Concorrenza e diritti ai tempi di internet

Internet: la dimensione immateriale dell’esistenza

Qualche anno fa un giornalista mi chiese una definizione di Internet. Allora dissi che è una dimensione dell’esistenza. Oggi ne sono sempre più convinto: Internet è una dimensione dell’esistenza in cui svolgiamo relazioni e attività economiche e sociali. Non è l’unica dimensione, com’è ovvio, in cui teniamo queste relazioni, ma non è nemmeno una dimensione alternativa all’esistenza, come la lunghezza non è una dimensione alternativa all’altezza.

In alcuni casi la dimensione materiale può essere pressoché inesistente, in taluni altri è la dimensione immateriale che può essere pressoché inesistente. Nella maggioranza dei casi le attività si svolgono in entrambe le dimensioni. In misura crescente, per la maggioranza di noi, tendono a svolgersi in modo prevalente nella dimensione immateriale.

Certamente molte attività e relazioni sono immateriali da tempo (dal telex e dal fax); ebbene, per molti di noi queste sono totalmente collassate su Internet (o lo stanno rapidamente facendo). Per questo Internet è la dimensione immateriale dell’esistenza.

Il reale immateriale

Così come ritengo profondamente sbagliato parlare di nuove tecnologie per indicare le tecnologie digitali che ci accompagnano da quasi 20 anni, per vari motivi ritengo semanticamente sbagliato parlare di mondo reale e mondo virtuale. Innanzitutto non sono mondi, ché sarebbero alternativi. Per questo parlo di dimensioni. In secondo luogo virtuale significa in potenza, ovvero che potrebbe essere ma non è. Per illustrare il concetto, uso dire che i nostri soldi, custoditi in banca, sono reali, anche se non sono materiali. Per questo pongo particolare enfasi nell’usare i termini “dimensione materiale” e “dimensione immateriale” e non di “mondo reale” e “mondo virtuale”.

In questa chiave è più facile capire che un ragazzo non sta tutto il tempo attaccato al telefonino o a WhatsApp ma sta attaccato ai suoi amici e compagni. Anche quando è materialmente distante. E questo nulla ci dice sulla qualità della loro relazione quando si incontrano anche materialmente, solo che la relazione è ora possibile immaterialmente per un tempo assai più lungo di quando ero ragazzo io (che passavo ore in telefonate urbane, inibendo l’uso del resto della mia famiglia).

Il light touch regolamentare

Le piattaforme online, gli strumenti che mediano le nostre relazioni immateriali, sono cresciuti – sarebbe meglio dire esplosi – in pochi anni ed hanno goduto di un regime regolamentare di pochi vincoli. La cosiddetta “Direttiva europea eCommerce” del 2003 garantiva esplicitamente una esenzione di responsabilità ai gestori delle piattaforme di comunicazione. Il legislatore era ben conscio che la piattaforma tecnologica usata da persone per comunicare era solo quello: una piattaforma; i contenuti erano inseriti dagli utenti e quindi di responsabilità degli utenti stessi.

Diverso il discorso per chi immette contenuto sulle piattaforme, che ne ha la responsabilità. In particolare gli editori in quanto soggetti organizzati in larga scala, con una struttura gerarchica che determina la linea editoriale ed i contenuti da pubblicare. Le esenzioni furono previste per i sistemi che esercitavano la sola trasmissione (mere conduit: un po’ come una passerella sulla quale transitano contenuti), per quelli che ospitavano contenuti immessi da terzi (hosting: un po’ come un tavolo destinato a fungere da supporto a chi deposita e preleva contenuti) e una via di mezzo tra i due (caching: un po’ come un piano inclinato in cui contenuti depositati tendono a scivolare e sparire).

Le piattaforme si sono evolute e con i primi sistemi di forum, di discussione online, si è posta la questione se questi fossero o meno dei servizi di piattaforma e quindi beneficiassero o meno dell’esenzione di responsabilità prevista dalla direttiva. Fu deciso che, essendo sistemi software e non essendovi attività umana, fossero anche essi una parte della piattaforma e pertanto beneficiassero dell’esenzione di responsabilità prevista per i servizi di hosting.

