Chi era – anche – don Luigi Maria Verzé

Quanto segue è un ritratto agiografico di Don Verzé. I più non lo leggeranno perché è troppo lungo, altri perché non hanno voglia di cambiare opinione o di mettere in dubbio la propria, mentre la maggioranza – penso io – perché in realtà non hanno nessuna opinione né interessa loro averne una: e tuttavia la esprimono. In ogni caso: se anche avessi scritto che Don Verzé era dio in terra, la cosa non bilancerebbe minimamente le castronerie che sono state scritte su di lui in questi giorni.

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C’è gente come Armando Torno (Corriere.it) che ha scritto la biografia di Don Verzé copiando testualmente da Wikipedia: neanche una virgola spostata. E ci sono poveracce come Antonella Mascali, sul Fatto Quotidiano, che nel giorno della morte di Don Verzé lo ha liquidato come un bancarottiere, un megalomane, uno «amico dell’ex capo del Sismi» col suo «ospedale tanto caro a Craxi, Berlusconi e Formigoni». Ora: il San Raffaele, una delle poche eccellenze italiane che dialoga con le grandi istituzioni mondiali – un polo di ricerca in cui sono curati migliaia di malati che giungono da ogni parte d’Italia – forse meritava biografi meno sbrigativi. Fa niente, cominciamo pure dalla fine e mettiamo subito a verbale che il San Raffaele non è più quello di una volta, e pure da un pezzo: da ben prima, cioè, dei casini finanziari che ora tralasciamo. Perché il San Raffaele, ora, è soltanto un ottimo ospedale lombardo come altri, in qualche caso anche peggiore: è infarcito di medici bravissimi o da prendere a pedate, come altrove, e i paramedici sono caritatevoli o subumani analfabeti, come altrove: e soprattutto come altrove – anzi di più – il San Raffaele è un posto in cui la musica e la salute cambiano se sei raccomandato o semplicemente se paghi, anzi se sei «solvente». Il dettaglio è che gli altri ospedali, prima del San Raffaele, non c’erano, non esistevano, non erano ospedali per come li intendiamo oggi, e per come il San Raffaele ha ridefinito che dovessero essere con effetto splendidamente trainante. Non ci crederete, ma è così.

Don Verzé poteva anche stare sulle palle, ma resta un uomo che nella sua lunghissima vita ha fatto più cose (buone) di quanto riuscirà la maggior parte di noi messi insieme, un uomo che per realizzarle ha combattuto la Chiesa e lo Stato, la destra e la sinistra, gli uomini e le donne, soprattutto la stupidità intesa come la più inguaribile delle malattie. Tanti cretini in questi giorni antepongono sempre le «ombre» ai suoi successi (quali ombre, in definitiva? I debiti?) e ignorano che gli ospedali italiani, prima di Don Verzé, letteralmente non esistevano nell’accezione moderna del termine: non come riferimenti per un ceto medio che non esisteva a sua volta, non come centri di ricerca e di studio, di previdenza e di assistenza sociale. Non è un modo di dire: non c’erano proprio, c’erano le cliniche dei baroni che si portavano appresso i malati come pacchi, c’erano le cliniche dei ricchi in mano quasi sempre a religiosi accomodanti, oppure, ecco, c’erano lazzaretti, i casermoni con camerate puzzolenti e file di cinquanta letti, lugubri cronicari con la cultura del dolore e della penitenza come unica e vetusta regola: Sergio Zavoli, su questo, ha fatto delle bellissime inchieste. Altro che diritti del malato, altro che rispetto sacrale dell’infermo e altre sciocchezze che Don Verzé, da noi, immaginò semplicemente per primo, questo per lo scandalo e per l’ostracismo di tutte le curie, del Vaticano, dell’italietta cattocomunista secondo la quale ciascuno doveva stare al posto suo, i preti in chiesa e i medici nelle cliniche tirate a lucido.

Nato il 14 marzo 1920, Luigi Maria Verzé era figlio dell’uomo più ricco di Iliasi, un paesino in provincia di Verona. Dopo la laurea in Lettere e Filosofia con Padre Gemelli, venne ordinato prete nel 1948. Entrò nella «congregazione dei poveri servi» e resterà sempre diviso tra il diventare medico o sacerdote, mestieri che immaginerà sempre in connubio. Collaborò con Don Giovanni Calabria (futuro santo) e divenne se stesso praticamente da subito, dandosi da fare secondo visioni decisamente personali. Fu il prediletto del cardinale Ildefonso Schuster (beatificato: è l’uomo che nel 1944 salvò la vita a Indro Montanelli) ma i favori curiali finirono praticamente lì. Don Verzé cominciò a inventarsi delle scuole di avviamento professionale per ragazzi di periferia (falegnameria, officina, stamperia e motoristica) e un centro di assistenza all’infanzia. Cominciò a pensare a delle case-albergo per anziani. Nel 1951 ottiene una parrocchia sul pratone di Cimiano, in zona Palmanova-Segrate, ed ecco sopraggiungere il pallino dell’ospedale. Ne aveva in mente uno di nuova concezione e cominciò a studiarci sopra: andò in Olanda e in Belgio per vedere i reparti di dialisi, in Svizzera per le sale operatorie, in Germania per i servizi sociali già all’avanguardia. Il suo esempio negativo, per contro, in quel periodo è il Cottolengo di Torino. Don Verzé era già un tipo sui generis: aveva la patente, guidava una Fiat 1100 bianca (col cambio moltiplicatore) e vantava amici disparati come il futuro sindaco socialdemocratico Virgilio Ferrari e poi Ferdinando Innocenti, il creatore della Lambretta. Si muoveva, parlava, progettava. Aveva un’altra idea eretica: creare una facoltà cattolica di medicina ma senza la scritta «cattolica» sul frontone, così da evitare contrapposizioni e promuovere un cattolicesimo più laico. Raccolse subito entusiasmi ma anche dubbi e dinieghi, soprattutto per la sua idea di rivoluzione ospedaliera. Dati i tempi e la mentalità, ce n’era già abbastanza perché le preoccupazioni della Curia diventassero ufficiali. Nel 1957 l’insofferenza porporale era già palpabile. Venne convocato il 20 dicembre e gli dissero chiaro e tondo che se non si fosse calmato gli avrebbero tolto l’incarico alla parrocchia di Cimiano oltreché i laboratori e tutto il resto. Lui si difese – è tutto agli atti – e srotolò l’ambizioso progetto per un grande ospedale universitario, come faranno negli USA negli anni Ottanta: il piano era già avanti – disse – e aveva la parola del sindaco oltre a idee innovative per i reparti: l’idea era di mettere a disposizione di tutti le terapie più moderne in camere con al massimo due o tre letti. Accennò anche a come trovare i soldi, a piani di marketing, insomma parlava un’altra lingua. I prelati lo guardarono come quello che in parte era: un pazzo. La Curia lo esonerò. Decretò che doveva andarsene da Milano, destinazione Verona.

