“Common Ground”, La 13° Mostra Internazionale d’Architettura di Venezia.

Common ground; common places; common people; common sense, common tradition…

Mettere in comune saperi, conoscenze, esperienze, storie e luoghi come antidoto alla crisi dell’architettura nella società contemporanea, o, in alternativa, come suggerimento al ruolo, civile e figurativo, che l’architettura potrebbe avere per contribuire all’uscita dalla profonda metamorfosi che sta coinvolgendo noi tutti, soprattutto nel mondo occidentale.

Questa potrebbe essere una delle possibili chiavi interpretative della 13° edizione della Mostra Internazionale d’Architettura della Biennale di Venezia, curata dall’architetto inglese David Chipperfield, che si sta aprendo in questi giorni fino alla fine di novembre.

La mostra veneziana è sicuramente l’evento culturale legato all’architettura più importante a livello internazionale e, ogni volta che ci si porta verso i Giardini e le Corderie della Biennale monta la curiosità di vedere cosa potrebbe spostare i nostri punti di vista, che lavoro o ricerca poco nota abbiano la forza di illuminarci in una fase mediamente stanca e poco interessante per la cultura architettonica contemporanea.

La Biennale ha, ancora, una responsabilità grandissima rispetto alla comprensione attuale dello Stato dell’Arte e dovrebbe avere sempre l’ambizione di spostare l’asticella, di spiazzare in maniera inaspettata e provocatoria, trasportandoci in altri paesaggi del sapere e dell’immaginario.

Ma ogni biennio che passa sembra che l’impresa sia sempre più difficile data la vastità e complessità dei fenomeni che viviamo, e la crisi profonda, disciplinare che il mondo dell’architettura sta attraversando ormai da qualche anno.

In ogni edizione aspettiamo, forse sbagliando, l’intuizione salvifica, lo scarto illuminante, e, troppo spesso ci ritroviamo a registrare semplicemente lo stato dei lavori in corso filtrati dal gusto e dal punto di vista del suo nuovo curatore.

Perché sullo sfondo rimane drammaticamente uno stato di crisi (sociale, culturale ed economica) con cui si confronta l’architettura oggi e che pone urgentemente la questione del ruolo sociale dell’architetto, e la sua definitiva discesa dal piedistallo dopo anni fastidiosi di starlettismo spesso inconsistente.

Molto passa dalla scelta del tema di fondo, che diventa immediatamente logo pronto al consumo mediatico, senza che spesso ci sia dietro quella densità concettuale capace anche di dargli sostanza.

E la scelta di David Chipperfield d’intitolare la XIII edizione della Biennale Architettura “Common ground” si confronta coerentemente con questo problema.

Il tema è universale e insieme ambiguo, apre a tutte le complessità e letture possibili, con la capacità di accogliere interpretazioni multiple non sempre  necessariamente in dialogo tra di loro.

L’idea di fondo, più volte dichiarata, è quella di guardare all’architettura come a un processo complesso e partecipato, corale e attento alle differenze, in cui soprattutto provare a ridurre il grado d’individualismo “artistico” dell’autore per una pratica più aperta e consapevole del proprio ruolo collettivo.

Ma, insieme, l’altro grado del “common ground” è quello delle radici comuni, del rapporto con la Storia e le tradizioni, a dimostrazione di una forte attenzione per un tema che ha sempre attraversato ossessivamente il lavoro di Chipperfield.

Questi i punti di partenza da cui sono partiti tutti gli autori invitati e i diversi padiglioni nazionali e con cui noi visitatori ci stiamo confrontando.

La scelta è quella di una regia aperta, accompagnata da un controllo e una qualità diffusa dei materiali che è tipica del perfezionismo con cui è abituato ad operare l’architetto inglese.

A questo si affianca la sensazione che questa sia veramente una Biennale da tempo di crisi, con una salutare riduzione generalizzata degli eccessi e delle sbrodolature individualistiche, accompagnate da allestimenti secchi, equilibrati nell’uso dei materiali e con un uso limitato e consapevole delle tecnologie.

Un altro elemento che sembra essersi notevolmente ridotto è il ricorso alla riflessione sulla città in termini complessivi, con un evidente ritorno al corpo dell’architettura, alla sua scala e alle relazioni minime e complesse che riesce a instaurare con le persone. Si tratta di un processo cominciato con la precedente edizione curata da Kazuio Sejima, che in questa mostra ne esce ulteriormente rafforzato.

Oltre a questo, e a differenza dell’edizione del 2010, sembra mancare la componente del dubbio, di quella inquietudine incerta e spesso poetica che ha la capacità di attraversare il lavoro di quegli architetti che vedono i processi creativi come un campo aperto in cui è consentito anche perdersi.

Invece questa edizione, e la scelta dei loro autori, sembra lasciare meno spazio alle nebbie in cui avventurarsi, per scelte di campo più nette, spesso autobiografiche e poco disposte a mettersi in discussione. Si tratta del ritratto di almeno due generazioni di autori che hanno vissuto e compiuto la fine del modernismo a cavallo dei due secoli, e che si trovano con la grande responsabilità di traghettare l’architettura verso nuove direzioni, spesso confrontandosi con i limiti culturali degli strumenti tradizionali e con un mondo che sta rapidamente cambiando.