Regolamentazione statica ed evoluzione tecnologica

È ancora coerente con quell’idea che ispirò la direttiva europea ritenere che l’assenza di attività umana sia sufficiente ad escludere un’attività editoriale con la conseguente responsabilità? È di alcune settimane falsa notizia dell’esperimento sociale di Facebook in cui, algoritmicamente, a milioni di persone sono state alterate le regole con cui vengono presentati i messaggi per rilevare in che misura favorire messaggi critici tende a sviluppare reazioni negative e, invece, favorire messaggi positivi tende a sviluppare reazioni favorevoli. Cos’è questa se non una dimostrazione che è possibile effettuare scelte editoriali in modo tecnologico, non umano? Se il sistema fosse programmato per favorire messaggi con giudizi positivi nei confronti del Ventennio, sarebbe sufficiente argomentare che non intervengono umani per beneficiare dall’esenzione di responsabilità rispetto all’apologia del fascismo? È sufficiente che le scelte di palinsesto siano fatte da un sistema automatico per ritenere che il servizio media audiovisivo (nuovo nome giuridico della tv) goda di esenzione di responsabilità rispetto alle scelte editoriali, al contrario di ciò che avviene se le scelte sono fatte da un umano (che, per inciso, ha certamente meno informazioni a disposizione a supporto delle proprie scelte di quelle usabili da un software)?

Da quando è stata introdotta le regola della esenzione di responsabilità è passato poco più di un decennio e le tecnologie hanno fatto passi da gigante. Forse è ora di rivedere in modo un po’ più fine quali siano le condizioni per tale esenzione di responsabilità.

Le interfacce utente della dimensione immateriale

Nel frattempo, anche beneficiando di questo favorevole contesto regolamentare, diverse di queste piattaforme sono cresciute e sono diventate le principali interfacce utente della dimensione immateriale; il principale sistema con cui interagiamo nella dimensione immateriale. Che però sta rapidamente diventando (e per alcuni di noi è già) la principale interfaccia utente della dimensione materiale.

È infatti evidente a tutti come, sempre più, per complementare o sostenere le nostre relazioni socio-economiche nella dimensione materiale usiamo strumenti della dimensione immateriale. Un sistema è caratterizzato dalla sua interfaccia utente: se una funzionalità non è accessibile nella sua interfaccia utente, quella funzionalità per l’utente non esiste.

Conseguentemente se veniamo esclusi dalla interfaccia utente della dimensione immateriale, risulteremo in misura crescente penalizzati ed esclusi anche nella dimensione materiale. Qualche tempo fa eBay prevedeva profitti in calo di circa 200 milioni di dollari per una penalizzazione da parte di Google.

Per questo le aziende di venture capital investono molti miliardi in aziende della dimensione immateriale, molto giovani, che rapidamente si impongono come leader in un settore di nuova intermediazione della dimensione materiale: mano a mano che sempre più persone usano strumenti nella dimensione immateriale per agire relazioni socioeconomiche nella dimensione materiale, questi nuovi intermediari assumono una posizione di estrema rilevanza.

Interfacce con regole molto diverse (materiale/immateriale)

A differenza della dimensione materiale in cui ogni operazione ha un costo marginale non nullo e richiede tempo, nella dimensione immateriale le informazioni si spostano alla velocità della luce con un costo marginale nullo. Nella dimensione immateriale il mondo è un punto: tutto ovunque e subito. Nella dimensione materiale, invece, il localismo e il tempo/costo per raggiungere un cittadino/utente/cliente hanno una grande rilevanza.

Nella dimensione materiale i ritorni tendono ad essere decrescenti, come abbiamo imparato da Malthus in poi. Nella dimensione immateriale i ritorni tendono ad essere crescenti, come ci insegna Brian Arthur, favorendo la nascita di oligopoli, quando non di monopoli.

Regole pesanti e regole leggere

Dal momento della liberalizzazione delle telecomunicazioni le regole delle reti degli operatori (che hanno una grandissima componente materiale, locale, essendo principalmente tralicci o cavi sotto terra) sono state pensate per garantire i diritti fondamentali degli utenti e per favorire la competizione. Basta ricordare ad esempio:

  • le regole in materia di servizio universale per assicurare che nessuno possa restare escluso;
  • le regole di interoperabilità per minimizzare gli effetti-rete e garantire che i clienti degli operatori di dimensioni inferiori non siano svantaggiati;
  • le regole in materia di conservazione e protezione dei dati personali che ne escludono altri utilizzi;
  • la regolamentazione che proibisce di usare la bolletta per pagare beni e servizi differenti;
  • la regolamentazione asimmetrica a vantaggio dei nuovi entranti rispetto ai monopolisti preesistenti;
  • la regolamentazione a favore della contendibilità dell’utente prevedendo la trasferibilità del numero da un operatore ad un altro in un solo giorno (una cosa che era tecnicamente impossibile quando fu prevista dal legislatore);
  • le norme in materia di funzioni utente per assicurare che, a prescindere dall’operatore, l’utente non debba imparare meccanismi nuovi.