Era solo una battaglia in una guerra che non sarebbe finita mai, o che forse è finita in questi giorni. Decise di rimanere a Milano, anche senza una parrocchia. Prese a dormire dalla sorella, in viale Romagna. Non aveva un posto dove dir messa, ma il professor Emilio Trabucchi, un amico, gli mise a disposizione la cappella dell’istituto di farmacologia. Nella sua ex parrocchia di Cimiano, intanto, proseguiva clandestinamente la costruzione di laboratori attrezzati per seicento ragazzi e cento bambini, compreso un asilo. Ma era pur sempre un prete scardinato, la cosa pesava. Nel 1958 bussò all’arcivescovo Giovanni Maria Montini, il futuro papa: fu la prima di varie visite inutili. La sua idea di ospedale non interessava: doveva andarsene a basta. Ma niente da fare: sarebbe rimasto a Milano come apolide della Chiesa: per cavarsela insegnò religione in un paio di scuole pubbliche e strappò l’incarico di cappellano alla nuova clinica privata La Madonnina. Si mosse, imparò, studiò, parlò del suo progetto con medici e specialisti. Venne coinvolto nella realizzazione degli asili della Diocesi, si inzaccherò gli stivali nei cantieri, fece nuove amicizie e si comprò un’eretica Mercedes a nafta: quasi come comprarsi, fatte le proporzioni, un bell’aereo Challenger 604. Fatto sta che la voce delle sue idee pazzoidi continuava a girare e la sua intraprendenza e popolarità parvero eccessive anche per un apolide. La Curia non perdonava. Gli proibì di celebrare messa anche nella cappella di farmacologia, ma l’amico Trabucchi se ne inventò un’altra e lo mandò dalle suore domenicane che assistevano gli ammalati della clinica Città di Milano: si sarebbe occupato di amministrare la clinica più un paio di istituti nel lecchese e nel bergamasco.

Non si fermava mai. Sopra Como, a San Fermo della Battaglia, vide un istituto per bambini abbandonati: era fatiscente, l’umidità grondava dai muri, una pena. Si fece dare 300 milioni da un paio di industriali e accese un mutuo alla Bnl. Fece e farà sempre così: richieste assillanti, assedi dai riccastri vari, finanziamenti, mutui, faremo e vedremo. Come a Milano in via Gallarate: affittò una casa per anziani, abolì gli stanzoni e previde dei posti letto anche per i familiari, e all’epoca era una rivoluzione. Ebbe così successo che arrivarono da tutt’Italia ex insegnanti, magistrati, professionisti: l’arcivescovo Montini fu praticamente costretto a concedere la benedizione. Succedeva il 5 luglio 1960. Quando poi le case di riposo divennero due (250 anziani ospiti) il Vaticano lo guardò sempre più in cagnesco. Troppo dinamico, troppo maneggione, troppa confidenza col denaro. Dal convento che Don Verzé amministrava, quello delle suore domenicane, partirono delle lettere anonime dirette all’Arcivescovado: roba pepata, Dagospia ci sarebbe impazzito.

Quando si ripresentò dall’arcivescovo Montini nel tentativo di chiarire, il clima era immaginabile. L’Arcivescovo – lo racconta Giorgio Gandola in «Pelle per pelle», Mondadori 2004 – gli pose cinque solenni «quaestiones» così formulate: è vero che era entrato nel reparto riservato alle suore? E’ vero che andava in auto con donne varie? E che rincasava tardi sempre in compagnia di donne? E che insomma, tra le suore aveva portato turbamento? Che in pratica si era intromesso nell’andamento spirituale della congregazione?