E partendo dal tema lanciato da Chipperfield possiamo riconoscere almeno due, differenti modalità di risposta che si leggono tra gli interventi all’ex padiglione Italia e alle Corderie: “common ground” come pratica sociale e politica condivisa con le diverse comunità nella costruzione di nuovi spazi pubblici e abitativi.

Si tratta forse dell’interpretazione minoritaria nella mostra, ma con alcuni esempi interessanti come per il lavoro di Alejandro Aravena in Cile e Messico, la pratica libertaria ad Almere in Olanda di MVRDV con Why Factory, le esperienze francesi di Atelier d’Urbanism Autogérée, il “fiore” solare a basso costo disegnato dall’artista Olafur Eliasson, la bella costruzione indiana di Anupama Kanduo, il padiglione giapponese per la ricostruzione post-tsunami curata da Toyo Ito e quello americano con il coinvolgimento di più di un centinaio di associazioni e studi che operano nella pratica di trasformazione micro urbana.

La seconda e più massiccia interpretazione del tema guarda invece “common ground” come spazio di condivisione di un tema o di alcune ossessioni linguistiche tra più autori che si riconoscono in un filone culturale o, semplicemente, in un percorso comune.

E se questa interpretazione è accompagnata, soprattutto nell’ex Padiglione Italia, da alcune riflessioni molto sofisticate come per la coppia Grafton architects ed Eduardo Mendes da Rocha, il lavoro dell’artista Thomas Demand in dialogo con le folgoranti immagini di Vhutemas dal CCA di Montreal, oppure Diener and Diener che accompagnano le bellissime fotografie dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico, l’interpretazione di Toshiko Mori sull’architettura americana del secondo dopo guerra, o il lavoro corale dello studio inglese Caruso St. John, mentre assai meno convincente appare il lavoro su Campo Marzio di Piranesi del trio Eisenman-Aureli-Knipis per uno sguardo che appare sterile e fuori tempo massimo.

Lo stesso approccio portato negli allestimenti dell’Arsenale si risolve, invece, in una curiosa moltiplicazione di tavoli (verticali od orizzontali che siano), in cui il tema della condivisione vive di multipli in cui differenti autori come San Rocco, Baukhu, Valerio Olgiati, O’Donnel & Tuomey e Cino Zucchi chiamano a raccolta altri progettisti, o personali ossessioni, nel tentativo di costruire nuovi paesaggi di esperienza e condivisione che giustifichino il proprio percorso culturale e linguistico.

Sullo sfondo si pone la questione delicata e ambigua del rapporto ancora non risolto nel mondo occidentale con la storia e le tradizioni con un evidente volontà rappresentata dai lavori di san Rocco e FAT architecture di riprendersi le storie in mano usandole come pasta viva e instabile per la propria ricerca d’autori. Mentre differenti sono i tre interventi degli olandesi Crimson (The banality of good, di Steve Parnell sulle riviste del dopo-guerra tra Italia e Inghilterra e di OMA (Architecture by Civil Servants) dedicata ai bravi architetti che, lavorando per diverse municipalità in Europa, hanno avuto la forza di costruire spazi urbani di grande intelligenza e qualità diffusa.

In tutti questi casi la storia diventa occasione per riflettere sul presente soprattutto in termini politici e ideologici ponendo questioni che sono solo sfiorate in questa edizione veneziana.

Ogni Biennale è un mondo ricco e complesso in cui è bello comunque perdersi e incontrare inaspettatamente materiali su cui riflettere e lavorare, e personalmente, oltre alle opere citate ho incrociato tre allestimenti che mi hanno emozionato: la tenda mobile di Petra Blaisse al padiglione olandese che ci mostra con grazia quanto uno spazio possa cambiare con un semplice gesto; il padiglione tedesco per l’estremo rigore e semplicità dei materiali esposti e il piccolo spazio del Barhrain disegnato dalla coppia italiana Librizzi e Cassani con Stefano Tropea per la capacità di smaterializzare i luoghi con l’invisibile traghettandoti in un mondo così lontano e difficile.

Credo non sia giusto aspettarsi Biennale risolutive, ma anche questa edizione ha aggiunto alcuni, sparsi materiali a quello sforzo collettivo e ancora confuso, di traghettare l’architettura in una nuova dimensione. Sta a noi sapere ascoltare, elaborare con originalità e donare agli altri perché diventi spazio abitato e vissuto.

 

 

 

 

 

 

Luca Molinari

Luca Molinari, storico e critico d’architettura, vive a Milano ma da qualche anno è professore ad Aversa presso la facoltà di architettura. Cura mostre ed eventi in Italia e fuori (Triennale Milano, Biennale Venezia, FMG Spazio e molto altro). Scrivere per lui è come progettare, e l’architettura è la sua magnifica ossessione. Dirige www.ymag.it sito indipendente di architettura e design