Caserta e la cura

I casertani sono esseri strani, gli chiedi com’è Caserta? E quelli scrollano le spalle, mettono su un’espressione di disgusto, poi a Natale, da qualunque parte del mondo (ci sono casertani pure in Nuova Zelanda) tornano e passeggiano per via Mazzini, su e giù, come degli ossessi, un po’ felici e un po’ no, un po’ curiosi, un po’ scocciati.

Io sono di Caserta, appunto. Torno, faccio su e giù per via Mazzini, incontro i casertani emigrati in Papuasia, con loro commento come si sono ridotti i casertani che sono rimasti, ma nello stesso tempo, passeggiata dopo passeggiata, riprendo tutti i difetti meridionali, bar, pettegolezzi, chi è quella, di chi è figlia, con chi se la fa? Lo scontrino fiscale? Vabbè, ma quello è amico di mio padre, lascia stare… Quel misto di ipocrisia, connivenza con il sistema e allo stesso tempo, voglia di contestarlo – a proposito di connivenza, la sera di capodanno sparo fuochi e botti insieme a dei fuochisti professionisti, roba seria, e il primo gennaio, in genere, scrivo un pezzo sul Mattino, contro la tradizione dei botti. Da dieci anni ormai. Quel misto di ipocrisia e contestazione, appunto.

Sto a casa dei miei, a via Ernesto Rossi 18, zona, una volta, periferica, poi diventata centrale, c’è tutt’ora una sfrenata movida, a Caserta si esce alle undici di sera – il grande Ernesto Rossi, però, è ancora, culturalmente parlando, periferico.
Saviano abitava a poche centinaia di metri da casa mia, Toni Servillo a 80 metri, Francesco Piccolo a 50 e insomma, dietro via Rossi, c’era una strada, volgarmente detta il Macello (terminava con il macello comunale, ora sede di biblioteca), qui si posteggiavano le auto in fila. Si coprivano i finestrini con i giornali e si praticava una sorta di amore collettivo, centinaia di auto che si muovevano in sincrono, molto musicale. Si scopava in tutta tranquillità, fatta eccezione per qualche guardone.

Ora nei pressi del Macello hanno costruito il nuovo tribunale. Affianco c’è la sede della Polizia. Di fronte a queste autorevoli sedi istituzionali, che fanno ben sperare, perché contribuiranno ad abbattere clima di lassismo ecc, dico di fronte, a soli venti metri, c’è un un una… eh, come definirla? una struttura chiamata i ragazzi del muretto. Che cos’è? Un ristorante? Forse, vende panini e porchetta, cibi simili. Una volta era piccolo, un chiostro abusivo e serviva gli amatori del Macello, che, stanchi e sudati, soddisfatti o no per gli amplessi in macchina, si facevano un panino. Comunque, i ragazzi del muretto è cresciuto, ha ampliato le iconografie napoletane, e visto che c’era il complesso si è esteso lungo il marciapiede, fino a costruire, sul marciapiede, un edicola votiva, ossia una casetta di legno, con tetto spiovente. Sotto ci sono Padre Pio, Gesù Cristo e una (davvero) orribile imitazione della Pietà di Michelangelo.

Dubbio, e non di natura estetica: è abusivo? Non lo so. Oppure ha un’autorizzazione? E chi gli ha dato l’autorizzazione per costruire una siffatta edicola votiva che occupa il marciapiede? Secondo dubbio: ma se è abusivo come la mettiamo con il tribunale e la sede della Polizia? Com’è? Dentro al tribunale si giudicano i reati e le violazioni di legge e fuori andiamo a comprare i panini abusivi? Come dire, c’è una zona grigia tra il legale (il tribunale) e l’illegale (i ragazzi del muretto), cioè vuol dire che in questa confusione, nessuno mi garantisce che il tribunale non sia abusivo e i ragazzi del muretto invece legale. Non si capisce più niente.

Terzo dubbio: e come la racconto questa storia? Perché, oggettivamente è una di quella storie grottesche che fanno un po’ ridere, ah questo sud! ah solo al sud ecc. È, inoltre, una di quelle storie che conviene raccontare, in quanto ti garantisce una sorta di immunità da narratore, raccontando e magari aggettivando e colorando i contorni, tu narratore ottieni un salvacondotto: l’eroe che denuncia il mostro, l’eroe che abbatte con la parola la Medusa, cose così. Però è anche vero che questa storia trasferita fuori contesto viene letta in un‘altra maniera: metti che sono un’industriale del nord e che ho un carico di rifiuti da smaltire illegalmente. Bene io so che al sud c’è un luogo così composto: un tribunale, una strada e un chiostro sospettato di abusivismo. So anche che nessuna istituzione si è mai occupata di dettare regole ferree e fermi propositi, dunque, nonostante la presenza del tribunale, io quasi quasi ci provo a percorrere, metaforicamente parlando, lo spazio grigio, quel pezzo di strada, 20 metri, tra tribunale e chiostro abusivo. Ci saranno sicuramente persone complici, per forza, solo al sud c’è un posto così. Li scarico lì.