Le accuse restarono anonime e ogni confronto fu negato: «L’odio curiale», disse testualmente Don Verzé a Giorgio Gandola, «è anche peggiore di quello delle donne». La Curia gli tolse il poco che gli era rimasto: l’incarico di cappellano alla clinica La Madonnina, la supervisione degli asili della Diocesi e il contributo per l’orfanotrofio di San Fermo. Gli fece persino annullare il mutuo della Cariplo che il Comune di Milano aveva garantito in vista della costruzione del mitico ospedale. Montini, secondo Verzé, disse così: «A Milano, chiunque metta in piedi una pompa di benzina cava soldi facilmente. Sono cose buone, ma sono laiche, come laica è l’opera che lei sta realizzando. Torni a Verona a fare il buon prete». Andò in un altro modo.

Sicché all’inizio degli anni Sessanta Don Verzé era un uomo triste, o avrebbe dovuto. Aveva poco più di 40 anni, possedeva solo un cane – un dalmata – ed era un prete apolide che non sarebbe mai stato incardinato: non a Milano, dove la Curia gli aveva tolto quel poco che gli era rimasto. Aveva perso l’incarico di cappellano alla clinica La Madonnina, la supervisione degli asili della Diocesi, persino il contributo per l’orfanotrofio di San Fermo. In pratica aveva perso quello che aveva fatto e c’era un’ipoteca su quello che avrebbe voluto fare, perché il porporato stava cercando di annullare il mutuo della Cariplo che il Comune aveva garantito per costruire il San Raffaele, quell’ospedale umano e scientifico (forse fantascientifico) che la Chiesa per qualche ragione considerava eresia. Don Verzé non mollò. Riuscì, non si sa come, a convincere il direttore del Corriere della Sera Mario Missiroli a scrivere un articolo a favore del progetto. Riuscì pure, non si sa come, a far riconoscere la sua associazione – quella per l’edificazione dell’ospedale – come persona giuridica: il capo dello Stato Giovanni Gronchi, il 19 novembre 1962, mise la sua firma dopo estenuanti passaggi. Lo Stato, in pratica, aveva sorpassato la Chiesa nel recepire l’idea di un centro ospedaliero di ricerca e previdenza ideato da un prete: altro paradosso che il Vaticano non avrebbe mandato giù. Nasceva così l’Associazione Monte Tabor, a cui sarà legato per sempre il nome del San Raffaele.

Però la Curia, intanto, lo processava. Lo convocarono a Roma e gli chiesero conto delle sue presunte spensieratezze con alcune suore domenicane e delle questioni economiche dell’ospedale. Anche il dialogo che ne seguì è riportato in «Pelle per pelle», Mondadori 2004: «Mi dissero: deve solo temere che la sua opera faccia fallimento. Se fallisce, il giorno prima si compri una pistola e si spari, oppure si butti dalla finestra del quarto piano».

Intanto l’arcivescovo Giovanni Maria Montini, così ostile a Don Verzé, si avviava a diventare Papa: ma non per questo la situazione milanese migliorava, anzi. Il nuovo arcivescovo, Giovanni Colombo, comminò a Don Verzé la proibizione di esercitare il Sacro ministero, cioè la messa. Era il 1964 ed era l’atto finale. L’edificazione di quell’ospedale impossibile divenne un miraggio esistenziale, di lì in poi non si fermò mai più.

Sul rapporto tra la Chiesa e Don Verzé non è più il caso di soffermarsi. Il sacerdote, visto con gli occhi di oggi, fu colpevole dei suoi meriti e delle sue opere: ciò che la stessa Chiesa, nel tempo, gli ha riconosciuto anche formalmente. A incrinare la saldatura contribuiranno posizioni sin troppo laiche: Don Verzé non voleva sacerdoti nel consigli di amministrazione, pensava che i vescovi andassero eletti per acclamazione, era favorevole al sacerdozio femminile, al sacramento dato ai divorziati e alla procreazione assistita. Non si nascose mai, e nel 2006 rivelerà di aver aiutato un amico malato, un medico, a morire: «Quando a chiederlo è chi vive grazie alle macchine, allora non è eutanasia, è un atto d’amore». Il rapporto con le gerarchie rimarrà altalenante. Il cardinale Carlo Maria Martini volle conoscerlo per le stesse ragioni per cui la curia l’aveva sempre osteggiato: le sue qualità imprenditoriali. Scriveranno un libricino insieme, e, il 20 marzo del 2010, per i novant’anni di Don Verzé, il Cardinale non mancherà.

Ma allora, in quegli anni Sessanta, l’ospedale era ancora da fare. Fu durissima. Riuscì a sbloccare nuovamente il finanziamento della Cariplo che la Curia aveva cercato di fermare, e, a quel punto, mancava soltanto il terreno. Si parlava da anni di un appezzamento in via Novara, ma in consiglio comunale fu battaglia: l’opposizione al progetto era firmata da Pietro Bucalossi, futuro ministro socialdemocratico (poi repubblicano) ma soprattutto chirurgo e direttore dell’Istituto dei tumori. Gli si attribuisce questa frase: «Se Don Verzé realizzasse la sua idea, sarebbe la fine dei nostri ospedali». Fu minacciata la crisi di giunta e la pratica rimase congelata. Al che Don Verzé si ruppe le scatole: trovò un altro terreno in zona Segrate, tutto risaie e acquitrini, e se lo fece andare bene. Costava 120 milioni. Ne trovò dieci, per cominciare.
Ma nell’attesa c’era da forgiare un personale nuovo, diverso. Don Verzé s’inventò l’Associazione Sigilli, formata ufficialmente «da persone che dedicano l’intera vita per il compimento della missione dell’Opera». Li crebbe a partire dal 1964: niente suore – delle quali non si fidava più, date le esperienze precedenti – ma piuttosto uomini e donne che facessero voto di celibato: una specie di scuola ufficiali per creare dei quadri aziendali che sposassero umanità e professionalità. Gente così, in giro, semplicemente non ce n’era.

