La complessità del WTO a Bali

All’inizio di questo diario avevamo ricordato le manifestazioni di Seattle del 1999 contro il WTO. Ma che fine hanno fatto i no-global? Forse manifestare a Bali è più complicato di Seattle, ma le due ministeriali prima di questa si sono svolte a Ginevra senza proteste degne di memoria. Più in generale, il movimento no-global appare da un pezzo privo di spinta propulsiva. Forse la ragione è da trovarsi nel fatto che sia diventato difficile incasellare in maniera plausibile buoni e cattivi per giustificare una protesta radicale. A Bali questa difficoltà è apparsa evidente. La posizione dell’India che potrebbe far fallire il negoziato si svolge sulla parola d’ordine della “sicurezza alimentare” e lascia intendere che chi si oppone finisce per affamare il subcontinente. Eppure, i paesi più poveri, cosiddetti “meno avanzati” con il solito eufemismo corretto, chiedono invece all’India ragionevolezza e capacità di chiudere un accordo che ha molte misure a loro favore e che consente i programmi di sicurezza alimentare indiana, pur chiedendo una revisione dopo alcuni anni per valutarne gli effetti sull’agricoltura globale. Similmente, persino un’organizzazione “istituzionale” come la Confederazione Internazionale dei Sindacati, interpreta le misure dell’accordo sulle dogane come aggravi per i paesi in via di sviluppo, e chiede perciò che non siano vincolanti, dunque inutili. Eppure, dogane inaffidabili sono fonte solo di corruzione e soprusi, e una loro modernizzazione andrebbe a beneficio delle piccole e medie aziende di tutto il mondo che non riescono a fronteggiare i costi aggiuntivi dovuti all’incertezza e spesso devono pertanto rinunciare a vendere all’estero. Come accade sempre più spesso nell’economia globalizzata, le battaglie di giustizia hanno bisogno di grande attenzione ai dettagli e rifuggono le semplificazioni.

Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_