Le aziende di venture capital premiano con valutazioni miliardarie nuovi intermediari immateriali che hanno tassi di crescita esponenziali (dimostrando di sfruttare i ritorni crescenti di Brian Arthur) anche grazie ad effetti-rete e, soprattutto, se presentano nei loro modelli di business modi di attuare un lockin dei cittadini/utenti/clienti. Il lockin è un meccanismo simile alla nassa, che prevede una corsia molto semplice, quasi automatica, per acquisire un utente e la sostanziale impossibilità per lo stesso di abbandonare il sistema.

Interoperabilità e modelli di business

Quando pensiamo a Internet pensiamo ad un mondo di libertà, un po’ anarchico, in cui con qualunque strumento possiamo usare qualunque servizio, in qualunque parte del mondo. Quando Internet è nata era infatti strutturata in modo diverso dai grandi servizi che tutti oggi usano, 5-6 servizi che costituiscono un centro con la stragrande maggioranza dei servizi usati e una periferia estremamente polverizzata, quasi invisibile al raffronto con questi colossi.

L’idea di Internet che molti di noi hanno è legata a servizi distribuiti, come la posta elettronica o il web. Ma questo è assai diverso dallo sviluppo attuale in cui grandi servizi erogano funzioni in modo centralizzato e non interoperabile con protocolli e standard. Se oggi la mail non esistesse e dunque qualcuno la inventasse, sarebbe un servizio centralizzato per cui chi vuole usarla deve registrarsi sulla piattaforma e solo gli utenti della piattaforma potrebbero scambiarsi messaggi. Poi verrebbero fatti ingentissimi investimenti in marketing per attirare gli utenti e, una volta innescato il circolo virtuoso, altri utenti arriverebbero. Lì ci sono tutti. Se voglio scrivere a qualcuno devo andare lì! (effetto-rete). Una volta che tutti sono lì, come posso andarmene? Non potrei più scrivere a nessuno! (lockin).

Invece, da quando Internet è nata, da decenni, abbiamo avuto un sistema che consente a chiunque di costituirsi un proprio server che inter-opera con i server degli altri e quindi di mandare e ricevere posta elettronica in un sistema integralmente distribuito.

Ci si potrebbe chiedere: perché è nata la mail come sistema distribuito e non centralizzato? La risposta è nella sua origine. La mail è nata in ambiente universitario, per favorire gli scambi tra ricercatori e non per finalità di business. E lo stesso valeva anche per gli SMS rispetto all’ambiente chiuso di WhatsApp che ha avuto una crescita strepitosa grazie ad una accattivante esperienza utente (la cosiddetta user experience, elemento fondamentale nella diffusione di un servizio).

Gli SMS sono stati concepiti in un contesto di regole dei “vecchi” servizi di telecomunicazione che prevedevano nel loro DNA l’interoperabilità. Mail ed SMS sono la dimostrazione che la mancanza di interoperabilità nei servizi attuali non è dovuta un problema tecnico, ma ad una scelta, consentita dalla assenza, per i servizi su internet, di regole pro-competitive, che impongano l’interoperabilità.

Regole e politica (in un mondo dove cambia il rapporto di rilevanza tra dimensione immateriale e dimensione materiale)

Questa pro-competitività delle regole per le telecomunicazioni non è sempre esistita. Ad un certo punto la politica ha deciso di introdurle. Le regole della dimensione materiale si sono evolute in 10000 anni, da quando l’uomo è divenuto stanziale con l’avvio dell’agricoltura.