Arrivarono i primi soldi: li garantì il ministro della Sanità Lorenzo Mariotti, un socialista che procurò un mutuo agevolato di 600 milioni. Così, nella seconda metà degli anni `60, iniziarono i lavori. Il 24 ottobre 1969 i sindaci di Milano e di Segrate posero la prima pietra: e alla cerimonia non mancarono politici, imprenditori, operai e qualche professore. Mancava completamente la Curia. Il progetto prevedeva un corpo centrale con due ali a parentesi come l’arcangelo Gabriele (una pacchianata, come tante che piacevano al Don) mentre la stampa si mostrava mediamente ostile e non mancavano battute su un ospedale – dicevano – che sarebbe stato gestito da ragazze in minigonna. I primi 600 milioni finirono presto – l’opera costerà più di un miliardo – e tutto si complicava perché i poteri di spesa sanitaria, dal 1970, passarono alla Regione. Nello stesso periodo, non bastasse, un temporale abbattè la gru del cantiere che si schiantò contro l’ospedale. Lo scenario era spettrale, anche perché in zona non c’erano strade di collegamento per la città o per il vicino aeroporto di Linate.

Ecco, Linate: è per la faccenda delle rotte aeree che Don Verzé e Berlusconi si conobbero. Il sacerdote aveva acquistato un terreno di 46mila metri quadri ma aveva già in mente di ampliarsi nella zona in cui Berlusconi progettava Milano 2; entrambi, in pratica, volevano lo stesso terreno con la differenza che Berlusconi pagava cash. Litigarono, si misero d’accordo in qualche modo. Gli aerei passavano sopra l’area e davano fastidio a entrambi, cosicché, insieme, inoltrarono una petizione al Ministro dei Trasporti e il risultato fu che le rotte furono deviate sopra i comuni limitrofi, ovviamente furibondi; la guerricciola si trascinerà per anni – con varie proteste e comitati antirumore – ma due volpi come Berlusconi e Don Verzé la ebbero vinta facilmente, chissà con quali trucchi. Un altro problema fu risolto da Berlusconi quando la magistratura scoprì un’illegalità nel cantiere del secondo lotto: le fognature non si attaccavano alla rete comunale (che sino a lì non arrivava) ma risolse tutto il Cavaliere dopo un anno e mezzo di stop dei lavori: consentì un allacciamento ai canali di Milano 2.

L’ultimazione del primo lotto resta permeata di quel romanticismo che avvolge ogni opera un po’ disperata e improvvisata. Occorre immaginarsi il riscaldamento che ancora non c’era, le stufette a gas, i duecento letti sistemati a uno a uno, donnine che cucivano le tende, medici che imbiancavano. Da immaginare l’emozione per il primo malato, il 31 ottobre 1971: il poveretto entrò in una struttura in cui certo, mancavano ancora attrezzature e laboratori, ma per i tempi offriva un impatto completamente nuovo: le camere uguali per tutti – all’apparenza lussuose solo perché magari avevano gli asciugamani in lino – e poi le tapparelle elettriche, le pareti colorate, pulizia, umanità e gentilezza mai viste, non ultima una retta omnicomprensiva che allora era una novità assoluta.

Questo mentre Don Verzé, per tirare avanti, continuava a fare ciò che non gli sarà mai perdonato: cercare soldi, sbattersi per scovare convenzioni. Andò da Pirelli, Montedison, Sip, commercianti, artigiani, Inam. Dal 1972 al 1977 il San Raffaele avrebbe ricoverato tremila persone l’anno con duecento medici e paramedici a contratto. Come? Coi soldi.
Facciamola breve: il San Raffaele diverrà un’eccellenza italiana e mondiale nel giro di pochi anni. Il professor Guido Pozza sarà protagonista di importantissimi progressi nella ricerca sul diabete e nel 1983 ci sarà il primo trapianto di rene e pancreas. Sarà l’ospedale che ospiterà la prima radiodiagnostica basata sulla tac, un dipartimento di medicina nucleare di livello planetario, la risonanza magnetica, la pet, la gamma unit, una macchina per la tomoterapia in grado di curare alcuni tumori con una sola seduta (costava 12 milioni di dollari) e poi il macchinario svedese Gamma Knife (sei miliardi) che consentiva di fare le radioterapie al cervello senza aprire la calotta cranica. Le domande su dove prendesse i soldi Don Verzé, ai tempi, appartenevano alla stessa genia di chi in questi giorni guarda a lui come a una propaggine del berlusconismo. Ma gli Agnelli, per costruire l’istituto dei tumori di Torino, mandarono i propri tecnici a copiare il San Raffaele, primo ospedale italiano a informatizzarsi con un Ibm 9000 che in tutta Europa vantava soltanto un gemello. Il figlio del console sovietico, a cui a Mosca volevano amputare una gamba per il diabete, decise di ricoverarsi al San Raffaele e infatti la gamba ce l’ha ancora.

