La società civile al concorso di bellezza

Pochi giorni fa l’arcivescovo di Canterbury e capo spirituale della Chiesa anglicana, il reverendo Rowan Williams, ha bollato senza mezzi termini l’idea di big society tanto cara al premier inglese David Cameron: «Una retorica vuota, uno slogan privo di significato, per nascondere la pericolosa retromarcia dello Stato dalle sue responsabilità nei confronti dei più vulnerabili».

In realtà già da subito, dati alla mano, s’era capito che la parolina magica che voleva evocare un nuovo e più incisivo ruolo della società civile nel decidere come usare a livello locale le risorse di cui dispone, nascondeva un colossale bluff: il 21 ottobre 2010 infatti, pochi mesi dopo l’insediamento di Cameron a Downing Street, il Cancelliere dello scacchiere Georges Osborne aveva annunciato il taglio di 4,5 miliardi di sterline alle charity e di circa 18 miliardi al welfare, “compensato” dalla messa a disposizione delle organizzazioni nonprofit a rischio chiusura con questi tagli di “miseri” 100 milioni di sterline. Eppure non appena Cameron lanciò quest’idea, peraltro scimmiottando quella ben più originale di Great society del presidente americano Johnson, in Italia scoccò il colpo di fulmine. Il governo allora in carica vi scorse un formidabile alibi per portare avanti la sua “rivoluzione liberale” (sic!) e alcuni ministri non persero occasione per lodare il modello inglese.

Ma anche nel centro sinistra “Cupido” fece le sue vittime. Ricordo, per esempio, un deputato quarantenne del Pd che entusiasta mi contattò per parlarmi di un convegno sulla big society che stava organizzando e al quale voleva invitarmi come relatore, che rimase piuttosto sorpreso dalla mia lapidaria risposta negativa: «La big society è una boiata» (ormai il termine si può pronunciare, avendolo sdoganato persino il presidente di Confindustria Squinzi). Ovviamente poi usai argomentazioni molto più analitiche e particolareggiate per motivare il rifiuto, ma la sostanza rimane quella.

Infine, non potevano mancare i gridolini di giubilo di quella vasta parte della nostra società civile organizzata per la quale ogni occasione è buona per fare una delle cose che le riesce meglio: rivendicare. Rivendicare innanzitutto che la big society in Italia può contare su una lunga tradizione che affonda le sue radici nei secoli dei secoli. Come a dire, figurarsi se queste iniziative ci possono trovare impreparati. E poi rivendicare soldi: visto che sappiamo bene di cosa si tratta e la politica mostra interesse, questo il senso del ragionamento, allora dateci più mezzi per fare la nostra parte. Adesso, per fortuna, questa parentesi (non foss’altro nominalistica) si chiude definitivamente. Le parole del reverendo Williams hanno chiarito ogni equivoco. Ma una morale resta. Quale morale? Per rispondere faccio un passo indietro. Anzi laterale.

Mercoledì Repubblica ha pubblicato un interessante articolo di Thomas Lauren Friedman, columnist del New York Times e vincitore di tre premi Pulitzer, intitolato “Il potere dei follower”. Si chiede Friedman: «Perché i leader capaci di esortare il popolo a far fronte alle sfide della nostra epoca sembrano così pochi?». E avanza la risposta che ciò succede anche perché oggi i leader, grazie alla tecnologia (Twitter, Facebook, Youtube), essendo sottoposti a uno «scrutinio senza precedenti», hanno paura a prendere decisioni coraggiose per il timore di venire contraddetti e messi in discussione. Invece, aggiunge Friedman, proprio perché viviamo tempi di crisi economica, finanziaria e occupazionale feroce vanno ricercate «soluzioni che richiedono traiettorie complesse», possibili solo a patto di dire le cose come stanno, anche se molto scomode, e non ricercare il facile consenso tramite consumati escamotage e luoghi comuni.

A proposito di luoghi comuni sempre efficace è la famosa metafora di Keynes sul “concorso di bellezza” per spiegare le dinamiche della speculazione. Sosteneva il grande economista inglese che la speculazione non era altro che un tentativo di capire cosa gli operatori di mercato pensassero del futuro. Da qui la similitudine con i concorsi di bellezza: se vuoi indovinare la miss che vincerà il concorso, non devi sforzarti di capire qual è la donna più bella bensì devi cercare di immaginare come voterà la maggioranza dei giurati. La stessa cosa vale per i mercati: bisogna indovinare come si muoverà il numero più alto possibile degli operatori.

Ebbene molta società civile organizzata in Italia (non tutta, naturalmente) si comporta non di rado come se fosse a un concorso di bellezza e dovesse indovinare chi vince. Tanto per dirne una, ieri si è svolto a Roma un evento celebrativo dei primi 15 anni del Forum del Terzo settore, un’associazione di secondo livello che raggruppa più di un centinaio di sigle della società civile organizzata e che, con molta fatica ma non sempre altrettanta fortuna, cerca di accreditarsi come parte sociale ai tavoli con le istituzioni.

Il titolo dell’evento era: «Non ci salveranno i mercati. Equità, responsabilità e solidarietà per un altro sviluppo». Ma anche il “sottotitolo” era niente male: «In un momento di forte crisi, non solo economica ma anche politica e culturale, il terzo settore, con ostinazione e responsabilità (eccola lì la prima rivendicazione di meriti, nda) continua la sua opera di cucitura cercando di dare il suo contributo alla coesione del Paese, a partire dalle risorse che i territori sono in grado di esprimere, tanto più se adeguatamente sostenuti e valorizzati (ed ecco la seconda rivendicazione, stavolta di mezzi, nda)».

Ora sfido chiunque, se gli si chiede un giudizio su un titolo simile, a non condividerlo. Penso che persino Lloyd Blankfein, numero uno di Goldman Sachs, incontrerebbe difficoltà nel fare obiezioni al riguardo. Ma a parte il merito per aver indovinato la vincitrice del concorso di bellezza rimane poco altro. Il Terzo settore avrebbe infatti bisogno di ricorrere finalmente, come ammonisce Friedman, a parole scomode per ambire a una leadership culturale e di autorevolezza nel nostro Paese. Parole scomode perché inevitabilmente dovrebbero avere lo scopo di far emergere innanzitutto le contraddizioni tra il dire e il fare, gli eccessi di retorica buonista, le rendite di posizione, la scarsa capacità propositiva che si annidano al suo interno. Invece quasi sempre la stessa solfa: stesse persone, stesse parole d’ordine ormai vuote e stanche che necessiterebbero di un bel restauro (sussidiarietà, democrazia dal basso, passione per la realtà, ecc.), stessa autoreferenzialità. Ma così proprio non va.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com