Nella dimensione immateriale i collegamenti permanenti ad Internet sono iniziati nel 2001 (una dozzina di anni) e, per i fornitori di servizi online, è stata prevista una apposita esenzione di responsabilità per gli intermediari ed un approccio regolamentare “leggero”. Dato il mutato rapporto di rilevanza tra dimensione immateriale e dimensione materiale delle nostre vite, data la pervasività di internet nelle nostre relazioni sociali, penso sia giunto il momento in cui dovremmo iniziare a porci alcune domande, a mio avviso fondamentali, come le seguenti:

  • Se un social network di diffusione generale è uno dei principali meccanismi di interazione di un ragazzo, la scelta se escluderlo o meno dalla piattaforma può essere lasciata all’esclusivo ed inappellabile giudizio dell’operatore privato che esercisce quella piattaforma?
  • Se uno strumento immateriale in regime di oligopolio o di monopolio è la principale forma di acquisizione di clienti di un operatore economico nella dimensione materiale, la sua esclusione o penalizzazione nell’interfaccia immateriale può essere lasciata all’esclusiva e inappellabile discrezionalità di un operatore privato? (A maggior ragione se questi, oltre a essere l’interfaccia utente immateriale, può orientare i consumatori traendo vantaggio diretto da un’attività materiale in concorrenza)

Oppure sarebbe preferibile invece prevedere che questi soggetti, più deboli rispetto al fornitore di servizi, godano di garanzie?

Di recente lo Stato di New York ha stabilito la illiceità di Lyft (un servizio simile ad UberPop che consente a chi ha bisogno di un passaggio in auto di ottenerlo da chi possiede un’auto ma non è titolare di licenza per il trasporto pubblico). In precedenza la città di New York aveva patteggiato con AirBnB una compensazione economica in quanto l’affitto diretto a chi cerca ospitalità da parte di chi possiede un appartamento senza licenza di affittacamere privava di gettito fiscale la città.

Ma chi ha l’onere di verificare ed assicurare, ad esempio, le condizioni igieniche e di sicurezza o
l’accessibilità per gli invalidi con queste nuove forme di intermediazione immateriale, che consentono l’aggregazione di offerta “atomica”, precedentemente impossibile da attuare nella dimensione materiale?

Potremmo decidere che sia socialmente desiderabile eliminare queste sovrastrutture di controllo e garanzia che abbiamo introdotto nei decenni passati, garantiti dal pubblico. Oppure che questi oneri siano da porre in carico a questi nuovi intermediari.

Il punto che desidero evidenziare è che, nella dimensione immateriale, ampiamente deregolamentata, estremamente veloce, caratterizzata da ritorni crescenti, che tende a monopoli o oligopoli globali, in pochi anni si sono create (e si stanno creando) posizioni di dominanza nella intermediazione di servizi della dimensione materiale senza garanzie e vincoli previsti per analoghi intermediari “precedenti” operanti nella dimensione materiale. Credo che la politica dovrebbe riflettere sull’argomento, con un approccio aperto ed inclusivo.

Le piattaforme: tutto ciò che vuoi, selezionato da noi

In questo scenario va considerata anche l’evoluzione del ruolo dei produttori di hardware. Tutti noi, quando pensiamo all’informatica, pensiamo a un mondo in cui scriviamo il software che vogliamo, come lo vogliamo, lo distribuiamo sui canali che scegliamo, lo diamo a chiunque lo desidera, con le condizioni economiche che decidiamo. Identico discorso per quanto riguarda i servizi.

Analogamente pensiamo a software che possiamo acquisire attraverso qualunque canale, da qualunque fornitore, alle condizioni economiche da lui determinate e lo installiamo (o disinstalliamo) su qualunque computer vogliamo. Come per Internet, anche in questo caso questa è una idea romantica.

Seppure questa sia infatti la realtà per computer tradizionali non è così per la maggior parte dei dispositivi che le persone usano per collegarsi ad Internet. La libertà di scelta ed installazione che l’informatica ha conosciuto sin dagli albori si è interrotta con l’introduzione dell’iPhone che ha limitato l’installazione di software a quello presente sull’App Store di Apple.