Poi verranno i dipartimenti di biologia e biotecnologia (Dibit) in cui oggi fanno ricerca aziende come Bayer, Roche, Schering, Plough, Boeringer e Bracco. Poi verrà inaugurato il Dibit 2, che ospiterà i laboratori per la genomica. Alla fine degli anni Novanta il San Raffaele conteggerà tremila utenze ambulatoriali ogni giorno e 40mila ricoverati annui, questo con 1100 posti letto e 3000 dipendenti. Chi sparge letame su chi ha inventato tutto questo dal nulla, lavorandoci sopra per sessant’anni, è possibile che abbia avuto un amico o un parente curati al San Raffaele. E’ statistico.

Poi ci sono le responsabilità penali di Don Luigi Maria Verzé e la sua cosiddetta «megalomania»: ciò che l’Italia giornalistica ha scritto esclusivamente per giorni.
Non c’è dubbio, Don Verzé ha costruito il miracolo del San Raffaele anche grazie ad azzardi finanziari e a disinvolture amministrative: roba peraltro monitorata maniacalmente dalla magistratura. Di base si tratta di abusi edilizi anche notevoli (per cubatura) ma innocui agli effetti, senza i quali il San Raffaele non esisterebbe: non in questo Paese. Si tratta, poi, di una «tentata corruzione» (un anno e quattro mesi) in relazione a una convenzione con l’università Statale di Milano, roba vecchia. Torna buona la battuta di Don Milani già riesumata da Massimo Cacciari: «Se uno alla fine della vita ha le mani completamente pulite, vuol dire che le ha tenute in tasca». Tra costoro ci sono probabilmente tanti necrofori che ora mettono in parallelo l’impero mondiale del San Raffaele con una condanna a Don Verzé del 1997 (prescritta in Cassazione) per esser stato al corrente della provenienza illecita di due quadri del Cinquecento: francamente, chi se ne frega. Restiamo a cose più serie, e rinunciamo, nonostante la tentazione, a precisare alcune gravi inesattezze e omissioni riportate da Marco Travaglio su Il Fatto.

La prima accusa a Don Verzé la rivolse un assessore lombardo della sinistra democristiana, Vittorio Rivolta, uno che pur di dargli fastidio gli progettò un altro ospedale praticamente davanti al suo, in viale Palmanova. Le varie accuse di corruzione e abuso edilizio finirono con una condanna ribaltata in appello. I due fecero pace davanti a un risotto da Savini.

Nel novembre 1987 i Carabinieri misero i sigilli a un cantiere del San Raffaele per denuncia del comune di Segrate. Il Tar però ribaltò tutto: «Le necessità per il diritto sulla salute prevalgono sui diritti dei privati e anche il piano regolatore deve adeguarsi».
Nell’ottobre 1993 giunse un avviso di garanzia per un abuso edilizio legato alla costruzione dell’accettazione dell’ospedale, che peraltro risultava condonata e comunque non dava fastidio a nessuno: serviva a far stare al coperto chi consegnava i documenti di ricovero. Il cantiere si fermò e Don Verzé fece appendere un cartello con relative scuse «per i disagi causati dall’inauspicato blocco della magistratura». L’accusa, nella requisitoria, disse ridicolmente che l’opera era stata realizzata per «l’arricchimento personale» del sacerdote. Primo grado: cinque mesi di reclusione e 45 milioni di multa; in Appello, nonostante Don Verzé se ne fosse fregato e avesse continuato i lavori a dispetto della prima sentenza, la pena fu ridotta a dieci giorni e a 600 mila lire. Di lì in poi, Don Verzé affiderà ogni delega operativa al socio Mario Cal, vicepresidente della Fondazione. La Cassazione ordinerà l’abbattimento dell’accettazione, e all’apertura dell’Anno giudiziario si proclamerà: «Abbiamo fatto demolire l’accettazione del San Raffaele».

Nell’aprile 1994 arrestarono il professor Guido Pozza, quello delle scoperte sul diabete, sovrintendente scientifico del San Raffaele dal 1972: corruzione, truffa ai danni dello Stato e associazione per delinquere. Era accusato di aver avallato l’inserimento di un farmaco nel prontuario come membro del Cuf, la commissione ministeriale sui farmaci. Quattordici giorni di galera salvo accorgersi che il professore, ai tempi, non era membro del Cuf: prosciolto con formula piena.

Nel novembre 1994, durante la presentazione del Telethon Institute of genetics and medicine – presenti Gianni Agnelli e Renato Dulbecco e il premier Silvio Berlusconi – ecco la notizia di vari avvisi di garanzia per un concorso in corruzione per una tangente da 30 milioni versata agli ispettori delle tasse. Era lo stesso periodo del mandato di comparizione recapitato a Berlusconi a Napoli, firmato dallo stesso pm, Antonio Di Pietro, personaggio che due mesi dopo non disdegnerà di pranzare con Don Verzè per discutere di politica. Gli arrestati, tra i quali il vicepresidente Mario Cal, ammisero la pratica invero diffusa di addomesticare le ispezioni contabili con mazzette varie.

