Attacca il ferro

“Take it to the rim”. È la parola d’ordine sull’asfalto newyorchese. Non cambia col passare degli anni, non cambia col passare degli interpreti, non cambia muovendosi a zonzo tra Harlem e il Queens, tra il Village e il Bronx. “Take it to the rim”, attaccare il ferro: se vuoi giocare a basket sui playground della Grande Mela, scordati gli eleganti tiri da fuori o i passaggi creativi. C’è una sola regola: battere il tuo avversario attaccando il ferro, in penetrazione. Fino in fondo, fino al canestro.

Chiedete a Earl Manigault, “the Goat”, il più grande giocatore di strada mai esistito. Erano gli anni ’60, uno spilungone newyorchese di nome Lew Alcindor, poi diventato Kareem Abdul-Jabbar, lo sfidava regolarmente sull’asfalto della Grande Mela. Diventato il miglior marcatore nella storia della NBA, a Jabbar un giorno chiesero il nome dell’avversario più forte mai affrontato: non Julius Erving, non Larry Bird, neppure Moses Malone. “Earl Manigault”, la sua risposta. Un talento pazzesco, per segnare e per sprecarsi, tra alcool e droghe. Si dice che in una strada di Manhattan ci fosse un canestro appeso al decimo piano di un palazzo. E si dice che un giorno Manigault ci avesse schiacciato.

Vero? Falso? Non chiedete in giro, la risposta è sempre quella: “Se c’era qualcuno capace di farlo, quello era lui”. Manigault saltava che era un piacere, schiacciava in testa ad avversari più grandi e grossi. Aveva un sogno, e cercò fino alla morte di realizzarlo: saltare, schiacciare e violare la legge di gravità che lo reclamava a terra una volta per tutte, fermandosi sospeso a tre metri e zero cinque da terra. Come? Sedendosi sul ferro. Lì su, su quell’anello di acciaio arancione. Che a New York non è un anello d’acciaio come un altro, ma è forgiato a mano, levigato, perché i canestri della Grande Mela nascono così, lavorati singolarmente e poi dipinti: “Come fiocchi di neve: non ce n’è uno uguale all’altro”, spiega John Fitzgerald, che è a capo del gruppo di persone – non più di una mezza dozzina – che ancora oggi producono questi anacronistici dettagli del panorama urbano newyorchese. Anacronistici perché la municipalità da qualche tempo ha iniziato a sostituirli con ferri più leggeri, più moderni e pure meno cari. Arrivando perfino a profanare i templi sacri dello streetball cittadino, i canestri del Rucker Park su a Harlem o quelli di The Cage (nome ufficiale, West 4th) nel cuore del Village.

Qui l’estate capita ancora di vedere impegnata qualche star NBA che vuole tenersi in forma – come faceva Jabbar con Manigault – ma i professionisti vogliono ferri da professionisti, magari sganciabili. Altrove, però, il rigido acciaio forgiato a mano e dipinto d’arancione rimane, a memoria degli anni ruggenti del basket di strada newyorchese, “The City Game”, come nel titolo del magnifico libro di Pete Axthelm. Allora “il Paradiso era un playground” (“Heaven is a Playground”, e la firma stavolta è di Rick Telander), popolato di figure quasi mitologiche, senza nomi ma ricchissime di soprannomi. “The Goat” non era certa l’unico, c’era “Helicopter” e c’era “Fly”, oppure “The Destroyer”, al secolo Joe Hammond. Era lui, in quegli anni, a contendere a Manigault il titolo di re dei playground. Lui che in piena estate arrivava al campo con pelliccia d’ermellino bianca lunga fino ai piedi e due pupe mozzafiato accanto, pronte a svestirlo. Sotto, canotta&calzoncini, e una mano più calda dell’asfalto cittadino.

Non erano ammessi errori di mira, perché erano i rigidi anelli di acciaio di Mr. Fitzgerald & Co. – pronti a far rimbalzare lontano ogni pallone la cui parabola non fosse perfetta – a non permettere il minimo sbaglio. Impossibile segnare? Non per i giocatori di New York, non per Joe Hammond: “Mi allenavo perché i miei tiri non sfiorassero neppure il ferro; un canestro fatto toccando il ferro, per me, non era buono”.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).