La racconto o non la racconto? Che si fa? E ragioniamo, mi dico. Prima di tutto, non si può dire: i panni sporchi si lavano in famiglia. Per carità. E poi è vero che il primo istinto è viscerale, cioè, vedi sta cosa: un tribunale e i ragazzi del muretto, la stonatura è evidente, ti colpisce, senti dolore. E vuoi reagire, con la parola. Gridare: amara terra mia (secondo me la versione migliore resta quella di Modugno, anche se quella di Ginevra di Marco è intensa), insomma, vuoi dirlo a tutti – infatti ci sto pensando da venti giorni, panettone, passeggiate, saluti, ragazze casertane e la questione del tribunale. Vuoi per forza manifestare il tuo dolore per il dolore che vedi e che tocchi. Il dolore e la sua rappresentazione purificano. Il dolore e la sua rappresentazione sono un gesto d’amore per la tua terra. Si ma cosa si purifica e cosa si ama? Il narratore? Il luogo?

Queste cose mi sono venute in mente perché stavo nei pressi del Macello, e ragionavo: vedevo questo tribunale nuovo e i ragazzi del muretto, insomma, mi sono venuti in mente i narratori che amano il dolore e che amano la propria terra come una donna e vogliono salvarla, le donne e la terra. Mi sono venuto in mente io, e chi altri sennò. Quando proprio qui, lungo questa strada, mettevo i giornali sui vetri della macchina. Stavo con Cristina, all’epoca. Ragazza bellissima. Che però soffriva. Perché soffriva? E perché io volevo salvarla? E da cosa? Perché mettevo i giornali e invece di scopare finivamo per parlare per ore e ore della sofferenza? E adesso che lei è felice, con figli, sempre bella, adesso che l’ho vista e sono andato a casa sua (eh, i vecchi tempi) perché dovevo parlare con suo marito che si chiama come me, e fa il fotografo, mentre salivamo le scale, quelle scale che ho salito per sette anni, lei davanti (perché non sono come quel mio amico scrittore che dice: non faccio passare le donne avanti perché non voglio che loro pensino che sto guardando loro il culo), le ho chiesto: Cristina, ma perché soffrivi? Boh? Mi ha risposto. Però soffrivi? Sì. Anche tu, mi ha detto. Sì ma perché soffrivi tu, le ho risposto. Sei sicuro? mi ha detto lei. Boh? Ho risposto io, sono passati 22 anni. Però eri giovane e romantico, ha detto, infine, prima di entrare – purtroppo le scale erano finite.

Ero romantico? Veramente? Lottavo per purificare la sua anima dalla sofferenza? George Steiner: La morte della tragedia (Garzanti). Dice: “non si può comprendere il movimento romantico se non vi si scorge alla base un impulso fondamentale verso il dramma. Il classicismo cerca di costringere l‘esperienza nell’armonia e nell’ordine. Il romanticismo le da un tono romantico e dialettico. Il romanticismo non critica la realtà, non la cataloga, la drammatizza”. Questo è il dramma. E il melodramma? Quella nota più alta sul dolore, quell’acuto finale? Altro che critica, al mondo, al contrario si rischia di trattare il dolore alla stregua di una giustificazione qualsiasi. Siamo così, che ci volete fare. Tipico sentimento molto italiano. Bello per un verso, il melò ha creato personaggi indimenticabili. Però è anche Sordi: a me mi ha rovinato la guerra, e tutte le declinazioni possibili.

Piangi e fotti. Dicono dei napoletani. Però un esperimento riportato sul New Scientist descrive come gli uomini reagiscono alle lacrime femminili.
In sintesi, reagiscono come reagivo io con Cristina, mettevo i giornali e parlavo, senza scopare. Secondo i dati raccolti dall’esperimento le donne segnalano con le lacrime un’indisponibilità all’azione. Non per niente le lacrime abbondano durante il ciclo mestruale. Insomma, il mondo è violento, aggressivo, il sesso è stressante, io piango, non ce la faccio e ti segnalo la mia sofferenza e ti chiedo di proteggermi. Abbi cura delle mie lacrime.

Se non c’è dolore non c’è sentimento? Se non c’è dolore non c’è senso della realtà? Non c’è impegno, non c’è empatia? Se non c’è dolore non c’è cura? Ma, altro dubbio: in un mondo già addolorato devo mica esagerare con il dolore per ottenere la mia protezione? Cioè, devo mica esagerare, melodrammaticamente, la rappresentazione del mio dolore. Esagerare con gli aggettivi. Un peccato mortale per un narratore, diceva Cechov. Insomma, sarà mica che in casi simili si instaura la dinamica della cura?

Qua ci sono degli uomini che sono attratti dal dolore delle donne, le vogliono proprio sofferenti, se la sofferenza non è esposta, se non è dilatata, se non investe tutto il mondo, allora non è vera sofferenza. Tu non soffri, disse un conoscente a una mia amica, raffinata e pudica. Come non soffro, rispose lei, timidamente, ho due lauree, ma sono precaria, senza lavoro fisso, ho 40 anni e non ancora un figlio, cerco di non lamentarmi, anche perché, francamente non ho il tempo… non soffri, non si vede, insisteva quello, come faccio a interessarmi a te? Perché dovrei? Da cosa dovrei proteggerti. Qual è il mio ruolo, di maschio? Hai visto che tribunale? Visto che chiostro abusivo? Di cosa vogliamo parlare? Che poi ‘sti maschi meridionali, si esaltano solo nelle difficoltà, arrivano i nostri e sono anche io così, quello è il modello. Sono dinamiche che prevedono un salvacondotto per entrambi, Io sarò nobile perché avrò cura di te, ed soprattutto enfatizzando il mio ruolo posso tralasciare le mie bassezze, tu, bassa e dolorante, sarai purificata. Storie ad personam.

Io ti proteggerò, dalle paure e dalle ipocondrie, dai turbamenti che ogni giorno incontrerai per la tua via. Ti solleverò sulle correnti gravitazionali, tesserò i tuoi capelli come trame di un canto, perché sei un essere speciale e io avrò cura di te. 1996, La cura, Battiato. Canzone struggente. Come invidiavo Battiato. Immaginatevi la scena. In macchina con amiche, verso The heart of saturday night, come cantava Tom Waits.

La radio, invece di Tom Waits passa La cura. Le mie amiche che dicono: alza, alza. Io alzo. E Battiato canta: tesserò i tuoi capelli come trame di un canto. Nella vettura, momenti di percettibile, inteso, commosso silenzio. Lacrime appena trattenute, o piccole lacrime che scorrono e vanno ad aumentare il volume del mare, come dicono i Tindersticks, in Tiny tears, appunto. Poi la canzone finisce, io abbasso, e le mie amiche mi guardano male. Vogliono dirmi: tu non sei così. Tu non mi sollevi dai miei sbalzi d’umore. Il fatto è che hanno ragione: non so nemmeno che significa tessere i capelli come trame di un canto. Ho problemi pure con i miei di capelli. Cercavo sempre di biascicare qualcosa: ma pure io… a miei tempi, con Cristina…

Battiato faceva piangere le donne, questa è la verità. Ma non avevo letto l’esperimento: vedi a essere disinformato? E lo so che la canzone è dedicata a se stesso, solo un formidabile misantropo può scrivere una canzone d’amore così alta e intensa, ma il risultato non cambia: ogni donna si immagina destinataria di una cura maschile (ogni donna si fa per dire, se non è cura è perlomeno esclusività, o una sua parvenza non importa).

Ho cominciato a indagare sul significato di cura, e solo per (schifosa) invidia nei confronti di Battiato, voglio dire Cristina era la ragazza più bella di Caserta, l’avevo conquistata con una promessa di cura, alzando i toni, aggettivando il dolore, insomma, almeno così mi pareva e ne avevo ricavato poco, questo è sicuro, e quindi sono il primo a essere implicato in questa faccenda di cura. Battiato sì e io no. E non mi stava bene. Leggo Conversazioni con Ivan Illich (eleuthera) e scopro che lui definisce la Cura come la maschera dell’amore. La cura – naturalmente si parla di una cura protratta, non contingente, se cadi ti prendo, ovvio – stabilisce un meccanismo di potere, che prevede il malato e il sano. Il sano dice: senza la mia cura non ce la puoi fare, e il malato acconsente. Dunque la cura viola lo spazio della responsabilità individuale. La cura necessità di un sistema di potere fondato sull’eccesso di rappresentazione, posso farmi ascoltare solo se alzo il tono, posso guarirti solo se fai a modo mio – ovvero se scegli la mia rappresentazione della cura. Secondo, dice Illich: chi cura presuppone di poter estirpare il male che c’è in te. Vuole invaderti con il suo bene, e il bene si sa può costruire, attorno a te, una gabbia dorata. Questo concetto violerebbe un principio cristiano, il male non si può estirpare, combattere sì, ma non estirpare, la purezza non esiste perché il diavolo c’è sempre – che poi quando facevo il chierichetto ai salesiani me l’avevano pure detto.

Va bene, ma alla fine: come la mettiamo? Il dolore esiste. Anche l’altruismo – anche se i biologi evoluzionisti parlano di egoismo ritardato (non male come definizione). Le lacrime scorrono. Io ti salverò alla fine lo dici, alla tua donna, o alla tua terra. Fosse allora un problema di come lo dici? Vogliamo cambiare? Invece di esagerare con i propositi di salvezza (delle donne e della terra), che presuppongono un dolore grande e intenso e quindi un eroe combattivo e determinato, invece di tutto questo, che tra l’altro esige per essere rappresentato di un vetero modello narrativo a tre atti, e di un eroe martire, un po’ cattolico un po’ moralista, avanzerei (verso me stesso naturalmente) una modesta proposta: sostituire cura con manutenzione.

Una questione di parole, ma non solo. Anche una dichiarazione di limiti, senti, direi ora a Cristina (che sta bene, è serena e soddisfatta, mi sa che il problema ero io, non lei) alzarmi sopra le correnti gravitazionali non fa per me, ho le mie zavorre, mica sono così leggero. E invece di puntare diritto alla meta poetica e incantatrice, così, invece di: tesserò i tuoi capelli come trame di un canto, direi: hai una cosa nei capelli, mo’ te la tolgo. Attenzione sì, ma perlomeno non enfatica. Dovrebbe così facendo cambiare la narrazione. Meno drammatica, meno concentrata sui personaggi che detengono la fortezza del dolore e della soluzione, però più ad ampio respiro. Il mondo fa schifo? Tutto complotta contro di me? Sono affranto, disgustato esausto perché questi hanno costruito un tribunale e un chiostro abusivo. Povero me, amara terra mia? Io soffro, chi mi aiuta? Qui c’è il tribunale? C’è il chiostro abusivo, insomma, senti, sai che ti dico, io descrivo la strada che sta nel mezzo, fra me e te, tra li tribunale e il chiostro, sarà noioso, prevede una narrazione con toni bassi, digressiva, ma quella strada è un punto di confluenza, lì passo io, e lì ci sono i miei gesti, la mia responsabilità e i miei errori, quelli naturali e quelli specifici.

Questo pensavo, poi sono andato al Tequila a bere una birra (gesto atavico, il Tequila a Caserta era un punto di incontro tra destra e sinistra, tra borghesi e proletari, tra poeti e commercialisti, tra quelli che curavano e quelli malati) e lì ho incontrato degli amici. C’era una ragazza, Emanuela, giovane, non la conoscevo e ho cominciato a parlare del tribunale e dei ragazzi del muretto. Mi è uscita fuori una tirata sentimentale verso la mia città e verso il sud abbandonato e bistrattato e sapete, vi devo dire che Emanuela mi guardava con occhi partecipi e commossi. A un certo punto ha detto: vado a fumarmi una sigaretta. Ti accompagno le ho detto, sai io ne fumo una al mese. Ma davvero? E sì, sai… E fuori ho continuato e lei sorrideva, ho avuto l’impressione che avesse gli occhi lucidi e quando mi ha detto: come sei passionale verso il Sud, devi essere un tipo romantico, beh, mi sono illanguidito e ho pensato che lei avesse del dolore dentro e potevo anche darci un’occhiata. Senza propositi di cura, ovvio: andiamoci piano con la sofferenza e la lacrime…

E tutto questo, mi dicevo verso le due di notte, mentre parlavo con Emanuela, stava succedendo solo perché volevo riflettere su come parlare del tribunale di Caserta senza essere retorico e rischiare la macchietta e per astruse vie.

Mi sa che mi devo veramente far curare.

P.S. se non c’è cura, se non c’è tragedia, se il melodramma non basta, cosa resta? Restano l’amarezza e lo stupore che le cose passano e fuggono, come le donne e gli uomini che avevano giurato di salvare e salvarsi. L’amarezza e lo stupore sono le uniche bistrattate forme di conoscenza che ci indicano la differenza tra i nostri sogni e la realtà. Tutto passa, come diceva Parise, la poesia va e viene, viene e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti, mi dispiace ma è così. Un po’ come la vita, soprattutto come l’amore.

Tag: caserta
Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.