Certamente il catalogo dei prodotti software disponibili per iOS (il sistema operativo di iPhone e iPad) è sterminato, ma le applicazioni che non aderiscono agli standard di Apple non vi sono ammesse. Apple esercita un controllo su tutte le applicazioni che vi vengono installate (controllo che è più serrato laddove i trend delle installazioni indichino un possibile interesse da parte degli utenti); esercita una censura sui contenuti nelle applicazioni presente nello store; limita i prezzi possibili di vendita ad alcuni valori prestabiliti; non ultimo, trattiene una commissione del 30% sul prezzo di vendita (e trattandosi di distribuzione interamente immateriale, la esegue dalla nazione prescelta, con ovvi effetti fiscali). Non è possibile installare uno store alternativo, perché il programma store dovrebbe essere prima installato tramite l’App Store di Apple e le regole per consentire la pubblicazione di software sull’App Store di Apple impediscono di installare store alternativi. Non è possibile installare uno store alternativo in altro modo, perché la piattaforma iOS consente di installare solo attraverso l’App Store di Apple.

Per poter installare un software alternativo occorre rimuovere questa protezione tecnica tramite un procedimento molto complesso chiamato jailbreak (peraltro non sempre disponibile, come ad esempio sulla AppleTV3), procedimento vietato contrattualmente dalle licenze d’uso del sistema operativo iOS.

È successo che dei tribunali abbiano giudicato colpevoli di violazioni di norme di tutela della proprietà intellettuale alcuni utenti che hanno applicato un jailbreak al proprio dispositivo per consentirgli di installare il software di loro scelta.

Norme di tutela della proprietà intellettuale quale il diritto d’autore (nato per tutelare gli autori di prodotti culturali) vengono usate per assicurare la chiusura di un sistema, limitando le consuete libertà degli utenti, riducendo la competizione su una parte cruciale del software (gli store), riducendo i contenuti ed i programmi utilizzabili, forzando ad una intermediazione economica nella principale interfaccia utente (immateriale) della dimensione materiale: vuoi che questi contenuti/servizi siano accessibili? Deve venderli Apple.

La user experience nel controllo del mercato

Questa innovazione introdotta da Apple è stata successivamente mutuata da Amazon, Microsoft e Google (che peraltro ottiene questo effetto facendo leva sull’ergonomia, sulla semplicità di esperienza dell’utente più che sulla assoluta impossibilità tecnica).

Per lungo tempo era contrattualmente stabilito che qualunque prodotto/servizio a pagamento fruito su un dispositivo Apple, doveva essere venduto da Apple che tratteneva il 30% (più IVA in Lussemburgo). Ora la condizione è stata allentata prevedendo una clausola di tipo “Most Favoured Nation”, ovvero Apple consente di vendere anche su sistemi alternativi, ma a parità di prezzo deve essere presente anche nell’App Store. Se un utente desidera acquistare un manuale sul fisco del Sole 24 Ore, potrà farlo anche sul sito del Sole 24 Ore (dove questi paga circa un 2% di commissione alle carte di credito) ma dovrà essere presente allo stesso prezzo anche sull’App Store (dove il Sole paga ad Apple il 30%).

Cosa faranno gli utenti? Otterranno il prodotto tramite una procedura artatamente svantaggiosa (resa complicata per l’utente ma molto conveniente per il Sole) o lo acquisteranno sull App Store tramite una procedura semplicissima per l’utente (ma economicamente assai svantaggiosa per l’editore)?

Clausole di questo tipo sono presenti anche in altri settori, quale ad esempio quello turistico. Booking ed Expedia, gli oligopolisti delle prenotazioni alberghiere in Italia, richiedono che i prezzi riportati nella loro piattaforma siano i più bassi tra quelli praticati degli alberghi ed esigono tra il 20 ed il 30% di intermediazione. L’albergo che sgarra è punito con l’esclusione dal catalogo, ovvero con la perdita della maggioranza dei clienti.

Da abilitatori ad intermediari

Come detto sopra, un diritto che esisteva di fatto quale quello di installare qualunque software, non oggetto di regolamentazione, è stato sottratto agli utenti e usato per consolidare, in un tempo assai breve, delle posizioni oligopolistiche nella dimensione immateriale che è la principale interfaccia utente di scambi economici e sociali della dimensione materiale.

I produttori di hardware, da abilitatori, hanno beneficiato di una mancanza di regolamentazione pro-competitiva e pro-utente per divenire rapidissimamente intermediari. Da lì tutto deve passare e loro sono diventati i gatekeeper immateriali della dimensione materiale; coloro che decidono quali servizi e applicazioni favorire, sfavorire o inibire.

