitarie internazionali, come sempre, si sono date un gran da fare mentre la rete ospita petizioni e raccolta fondi che purtroppo non potranno restituirci il patrimonio degli stupa e dei templi distrutti e, temo, non salveranno uno dei paesi più poveri del mondo da una nuova e più profonda miseria.

Anche la fotografia fa la sua parte. Il giorno dopo la catastrofe, il fotografo Sumit Dayal e la giornalista Tara Bedi, hanno creato Nepal Photo Project, un progetto che vive su Instagram e Facebook. Un’iniziativa importante per creare un monitoraggio costante nel pieno dell’emergenza: ritrovare, attraverso le immagini, persone scomparse, verificare lo stato degli aiuti, scambiare informazioni e conservare la memoria dei luoghi. Un aggiornamento continuo che, nel dramma della perdita, ha immediatamente generato una nuova comunità.

Ci sono tragedie annunciate e altre del tutto imprevedibili. Queste ultime, difficilmente ascrivibili alla responsabilità umana, sono quelle più sconvolgenti. Ci lasciano sgomenti perché non ci consentono la speculazione mentale e la reazione rabbiosa: siamo vulnerabili, fragili e indifesi di fronte alla potenza ribelle della natura.

Le foto del Festival di Cortona

Oggi la furia distruttrice che si è accanita contro il Paese himalayano – paradiso della spiritualità, meta di pellegrinaggi generazionali alla ricerca di risposte esistenziali – è sui nostri schermi tascabili, portatili e da tavolo, la riceviamo in diretta dagli smartphone dei protagonisti. Sono milioni le fotografie casuali e urgenti, in cui vittime divenute autori hanno sostituito le grida con le icone. Miliardi di pixel ricostruiscono le scene di valanghe di neve provocate dal sisma e, più a valle, l’apocalisse di legno e mattoni dei villaggi sbriciolati. Mentre si contano i morti, si assiste in tempo reale al patrimonio dell’umanità che va in frantumi.
Sono queste le nuove testimonianze?
Immediate, efficaci, forse necessarie. È così e lo sarà sempre di più.
Un’umanità fotografante ci offre la diretta del dramma.

Nei giorni immediatamente successivi al sisma, leggo dispacci e cerco di avere informazioni, dati e confronti, storie. Non bastano (e non servono) le gallery del dramma. C’è un giornalismo, tutto americano, che mantiene la tensione: vuole andare e vedere, cerca testimonianze, intervista e fotografa per restituire una narrazione per parole e immagini. Il lavoro di Daniel Berehulakgià premio Pulitzer per il reportage sull’epidemia di Ebola – inviato per il New York Times, restituisce una racconto nella tradizione della fotografia umanistica. Si avvicina alle vittime, raccoglie il dolore, interpretando la realtà con pietas, attraverso i volti e le storie dei protagonisti, offre un ritratto collettivo il cui senso profondo è l’appartenenza – non più solo all’istante, all’evento, al proprio gruppo etnico o culturale – ma alla famiglia dell’uomo, la nostra.
Lo stesso vale per Adam Ferguson, inviato da Time a ridosso della tragedia. Potrei usare le stesse parole scritte per Berehulak, pur sapendo le differenze che distinguono ogni singolo autore ma, ciò che più mi interessa qui, è porre l’accento sulla grande professionalità di entrambi e su un giornalismo che continua a produrre informazione.

Sempre a Time dobbiamo un’altra fonte preziosa di questo evento i dispacci di immagini e testi di James Nachtwey. Il grande fotografo ci ricongiunge con la migliore tradizione del fotogiornalismo: non più volti indistinti di vittime anonime, ma persone con nomi e cognomi, età e luoghi definiti. Non più fotografie casuali, ma testimonianze vere e proprie in cui ogni singolo frammento si concatena al successivo per costruire la storia.

Questa breve e sommaria perlustrazione fotografica del terremoto in Nepal, mi aiuta a raccogliere i pensieri e tento un ulteriore piccolo passo nella riflessione che accompagna il fotogiornalismo contemporaneo e la sua funzione. C’è ancora bisogno della fotografia testimone? Io credo di sì, forse oggi è più che mai necessaria ma solo a condizione che gli autori siano capaci di una nuova e più profonda consapevolezza. Di ripristinare quel patto di fiducia che ci permette di conoscere e partecipare, continuando a guardare con gli occhi e con il cuore.

Tra poco ci sarà la nuova edizione di Cortona On The Move. 
Ci torno perché è un bel posto: incontro gente interessante e mi riconcilio con la fotografia in una dimensione più leggera e meno stressata dal lavoro quotidiano. Farò le letture portfolio. Per me, che studio il pianeta terra dallo schermo 13 pollici, sono occasioni d’incontro. I fotografi chiacchierano, ti raccontano la loro vita, perché hanno deciso di abbandonare una carriera e una casa per prendere in mano una macchina fotografica e girare il mondo. A volte sono autobiografie interessanti, spesso divertenti. Mentre osservo il loro lavoro mi faccio raccontare tutto dei mondi sconosciuti: sono possibili viaggi all’infinito, avventure da divorare, fiabe senza fine.

L’anno scorso, in occasione di questo festival, ne ho incontrati molti.
Tra questi un medico napoletano di cui, confesso, non ricordo il nome. Lavorava in ospedale, credo fosse un ortopedico. Poi, come succede solo ai fotografi, ha mollato tutto e seguito la sua compagna che partiva per una ricerca antropologica su una comunità himalayana. Quello che mi mostrava era interessante, non perfetto, ma le premesse erano buone. Scorrevo immagini di una comunità fuori dal tempo: coltivatori di marijuana in uno scenario assolutamente magnifico. Non avrei potuto, se non ci fossero state quelle fotografie a colori, indiscutibilmente contemporanee, dare un’età a quelle scene. Potevano essere del secolo scorso o del prossimo. Tutto sembrava incontaminato dal presente. Gli uomini facevano il bagno in una vasca comune affacciata sulle montagne più alte del mondo. Le donne – mi spiegava – ne avevano un’altra identica, dall’altra parte del caseggiato, ma protetta dagli sguardi con tavole di legno. Credo di avergli fatto i complimenti. Gli ho consigliato di completare il lavoro, di crederci, editarlo e dargli una sequenza per spedirlo alla fine a Washington, al National Geographic.

In questi giorni, mentre guardo le immagini del terremoto in Nepal ho ripensato a quel lavoro e al suo autore. Mi sono chiesta, osservando le riprese aeree dei villaggi distrutti, se tra quelli non ci fosse anche il suo. Ho immaginato quelle donne e quegli uomini travolti dal sisma mentre, immersi nella vasca della calma assoluta, fanno i loro bagni.
E poi mi sono domandata se tutta questa storia, di un medico napoletano e di un villaggio himalayano sia mai davvero esistita o fosse il frutto della mia fantasia fotografica.

P.S. Questo testo mi è stato chiesto dagli organizzatori di Cortona On The Move, in occasione della nuova edizione che prende il via il 16 luglio prossimo e di cui potete vedere una serie di immagini che introducono autori e mostre presenti. Qui trovate il programma e gli aggiornamenti

Renata Ferri

Giornalista, photoeditor di "Io Donna" il femminile del "Corriere della Sera" e di "AMICA", il mensile di Rcs Mediagroup. Insegna, scrive, cura progetti editoriali ed espositivi di singoli autori e collettivi.