Nel giugno 1997 la guardia di finanza sequestrò 36mila cartelle cliniche per un’inchiesta sui rimborsi fantasma della regione Lombardia: tre camion di roba. Risultavano esami mai eseguiti e ricoveri al posto di prestazioni ambulatoriali. Le difficoltà per poter proseguire le terapie sui pazienti furono spaventose. L’inchiesta fece il paio con un’altra del febbraio 1999 in cui cinque primari San Raffaele finirono agli arresti domiciliari: gente di chiara fama come Salvatore Smirne e Luigi Ferini Strambi (docenti in neurologia) e Antonio Salvato (preside di odontoiatria) e Rosario Brancato (luminare in oculistica) ed Eugenio Villa (oncologia) con l’imbarazzante difficoltà dei magistrati nel dover sindacare le necessità o meno dei ricoveri. Ci fu un certo dibattito sui giornali, compreso un violento scambio epistolare tra Don Verzé e Francesco Saverio Borrelli. L’ultimo professore a essere liberato fu Eugenio Villa, l’oncologo, che si ostinava a dire: «Se rientro in servizio farò esattamente le stesse cose, non ho commesso reati, ho ricoverato chi doveva essere ricoverato». Lo difendeva Giuliano Pisapia. Le inchieste finiranno in nulla.

L’inventore dell’ospedale accessibile e soprattutto umano, rivolto al ceto medio – altro che «curare i ricchi e i potenti», come ha scritto Marco Travaglio – per il resto fu megalomane a seconda dell’accezione del termine. La megalomania è uno stato psicopatologico caratterizzato da ossessioni paranoiche di onnipotenza: e può sembrare paranoico – secondo Aldo Cazzullo del Corriere della Sera – «allestirsi zoo e scuderie dove scelse per sé un purosangue di nome Imperator», oppure «chiamare per dirigere la sua università i migliori intellettuali italiani», oppure «comprare fazendas in Sudamerica». Punti di vista. Se un megalomane realizza gli oggetti delle sue megalomanie, oggetti grandiosi, forse andrebbe chiamato in un altro modo. Vale anche per l’università, che meriterebbe un libro intero: delle facoltà di medicina e filosofia e psicologia – presenti i migliori intellettuali italiani, appunto – è davvero difficile parlar male. Megalomania? Forse lo sono state le lettere scritte a George Bush per supplicarlo di non attaccare Saddam, ma non certo l’aver sostenuto d’aver preparato il viaggio di Wojtyla a Cuba: perché è la verità. Però ecco, restano la fazenda e il cavallo. Restano gli asciugamani di lino nelle camere dei reparti, roba che il famoso «ceto medio» peraltro si sgraffignò. E resta, nel presunto quadro paranoico, l’aver effettivamente conosciuto Madre Teresa di Calcutta a Nuova Dehli (1992) l’aver stretto amicizia con Fidel Castro (stesso anno) e con Shimon Peres e pure con Gheddafi in una tenda nel deserto, o ancora l’aver frequentato il fondatore di Cl Don Luigi Giussani – senza mai permettere proselitismi nel suo ospedale – e poi Carlo Maria Martini, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, mille altri che hanno dichiarato di ammirarlo.

Megalomane: forse perché restava comunque un prete e non soltanto uno che contava, e sapeva muoversi, all’occorrenza sapeva anche essere cinico e «minacciare» come un politico qualsiasi, o ancora frequentare personaggi legati al Sismi per tenersi informato: ma in questo era più ordinario che megalomane, più corrispondente, cioè, a ciò che spesso in Italia è stato banalmente e orribilmente necessario per fare il male e anche il bene. Come per i famosi aerei. Cioé: Don Verzé, dopo il capolavoro del San Raffaele, portò il marchio dell’ospedale anche in Veneto, Puglia, Sardegna e Sicilia; a metà degli anni Settanta si mise in testa un’altra follia totale – costruire un ospedale in una zona poverissima di Bahia dove c’erano centomila favelados e mancava acqua ed elettricità e le fogne, figurarsi l’assistenza medica, altro che «ricchi e potenti» – e ce la fece in quattordic’anni con un ponte aereo che trasportò strutture e macchinari; riuscì a edificare un incredibile «Sao Rafael» con tanto di reparto di tossicologia laddove pullulavano industrie petrolchimiche che esponevano i poveracci al benzene e altri micidiali derivati; l’ospedale pubblicò libri di tossicologia e dichiarò guerra alle multinazionali con 24mila esami diagnostici in sei anni, un’altra pazzia che oggi è un modello per tutta l’America Latina e che in Brasile ha segnato il valico tra una sanità feudale e una moderna; la Ong di Don Verzé ha costruito anche in Africa, India, Cile, Polonia, Algeria, Cuba, Palestina, Colombia, Afghanistan, Iraq e persino sulle pendici dell’Himalaya, a Dhramsala; solo per andare dall’Italia al Brasile faceva 21 ore scali esclusi, più tutti gli altri giri per il mondo dove era richiestissimo: ma ora tutti a dargli del «megalomane» perché a 68 anni decise di prendersi un aereo privato, un turboelica come l’aveva Margaret Tatcher. Seguiranno, nel 1990, un Learjet, poi un Falcon 50 e addirittura tre elicotteri per l’elisoccorso: questo mentre insospettabili omuncoli d’affari hanno l’aereo privato anche solo per la tratta Fiumicino-Linate. Grande risalto hanno meritato anche una piantagione di mango e uva in Brasile e un albergo in Sardegna.

Una sinistra cattolica e dossettiana, lapiriana, giustizialista e pauperista, legalitaria e autoritaria, con buoni agganci in Vaticano: l’avversione storica verso Don Luigi Verzé parte da questo nocciolo e approda a personaggi – tu pensa – come Rosy Bindi. E se questi suoi detrattori si addensano perlomeno in una cultura, il resto è una sua mancanza: forcaiolismo d’accatto, sparatorie nel mucchio, dipietrismi vari, semplice non-conoscenza. E’ ciò che su un noto blog ha prodotto commenti come questo: «Don Verzé si scopava delle minorenni sul suo jet privato pagato con i soldi che mancano all’ospedale San Raffaele e al centro di ricerca». Una buona sintesi.