L’attuale, rilevantissimo, dibattito sulla perdita di gettito fiscale da parte dello stato per effetto dell’erogazione dall’estero di beni e servizi digitali in Italia da parte dei grandi player multinazionali, è solo un epifenomeno di una trasformazione in atto più radicale.

Il dito è la perdita di gettito. La luna è la sostituzione di intermediari locali operanti nella dimensione materiale con intermediari multinazionali operanti nella dimensione immateriale, che impongono le loro condizioni.

Consentire gatekeeper nella dimensione immateriale produce come esternalità la perdita di governo di larga parte della dimensione materiale, di cui la perdita di fiscalità è solo un aspetto, non il più rilevante. Un punto che ritengo meriti una profonda riflessione.

L’invidia delle telco

Gli operatori di telecomunicazioni sono i grandi sconfitti in questa profonda trasformazione: sognavano di diventare degli intermediari ma la regolamentazione a tutela del sistema dei pagamenti bancari gli ha precluso di diventare gli intermediari di pagamento e la regolamentazione in materia di dati personali gli ha precluso di sfruttare la conoscenza degli utenti (rete sociale, geografia) per diventare intermediari di marketing. Il tutto mentre la regolamentazione pro-competitiva e pro-utente scatenava la concorrenza nel core business abbassando loro i margini. Non è un caso che adesso chiedano insistentemente alla politica e ai regolatori di poter intervenire sull’unica risorsa che gli rimane, i flussi di traffico nelle loro linee, per cercare di riposizionarsi come intermediari anziché come abilitatori, esigendo pedaggi differenziati ai fornitori di servizi che se li possono permettere. Vorrebbero divenire anche loro gatekeeper, custodi dell’accesso a Internet perché è da quel casello che si controlla la presenza nella dimensione immateriale, l’interfaccia utente della dimensione materiale.

Personalmente ritengo che non abbiamo bisogno di nuovi gatekeeper ma di meno. E se c’è una direzione in cui orientare la riflessione è sugli oligopoli di piattaforma ed applicativi. Non sul ridurre quel poco di regole che ci consentono in Europa di avere una rete fissa generalmente neutrale.

Antitrust (ex post) o regole di garanzia ex ante?

In tutti i casi descritti in precedenza esistono gli strumenti giuridici per intervenire nella forma di provvedimenti Antitrust. Ma questi provvedimenti richiedono molti anni e, come ho sottolineato più volte, queste posizioni dominanti sono state costruite in tempi assai rapidi, molto inferiori a quelli in cui la giustizia reagisce.

Una notevole eccezione, per la sua tempestività, fu il coraggioso provvedimento dell’allora Commissario UE Mario Monti che impose a Microsoft di ospitare software alternativi perché ritenne che la fornitura di software precaricato con ogni copia di Windows avrebbe distorto il mercato delle applicazioni. In quel caso la distorsione era limitata alla economia della dimensione immateriale.

Secondo me, qui siamo molto oltre quei comportamenti, e con effetti molto più profondi, che riguardano l’economia della dimensione materiale, non solo quella della dimensione immateriale, perché oggi, a differenza di allora, con il collegamento permanente alla rete (always on), la dimensione immateriale è l’interfaccia utente della dimensione materiale.

Come detto, ritengo che dovremmo auspicare la presenza di meno gatekeeper, di più mercato e quindi sarebbero auspicabili provvedimenti che sancissero diritti dei consumatori e degli operatori economici ex ante. Non ex post, quando il latte è versato ed intervenire è più difficile.

Qualcuno potrà pensare che i buoi ormai sono fuggiti dalla stalla, che non si può tornare indietro e che non vi sia nulla di fattibile. Ma oltre al già citato caso contro l’allora potentissima Microsoft, ricordo che anche l’allora quasi onnipotente AT&T decise di suddividersi per effetto della possibilità di un intervento antitrust che, giova ricordarlo, fu paventato non tanto a causa di condotte abusive ma per il solo fatto che la dimensione eccessiva non era ritenuta socialmente desiderabile.

Credo che a livello europeo una riflessione si imponga. E si decida se accettare lo status quo anche per il futuro oppure intervenire, magari in modo creativo.

Stefano Quintarelli

Imprenditore, manager infobulimico, attento al rapporto internet-società; sempre curioso! http:// blog.quintarelli.it