Com’è l’acqua oggi?

Dunque come li vorremmo questi social network? Com’è il Facebook ideale? Cosa vogliamo da Twitter o da Youtube? E cosa non ci garba di Google?
Davvero vorremmo eliminare dalle nostre piazze virtuali e mettere all’indice (rectius, de-indicizzare) ogni possibile illegalità, ogni oscenità, ogni offesa, ogni pensiero che appare (a chi?) disgustoso o anche solo cretino o disturbante? Pensiamo davvero di espungere il falso (in nome di quale verità?) dal web?
E soprattutto: davvero pensiamo di delegare questo compito a Facebook, a Google e ai loro salvifici algoritmi?
Perché il dibattito su fake news, sui discorsi d’odio, sui contenuti illeciti, e su tutte le bassezze che girano sul web poi, alla fine, sempre lì va a parare: le piattaforme americane, le avide tech company della Silicon Valley che fanno i soldi con i nostri dati, con le nostre vite e se ne fregano di ciò che veicolano e diffondono, protetti da una inaccettabile irresponsabilità.

Da mesi, con l’immancabile aiuto di giornali e televisioni in veste di autorevoli e affidabili media, la disinformazione e l’odio sono divenute, in rete, l’ennesima emergenza ineludibile che mina le menti dei cittadini e mette a rischio la democrazia.

In tutta Europa il pensiero più o meno esplicitato, con poche varianti da destra a sinistra, sembra esser così riassumibile:

  • siamo accerchiati da folte schiere di imbecilli a cui è stato improvvidamente dato diritto di parola (cit.Eco) ad opera delle subdole e voraci società commerciali americane;
  • siamo tutti ormai intrappolati nelle loro filter bubble di profilazione commerciale, anche sui beni informazionali e le pericolose camere dell’eco radicalizzano le idee e agevolano la circolazione delle fake news;
  • il popolo bue (una volta si sarebbe detto “della rete” ma ormai siam tutti lì) è indifeso e deve esser protetto con adeguati interventi legislativi a tutela della democrazia e del viver civile.

Le soluzioni proposte sono, manco a dirlo, schizofreniche: l’opera di “pulizia” sarà infatti affidata ai supposti carnefici.
Lo abbiamo già fatto con il copyright e con quel capolavoro del diritto all’oblio delegato a Google, e ora lo rifaremo con le fake news e con l’hate speech.
Facebook, Youtube, Twitter (che hanno già sottoscritto accordi con la UE) ed in generale i cosiddetti intermediari della comunicazione (tutti inevitabilmente made in US) diventeranno i soli guardiani dell’informazione e grazie ai loro algoritmi (ignoti ai più ma efficaci e soprattutto gratuiti) ogni nefandezza e ogni falsità sarà filtrata a monte e rimossa.
E’ il soluzionismo digitale a buon mercato, ché c’è un algoritmo nella Silicon Valley per risolvere quasi tutti i problemi del mondo: l’odio non sarà più visibile e l’imbecille rinsavirà sol perché bannato.
Il fatto poi che la soluzione consolidi la posizione già dominante delle tech company d’oltre oceano è un dettaglio in Europa irrilevante. Sono anni che ci inventiamo regole che hanno come unico effetto quello di deprimere le iniziative economiche sul web nel vecchio continente a vantaggio della Silicon Valley. Vorrà dire che, per compensare, alzeremo un po’ le tasse dei loro profitti.

Anche il ministro Lorenzin ci ha rassicurato “Ora con Google ripuliremo la rete dalle fake news”.

Tutto bene? Siamo sicuri che il problema siano le fake news e l’odio sul web?

Un tempo i social network erano gli UGC, gli User Generated Content, gli aggregatori dei contenuti generati dagli utenti; erano la rivoluzione che avrebbe consentito a tutti noi, con un semplice click, di dire la nostra, di diventare tutti finalmente partecipi del pensiero del mondo e di accedervi senza filtri. Per conseguire questo straordinario risultato era ovviamente necessario garantire alle piattaforme una sorta di irresponsabilità per i contenuti postati dagli utenti. Se Facebook o Youtube fossero responsabili della legalità o peggio della verità o della decenza di ogni contenuto postato (nel mondo?) avremmo solo dei nuovi ed insipidi canali multimediali gestiti da pessimi editori americani. Addio libero accesso al pensiero del mondo.

La cosa, più o meno e con mille sfumature, ha funzionato.
Oggi leggiamo, vediamo e prendiamo coscienza di ciò che c’è sempre stato: la propaganda e le fake news, l’ignoranza, lo sfottò e l’intolleranza verso il diverso, per sesso censo o razza. Tutta roba vecchia a cui i social han dato visibilità e di cui prima avevamo limitata contezza.

Nella filter bubble, noi, c’eravamo prima: una bolla assai più impermeabile e solida delle attuali create dalla profilazione che sono bolle granulari e più fragili. Ed era una bolla rassicurante, soprattutto per chi fino a ieri poteva sperare di governare l’informazione.

Grazie all’architettura dei social network il web ha spezzato la zona di (relativo) confort informativo in cui vivevamo in era pre-digitale, con giornali e televisione in broadcasting.

Mi viene in mente la storiella raccontata da David Foster Wallace dei due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta e nel salutarli chiede: ehi ragazzi com’è l’acqua oggi? e i due pesci si guardano stupiti e uno chiede all’altro: che cos’è l’acqua?

Beh, prima di internet noi eravamo i giovani pesci; eravamo immersi nella propaganda e nelle fake news e accerchiati dallo stesso numero di imbecilli di adesso, forse di più, ma non ne avevamo in massima parte contezza. Internet con i socialnetwork non è stata solo una rivoluzione ma una rivelazione. Nelle rivoluzioni il problema è ciò che potremmo o dovremmo fare, nella rivelazione il problema è capire ciò che si svela.
Oggi sappiamo che siamo in acqua, immersi nell’informazione: non agitiamoci e continuiamo a nuotare, con maggior consapevolezza, godendo del vantaggio di poter finalmente rispondere alla domanda com’è l’acqua oggi.
E se scopriamo che è torbida e inquinata, beh, l’unica cosa da non fare è svuotare la vasca.

Se smontiamo l’architettura dei social network e prevediamo responsabilità in capo ai gestori delle piattaforme, inevitabilmente svuotiamo la vasca, riduciamo il flusso informativo e ritorniamo in un’unica grande bolla.

Ho l’impressione che il problema che attanaglia i nostri governanti e chi fino a ieri gestiva l’informazione non siano le fake news o la disinformazione, ma l’opposto: il fatto che oggi una fake news ha vita breve e il debunking sia pressoché immediato. E non sottovaluto affatto la forza delle parole d’odio, ma se posso dire preferisco sapere l’esatto numero di imbecilli da cui sono attorniato, che così li evito e magari non commetto l’errore di mandarli in Parlamento.

Il giorno in cui da Facebook, Twitter e Youtube o dai risultati di Google sparirà ogni illegalità, ogni indecenza ogni supposta falsità avremo un problema davvero: di fake news e di democrazia.

Carlo Blengino

Avvocato penalista, affronta nelle aule giudiziarie il diritto delle nuove tecnologie, le questioni di copyright e di data protection. È fellow del NEXA Center for Internet & Society del Politecnico di Torino. @CBlengio su Twitter