Il resto spiega, o non spiega, il ventaglio di amicizie che ha sempre circondato il Don: da Massimo Cacciari a Ernesto Galli della Loggia, da Renato Pozzetto ad Al Bano, da Fidel Castro a un insospettabile Nicola Vendola che lo corteggiava perché costruisse un San Raffaele sul Mediterraneo. Poi ci sono i legami storici come quello con Bettino Craxi, che da presidente del Consiglio venne a inaugurare il «Sao Rafael» brasiliano e però gli predisse: «Attento, tu fai le cose troppo in grande». Don Verzé, nei giorni dell’agonia di Hammamet, fece il diavolo a quattro per salvare la pelle all’amico. Scrisse ripetutamente al capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, portò messaggi personali di Karol Wojtyla, cercò di trasferire in Tunisia equipe mediche varie, e nell’ottobre 1999, prima dell’ultimo intervento, si rivolse vanamente a Francesco Saverio Borrelli: «La cortese risposta fu un diligente allineamento alla legge. Avevo fatto avere tutta la documentazione clinica, sono andato discretamente, ma con la morte nel cuore, a chiedere e a supplicare: fatelo tornare, è questione di giorni. E hanno detto no. Ha detto no chi aveva il potere di dire sì».

Del rapporto con Silvio Berlusconi, invece, si è scritto anche troppo. Sua Emittenza, nel 1994, voleva fargli fare il sindaco di Milano: «Ma non era possibile, il codice di diritto canonico non lo concede». Il sacerdote si lasciò andare a una doppia profezia: «Ora i tempi non sono maturi; ma più avanti, quando potrete confrontare l’era di Berlusconi con quella del fascismo o della Dc, vedrete quanto quell’uomo ha fatto per voi. Spero che allora si potrà capire di più anche il valore del San Raffaele, che non è un’opera di Don Verzé ma un’evidenza del cristianesimo vissuto non a parole. Solo allora potrò dire che la mia vita non sarà stata vana». Ora, invece e decisamente, non è tempo: il nostro Paese è in crisi economica e ha riscoperto il rigore dei conti dopo averlo disconosciuto per decenni. Un Paese edificato sul debito ha scoperto il debito come misura anche morale. Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera, l’altro giorno ha scritto così: «Se ne fosse andato un anno fa, Don Verzé sarebbe stato ricordato come l’uomo che creò dal nulla il più grande ospedale e il più grande centro di ricerca d’Italia, a prezzo di azzardi finanziari e disinvolture amministrative». Una frase strana: perché, Don Verzé non resta «l’uomo che creò dal nulla il più grande ospedale e il più grande centro di ricerca d’Italia, a prezzo di azzardi finanziari e disinvolture amministrative»?

Non fu solo quello, certo. E’ anche l’uomo che tra mille successi riuscì a fallire: ha costruito ai piedi dell’Himalaya ma a Roma ha dovuto abbozzare. E’ una storia che non viene mai ricordata abbastanza: quando, cioè, Don Verzé rilevò un albergo abbandonato in zona Mostacciano e in dieci anni lo trasformò nel solito ospedale modello. Ma Roma è Roma, i palazzi sono quelli. Nel 1997 il San Raffaele di Mostacciano era sulla griglia di partenza – almeno 350 miliardi spesi – e il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer firmò il decreto che sdoppiava la costipata facoltà di medicina della Sapienza: tutto pronto e arredato, come al solito all’avanguardia, 150 persone assunte solo per cominciare. La sanità romana scoppiava, mancavano tecnologie e servizi essenziali: ma tutto per qualche ragione rimaneva bloccato e il San Raffaele era fermo al palo. Nella palude romana erano cominciati movimenti a pelo d’acqua: Berlinguer da una parte cercava di sbattersi, ma dall’altra c’era la Regione guidata da Piero Badaloni (Ppi) che non firmava le convenzioni. «Un giorno», ha raccontato Don Verzé, «ero in Parlamento e stavo parlando con Berlinguer quando passa Rosy Bindi, la ministra della Sanità. Berlinguer la chiama: vieni, c’è Don Verzé. Lei non si ferma neppure, e accelerando sibila: non sono affari miei. Neppure un saluto». Il sacerdote ha raccontato anche di telefonate varie – come una di Cesare Geronzi, allora patron della Banca di Roma – per avvertirlo che la Bindi e una parte del Vaticano volevano cacciarlo dalla Capitale. Sinché il presidente del San Raffaele venne convocato appunto dalla Bindi. Lo racconta lui stesso in «Pelle per pelle», scritto con Giorgio Gandola: «L’appuntamento è per le cinque di pomeriggio. Arrivo e aspetto. Le sei, le sette, le otto. Alle nove ecco la Bindi. Si presenta e mi dice: “Lei deve andare via da Roma”. Sei parole. Io le rispondo che il San Raffaele però resta dov’è. Allora lei: “E’ la più bella struttura del Paese, ma lei lo deve vendere a me, al mio Ministero”». Seguì battibecco. Dopodiché, nell’arco di sole quarant’ott’ore, secondo il racconto di Don Verzé, qualche banca che finanziava il San Raffaele cominciò a fare strani discorsi. Nel caso della mancata vendita, si cominciò a paventare persino la possibilità di un commissariamento per l’ospedale di Milano. Anche Giovanni Bazoli, d’un tratto, consigliò di vendere. Geronzi fu più preciso: «A Roma non vogliono il nome San Raffaele e la sua gestione. La struttura piace molto, ma lei deve lasciarla e tornare a Milano».

