Se abolissimo gli stage non retribuiti?

Un articolo di Andrea Kerbaker sulle pagine milanesi del Corriere della Sera mette a fuoco una prassi lavorativa ormai troppo diffusa, quella dello stage non retribuito, e si augura una reazione “contro questa ingiustizia”, che parta magari proprio da Milano, una reazione da “vera capitale morale”. Io a mia volta, forse in modo un po’ ingenuo, mi ero posto la questione circa un anno fa in un mio post, che in parte riprendo.

Negli ultimi mesi poi, nella campagna delle primarie francesi, la socialista Martine Aubry ha proposto con radicalità addirittura l’abolizione degli stage per certe posizioni. La proposta è stata forte e non priva di problemi, ma per qualche settimana ha avuto almeno il merito di far considerare il tema degli stage da un’altra visuale e di porlo al centro del dibattito pubblico.

Certo l’importanza dello stage non va sottovalutata e la sua funzione va affrontata con pragmatismo e senza ideologismi. Per molti giovani rappresenta un validissimo accesso al lavoro e per molte aziende uno strumento utile per formare competenze specifiche e particolari. Lo stage è regolato dalla legge, ma sappiamo anche che troppo spesso ciò che viene chiamato stage è in realtà una pratica che va al ben al di là di quanto previsto dalla legge.

Ognuno di noi sa, per esperienza più o meno diretta, che molte piccole aziende, studi, agenzie, società stanno sul mercato anche perché si approvvigionano con lavoro gratuito e volontario, senza dare in cambio alcunché. Si tratta di una prassi che in primo luogo inquina il mercato, falsa la competizione, indebolisce il sistema nel suo complesso. In questo senso non si tratta soltanto di una pratica ingiusta, ma di una disfunzione, di un problema grave.

Ma dal punto di vista simbolico e direi quasi cognitivo, del senso di realtà che così si costruisce, il problema è ancora più importante:

è giusto e utile considerare normale che i ragazzi passino attraverso il rito d’iniziazione del lavoro volontario e gratuito che porta all’idea che l’impegno personale e le capacità non abbiano valore nel mondo del lavoro?

è utile far passare come “realistica” l’idea che investire su se stessi e sulle proprie motivazioni si trasformi in lavoro gratuito a disposizione delle aziende senza un correlativo investimento da parte loro?

è utile far credere che le motivazioni personali siano un compenso in sé e che una giusta e anche minima retribuzione non sia un atto dovuto ma una concessione?

Come possiamo davvero pensare a una crescita economica e produttiva del paese facendo credere alle generazioni più giovani che non c’è alcun nesso tra la loro voglia di fare, capacità di produrre, impegno ad imparare, sforzo di innovare e la possibilità di un minimo riconoscimento sociale ed economico del loro lavoro?

Che impatto ha a lungo termine, quali costi economici, il misconoscimento dell’importanza simbolica degli anni di ingresso del lavoro? La nostra economia perderebbe qualcosa o ne guadagnerebbe dall’abolizione degli stage gratuiti? L’economia del resto è parte di una cultura più ampia, di modi più complessivi di vedere la realtà. Non sarebbe il caso di cominciare a parlarne?

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.