La blindatura e la scissione

Sono una delegata all’assemblea nazionale del PD, anzi lo ero, fino a domenica scorsa, quando Renzi si è dimesso da segretario, si è aperto il procedimento per il congresso e la scissione si è srotolata nei discorsi dal palco, in mezzo agli appelli all’unità. Certo, non è stato un bel modo di festeggiare i dieci anni del Partito Democratico.
Il PD vive grazie all’appoggio e al contributo, ogni santo giorno, di elettori, iscritti, dirigenti e amministratori locali. Nessuno lo possiede, nemmeno il segretario nazionale o il presidente del consiglio o i parlamentari nazionali o europei. Eppure.

Eppure alcuni si comportano come se avessero preso in ostaggio il PD. Chissà se continueranno tutti a fare le cose sbagliate. Io non mi scandalizzo mai, nemmeno ora, per la lotta per la leadership: pensate a quel che succede nel mondo finanziario o anche solo a quel che capita molto vicino a ciascuno di noi, quando c’è in ballo una promozione, se avete un lavoro e un’azienda per cui lavorare. Ma la lotta per la leadership, in un paese che non riconosce il merito e fugge dalla competizione, deve sempre essere coperta da strati e strati d’ipocrisie, con cui la scimmia nuda copre la sua lotta: ci vuole il programma politico, la conferenza programmatica, l’ascolto, le elezioni, proteggere il governo…
Che palle.

Quanti sbagli sono stati commessi in questi anni, per non dire in questi ultimi mesi. Domenica dal palco ho sentito diversi bei discorsi (Veltroni ha detto: «Quando la sinistra si è divisa, ha sempre fatto male a se stessa e al paese») mentre per altri sarebbe stato meglio riavvolgere il nastro e ascoltarli magari al contrario, per capire quello che davvero volevano dire. Piero Fassino ha ricordato quanto sia pericoloso pronunciare alcune parole perché, una volta pronunciate, vincolano ed è quasi impossibile tornare indietro: scissione è una di queste.
Sapete che c’è? Siamo tutti addolorati da questa situazione, abbiamo faticato a fianco a fianco in tante battaglie elettorali e sul territorio e sarebbe doloroso separarci tra noi, ma non siamo scemi e le ipocrisie – ma soprattutto le scorrettezze – non ce le beviamo. Il partito soffre ma il partito vive sospeso da parecchio tempo; la tensione è talmente palpabile che abbiamo circoli senza più segretari, circoli inattivi, tesseramento inesistente. Troppa tensione da gestire, meglio soprassedere, seguendo una vecchia regola per cui spesso le rogne si risolvono da sé. Sbagliato: oltre alla rogna, arriva la cancrena.

Il malessere della struttura sul territorio non era altro che una fotografia fedele e un presagio di quello cui stiamo assistendo (e qui, le responsabilità sono di tutti). Certo, il segretario deve farsi carico delle divisioni interne ma non gli si può chiedere di farsi carico anche delle scorrettezze altrui. La scissione, che probabilmente si consumerà in questi giorni, arriva da lontano ed è stata marcata da parecchi paletti lungo il percorso, come il mancato voto di fiducia al governo Renzi, il dissenso all’Italicum, la mancata adesione alla posizione del partito nel referendum sulle trivelle, l’azione in aperto contrasto (con festeggiamenti inclusi) al referendum costituzionale. Insomma, a me pare che alcuni dirigenti nazionali la scissione l’abbiano già compiuta de facto nel 2016 e la stiano formalizzando nel 2017.

Il PD è l’unico partito in Italia in cui il segretario è scelto e votato della base (iscritti e elettori), con una procedura articolata e garantita, è quindi un partito contendibile, ma pare che questi dirigenti-goleador sarebbero disposti a rimanere solo se il portiere Renzi abbandonasse definitivamente la porta per consentire loro di infilare la palla in rete con tutta tranquillità. Certo, però prima dovrebbero mettersi d’accordo su chi tirerebbe il gol.
È una compagine un po’ troppo affollata di leader, che tentennano perché sono disomogenei, con storie differenti alle spalle e obiettivi molto differenti. Si è visto domenica all’assemblea, quando Emiliano prima ha pronunciato un discorso che ha spiazzato i suoi sodali, di assai parziale e formale apertura, per diramare poi un comunicato stampa in cui annunciava – insieme con gli altri – la scissione, ma senza dire né come, né quando. La sensazione – supportata solo dai miei dieci anni di esperienza politica e solo in questo partito – è che proveranno il modello della “doppia blindatura” ossia tenteranno di blindare la maggioranza del partito sia da dentro sia da fuori.

Alcuni resteranno per contendere a Renzi nel congresso, se non la leadership, almeno una percentuale più ampia possibile di consenso, da convertire poi in segreterie locali, delegati all’assemblea, componenti la direzione nazionale e, ovviamente, candidature e poi seggi al Parlamento. Altri invece realizzeranno da subito la scissione, portando con sé un manipolo di parlamentari, più complicato quantificare il loro seguito sul territorio. In ogni caso, è probabile inizino un’attività di forte differenziazione politica dal PD, quando invece Pisapia sta facendo del dialogo con il PD il tratto caratterizzante del suo nuovo raggruppamento politico.

E qui sta il nocciolo della questione: capire se chi rimarrà dentro con una mozione di minoranza, lo farà per collaborare con gli scissionisti per blindare Renzi. Il bilanciamento dei pesi dipenderà dalla data del voto e dalla legge elettorale: più avrà un impianto in senso proporzionale e più il PD dovrà cercare alleanze in Parlamento per formare un governo. Avere una – parte della – minoranza più alleata di un partito esterno che delle sua stessa maggioranza sarebbe davvero un gran brutto problema da risolvere in un paese che corre il rischio elevato – insieme con diversi altri, purtroppo – di cadere in mano ai populismi, al razzismo, ai web fascisti del terzo millennio.

Emanuela Marchiafava

Media Analyst e consulente per le imprese, già assessore della Provincia di Pavia, si occupa di turismo, politica e diritti.