Cadde il governo Prodi ma non cambiò nulla: perché il neo premier, Massimo D’Alema, riconfermò la Bindi alla Sanità. Don Verzé si arrese progressivamente. E d’un tratto, dopo averlo lasciato languire per un paio d’anni, lo Stato predispose una perizia dell’ospedale in fretta e furia: non l’affidò all’Ufficio tecnico erariale, ma a un privato, tutto per fare in frettissima. Le elezioni regionali erano alle porte (Badaloni sarà sbaragliato da Francesco Storace) e fatto sta che la valutazione fu di 201 miliardi, col dettaglio che Don Verzé ne aveva spesi 350. Si rivolse allora alle migliori società mondiali del settore – Richard Ellis e American Appraisal – che stimarono l’ospedale rispettivamente 340 e 330 miliardi. Ma la Bindi non volle saperne: 201 miliardi o niente, mentre le pressioni bancarie aumentavano e la prospettiva era che 150 persone venissero mandate a casa. Morale: il sacerdote firmò un preaccordo per la predetta cifra, 201 miliardi. In attesa del contratto definitivo e subito dopo il preliminare – siglato ufficialmente con l’Ifo, Istituti fisioterapici ospedalieri, cioè il Regina Elena e il San Gallicano – spuntò tuttavia un’offerta della famiglia Angelucci, nome importante della sanità romana e proprietaria di Libero: offriva 270 miliardi per l’ospedale più alcune case e terreni sull’Appia Antica. Facevano 69 miliardi in più. Don Verzé accettò anche se poi, con accordo extragiudiziale, il cdr del San Raffaele dovette sborsare sette miliardi per aver stracciato il preliminare con lo Stato. Uno Stato, inteso come Rosy Bindi e ministero della Sanità, che pochi mesi dopo fece comprendere quanto fosse personale l’astio rivolto verso il sacerdote: acquistò a sua volta il San Raffaele dagli Angelucci ma per 320 miliardi, non 201. Una plusvalenza secca di 50 miliardi. Fa niente: due giorni prima delle elezioni regionali, svariate personalità diessine (Piero Badaloni, Lionello Cosentino e la solita Bindi) poterono annunciare trionfalmente: «Finalmente si apre al pubblico una struttura sanitaria che era bloccata da tempo». Vero. Bloccata da loro.

Don Verzé ebbe un primo infarto il 2 luglio 1989 e poi un secondo il 16 agosto 1997, con successivi episodi minori e un’altra serissima crisi cardiaca il 22 dicembre 2010, quando già si pensava che sarebbe morto. L’episodio definitivo è quanto di più normale fosse lecito aspettarsi, e, se non fosse che da noi si urla al complotto ogni volta che muore una personalità finanziaria (anche se ha 91 anni) potrebbe dirsi che un complotto ci sia stato davvero: ma della divina provvidenza. Infatti Don Verzé, secondo una certa ottica, ha fatto benissimo a morire. Il suo Raffaele, negli ultimi tre anni, si era gonfiato di debiti che in misura minore aveva sempre avuto: 300 milioni con le banche (Intesa Sanpaolo e Unicredit in primis) e 5-600 milioni verso i fornitori dell’ospedale: fanno più di un miliardo rispetto al quale gli asset «non core» (che alla fine sono un albergo in Sardegna, delle piantagioni ortofrutticole e un aereo) sono poca cosa ma sono diventati i pilastri di una grandeur da gettare in pasto ai giornali. Sopraffatto da una crisi finale di liquidità, Don Verzé è morto prima che ai vertici del suo ospedale potesse sedere definitivamente quel potere – il Vaticano – che lo aveva osteggiato per tutta la vita. La Santa sede si è presa subito la maggioranza del consiglio di amministrazione (come auspicato dallo stesso Don Verzé) e del vecchio consiglio era rimasto solo lui, l’uomo che per una vita intera non aveva mai voluto religiosi nel cda; estromesso dunque anche Mario Cal, membro storico, altro outsider che partì come direttore di una squadra di ciclismo (quella di Beppe Saronni) e che si è suicidato il 18 luglio scorso per essere definito il giorno dopo, indovinate da quale giornale, «un altro tragico segno del disfacimento del sistema di potere berlusconiano». Le aperture di Don Verzé al nemico storico hanno consentito di escludere il fallimento e la bancarotta, mentre per assistere alla qualsiasi lotta di potere di chi ora vuole impossessarsi della sua creatura – lotta tra Giuseppe Rotelli, lo Ior, il gruppo Humanitas, chissà chi altri – restare vivi non era necessario.

Ci sono centinaia di migliaia di persone, guarite nei suoi ospedali, che ringraziano comunque. Il San Raffaele non è più quello di una volta, l’abbiamo scritto, ma proseguirà come un figlio che succede al padre. E i figli non sono mai tuoi, appartengono al mondo. Al limite, per un po’, a Rotelli. Don Luigi Verzé fa, altri distruggono, ma noi intanto ci curiamo. Conta questo. Il 20 marzo 2010, quando compì novant’anni, disse che stava lavorando per assicurare la vita fino a 120 anni. Ma parlava del San Raffaele. Del resto era la sua vita.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera