Che succede dopo la Leopolda

Su Matteo Renzi, il giorno dopo, vorrei subito liberarmi di un peso. Che poi però alla fine rischia di rivelarsi come la preoccupazione principale. Mi chiedo: perché, per le cose dette alla Leopolda, al sindaco di Firenze sono state mosse dall’interno del Pd accuse di destrismo, neoliberismo, reaganismo e berlusconismo che non ci si sarebbe mai sognati di muovere a Walter Veltroni? Badate, so bene che il primo segretario democratico è guardato da molti nel suo partito con antipatia e dispetto paragonabili a quelli che si provano ora per Renzi. Trovo però clamoroso che si pensi di poter scagliare contro Renzi un armamentario polemico che contro Veltroni veniva al massimo sfiorato.

Eppure, per molti aspetti, il Lingotto veltroniano rappresentò rispetto alla linea tradizionale della sinistra una rottura di continuità ancora più netta della Leopolda renziana. Allora perché? L’unica risposta che trovo è la più inquietante. La più densa di presagi funesti, non per Renzi ma per il futuro del Pd. È una risposta che svela la insincerità delle accuse “politiche” a Renzi di volere cose di destra, accuse che del resto non reggono alla prima verifica del lungo elenco dei suoi cento proponimenti programmatici.

A Renzi si può dire che è come Reagan, Thatcher e Berlusconi messi insieme perché lo si può trattare da oggetto estraneo. Estraneo non al Pd, ma al Pci. Veltroni, per quanto male lo si consideri, è uno di famiglia, una famiglia dove una destra c’è sempre stata ed è sempre stata tollerata. Renzi no. A Renzi si possono tirare pomodorate ideologiche, e desiderarne fortemente l’espulsione, perché è un abusivo. Un ospite in casa propria che non si comporta secondo le regole di famiglia.

Lo dico a Bersani, perché so che appena oltre la sua reazione polemica c’è la consapevolezza del valore aggiunto rappresentato dal Pd rispetto alla sinistra che c’era prima. Deve frenare questi impulsi. Non col silenzio, ma con la parola e con l’esempio. Deve mettere in chiaro che il Pd è un campo aperto di discussione, e anche di scontro politico, nel quale tutti possono muoversi a pari titolo. Alle asprezze di Renzi si può rispondere in ogni modo, tranne che con la delegittimazione che scorre a fiumi in queste ore, e che oggi colpisce Renzi (magari senza neanche fargli troppo dispiacere) ma che tanti potrebbero sentire come una ferita inguaribile sulla propria, di pelle.

La Leopolda era un luogo del Pd (è per questo che Europa – il giornale che dirigo – ha dato del weekend, tra Napoli e Firenze, una copertura online totale, apprezzata da tutti). C’era molta gente diversa, però c’erano soprattutto elettori democratici, militanti democratici, sindaci democratici, intellettuali democratici. E c’erano idee democratiche. Idee e proposte ben piantate da decenni nell’humus culturale e politico delle sinistre riformiste di tutto il mondo. Impossibile liquidarle come estranee o nemiche, a costo di andare contro la propria stessa storia.

Più che giusto o sbagliato, ho trovato incomprensibile il riferimento polemico a proposte che proverrebbero «dagli anni ’80». Reagan? Thatcher? Ma in Italia gli anni ’80 sono stati pentapartito, spesa pubblica assistenziale premessa dell’attuale debito siderale, corruzione. Il difetto di buttarla subito in ideologia è che si finisce per sganciarsi dalla realtà: l’Italia sta morendo di tanti mali, ma non certo di liberismo, né selvaggio né temperato, perché nessuno qui l’ha mai interpretato né tanto meno tradotto in politiche di governo. Figurarsi: chi c’è andato più vicino, per la contingenza mondiale nella quale si trovava, è stato l’Ulivo di Prodi…

Questo “buco”, che ci rende così diversi dagli altri, potrebbe essere sfruttato come una grande fortuna: non abbiamo avuto la finanza devastata come a Londra, non abbiamo avuto i risparmi azzerati come negli Usa, possiamo imparare dagli errori altrui e aprire finalmente la nostra economia e il nostro mercato dei lavori senza degenerazioni e senza massacri, sfruttando sussidiarietà e welfare famigliare. Invece ci rinserriamo in dispute ideologiche, per di più insincere visto che servono a “coprire” incompatibilità personali.

Negli ultimi quattro giorni Matteo Renzi ha terremotato il quadro politico, non solo del centrosinistra, spiazzando un sacco di gente, costringendo molti a rifarsi i calcoli, in sostanza inaugurando una stagione diversa. Poteva farlo meglio di come l’ha fatto. Non sul piano comunicativo, che è stato efficace ai fini di far conoscere il personaggio fuori dalla sua cerchia consueta, bensì sul piano politico e anche umano. Sono stati compiuti alcuni errori. Sarebbe stato giusto dare alla platea della Leopolda esplicito appuntamento per la manifestazione del Pd del 5 novembre. Sarebbe stato meglio non investire Stefano Fassina in modo personale e anche volgare. Sarebbe stato più interessante marcare rispetto a Vendola differenze più elaborate che non la caduta del governo Prodi nel ’98. Sarebbe stato opportuno rivolgere al sistema dei poteri extrapolitici lo stesso brusco trattamento riservato al sistema politico.

Errori rimediabili, se si è in grado di riconoscerli. Il fatto importante è che da oggi è riaperta nel Pd la questione cruciale dell’espansione elettorale. Tutti devono farci i conti, perché il grande buco nero dell’attuale linea democratica è in quel rapporto quasi paritario, nei sondaggi, fra il Pd e i suoi alleati, a fronte di un margine di vantaggio troppo ballerino nei confronti del centrodestra. È questo che rende debole la proposta di alternativa, e suggerisce vie di fuga come quella proposta da Goffredo Bettini: candidiamo a premier Casini.

La linea di Renzi è un’altra: risolviamo questo problema usando il Pd, per conquistare l’Italia in fuga da Berlusconi. Rafforziamo il centrosinistra sul fronte dell’innovazione (non della moderazione, che è uno stato d’animo) rafforzando il Pd. Non è un’eresia, a patto che si riconosca che gli italiani non hanno votato per diciassette anni Berlusconi a causa di un incantesimo televisivo o (soltanto) per anticomunismo, ma perché si illudevano che fosse lui l’uomo capace di cambiare le tante cose che non vanno. E che non vanno sia per gli italiani di destra, che per quelli di sinistra e di centro. Ora che l’illusione è caduta, il Pd deve decidere se rivolgersi anche a quell’Italia lì, o preferisce delegare questo necessario compito a qualcun altro per la paura di perdere consensi “di sinistra”.

Renzi è una risorsa, a questo punto irrinunciabile, nella prima ipotesi. Per di più, i suoi contenuti “anticasta” piuttosto spinti (anche quelli meno condivisibili, come la norma che porterebbe alla chiusura di questo giornale) suggeriscono la possibilità di recuperare in quell’enorme bacino di incertezza e di rivolta col quale il Pd non riesce più neanche a comunicare. E c’è perfino nel suo abbozzo di programma una parte consistente sui diritti civili, che ha risvegliato l’attenzione della sinistra radicale. Insomma, come scrivevamo domenica sul nostro sito: Matteo Renzi è un supermarket del contemporaneo, qualsiasi idea di sinistra voi abbiate nel 2011. I democratici sapranno sfruttare questa chance, ovviamente scontando un duro passaggio di confronto politico interno, o la regaleranno a qualcun altro (salvo poi dover masticare amaro contro i newcomers)?

Dipenderà dal clima che si creerà nel partito. Dipenderà dalla disponibilità di Renzi a essere coerente con il suo impegno a lavorare non per sé ma per una comunità. Dipenderà dalle attuali componenti dell’opposizione interna a Bersani, se vorranno accettare la leadership non di Renzi come persona, ma della Leopolda come movimento. E infine naturalmente dipenderà da Bersani, che è sufficientemente forte da poter accettare la sfida senza demonizzarla; è sufficientemente liberal in economia da poter competere su questo fronte, a patto di non farsi zavorrare da nostalgie neostataliste; ed è sufficientemente aperto come persona da non farsi condizionare dalle antipatie e da poter superare gli affronti.

L’unica cosa alla quale, per reggere il confronto, Bersani deve in effetti rinunciare, è la sua concezione del partito per funzionari e organismi dirigenti rigidi. Ma questa sta già andando in crisi de facto. E farsi superare pur di difendere una forma-partito sarebbe assurdo, di fronte all’entità dei problemi del paese.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.