Infedele negli anni Ottanta

Infidels (1983)

(Il disco precedente: Shot of Love
Il disco successivo: Real Live).

Mark Kopfler è questo signore.

Mark Knopfler è questo signore. Nel 1980 volevamo tutti suonare come lui, e lui voleva cantare come Dylan.

Ma vi immaginate se Mark Knopfler, al colmo del suo successo coi Dire Straits, avesse fatto un disco con Mick Taylor, l’unico chitarrista a uscire vivo dai Rolling Stones? E che oltre al fido Alan Clark alle tastiere, alla batteria e al basso avessero chiamato rispettivamente Sly Dunbar e Robbie Shakespeare, la sezione ritmica più blasonata della Giamaica e non solo, due tra i più grandi innovatori della musica leggera dell’ultimo mezzo secolo? Non sareste curiosi di sentirlo, un disco del genere? Ma forse lo avete già ascoltato, perché un disco del genere esiste, e in più è un disco di Bob Dylan. Si chiama Infidels e uscì nel 1983.

Ero incerto se cominciare il pezzo con Mark Knopfler. Già ai tempi di Slow Train mi stavo ponendo il problema: ma i lettori giovani, i famosi millennials ai quali bisognerebbe cominciare a rivolgersi, lo sanno chi è Mark Knopfler? Possono immaginare che nel 1983 vendesse più dischi di Dylan, e che per la mia generazione fosse più famoso di lui? Nel senso che io, ancora per qualche anno, non avrei avuto la minima idea di chi fosse Dylan: ma Tunnel of LoveRomeo and Juliet, le sentivo alla radio. E So Far AwayMoney for Nothing? Ancora ai tempi di Brothers in Arms io non lo sapevo, chi fosse Bob Dylan. Mentre pensavo a queste cose alla mia finestra è giunto distinto il suono della tastiera di Alan Clark che attaccava Walk of Live, nella birreria sotto casa mia una cover band dei Dire Straits stava facendo le prove per la serata. Ok, forse posso iniziare il pezzo di Infidels con Mark Knopfler. Certo, avrei preferito Cyndi Lauper.

Cyndi_lauper_girls_just_want_to_have_funIn effetti la prima idea era cominciare il pezzo con Bob nella solitudine del suo trealberi, alla deriva nei Caraibi, mentre cerca di scrivere canzoni che non abbiano nulla a che vedere con le canzoni che vanno alla radio in quegli anni. Niente contro il punk o la new wave, ma insomma, Bob Dylan è un maestro, è fuori dal tempo, fuori dalle mode! Ma è anche fuori fase, come spesso gli capita. Si distrae, stappa una bottiglia, prova a sintonizzare la radio di bordo sulla frequenza delle previsioni del tempo – ma l’unica stazione che si sente sta trasmettendo il tormentone di Cyndi Lauper, Girls Just Want to Have Fun. Deluso, spegne la radio e si rimette a strimpellare. Niente da fare, l’ispirazione non viene. Passano i giorni, che alle Antille si assomigliano un po’ tutti. Lentamente, nella testa di Bob cresce un ritornello. Qualcosa di effettivamente nuovo. Qualcosa di effettivamente mai sentito. Non riesce neanche a metterci le parole, dovrà arrangiarsi con un vocalizzo, un uo-o-o-o-o-o, ma perché no? Forse che il grande Bob Dylan non può concedersi un vocalizzo? Così i critici si renderanno conto che riesce a cantare più di tre note in una frase. Ed è un gran ritornello, diciamolo. L’entusiasmo comincia a salire. Bob sa che non dovrebbe, ma a un certo punto decide di farlo sentire a qualcuno – magari al cuoco che gli porta le triglie, ehi, Ramon, senti questo ritornello:

Jokerman dance to the nightingale tune,
Bird fly high by the light of the moon,
Uo-o-oh, oh, oh, Jokerman

E Ramon, inconsapevole: ah sì, boss, piace anche a me quella canzone. E Dylan, improvvisamente riannuvolato: in che senso? La conoscevi già? Ma sì, boss, non è quella di Cyndi Lauper? Uo-o-oh, oh, oh. Si sente dappertutto.

Volevo iniziare il pezzo così, ma poi ho controllato le date. Mi stavo sbagliando. Mentre componeva Infidels Dylan non avrebbe mai potuto ascoltare la versione lauperiana di Girls, che uscì soltanto in settembre – Infidels era già pronto in primavera. Oggi è famoso soprattutto per una canzone che inspiegabilmente non contiene, Blind Wille McTell. Ai tempi fu salutato come un grande ritorno – più o meno come venivano salutati negli anni Ottanta tutti i dischi dei monumenti degli anni Sessanta – e in effetti non era un pasticcio come il disco precedente, né conteneva quelle canzoni a esplicito tema religioso che i critici musicali schivavano come la peste (in realtà, se manca un riferimento esplicito a un Dio, ce ne sono parecchi al suo contendente, Satana). Così, per un po’, Infidels fu considerato il miglior disco degli anni Ottanta di Bob Dylan, quasi una contraddizione in termini.

Dopo i tre dischi cristiani senza il suo sacro volto in copertina, eccone una in cui il 90% della superficie grida: "Bob Dylan" (notate anche quanto è grande il nome rispetto al titolo).

Dopo i tre dischi cristiani senza il suo sacro volto in copertina, eccone una in cui il 90% della superficie grida: “Bob Dylan” (notate anche quanto è grande il nome rispetto al titolo).

In effetti è una cosa che costa fatica accettare: che Dylan sia stato attivo per la maggior parte degli anni Ottanta; che abbia inciso quasi un disco all’anno; che abbia fatto più concerti che nei decenni precedenti, fino a esaurirsi la voce e oltre. Non ha senso, pure è andata così. Sarebbe dovuto andarsene in esilio, come altri dinosauri effettivamente fecero: in attesa che passassero di moda i sintetizzatori e che crescesse una nuova generazione di ascoltatori (e produttori), più rispettosi del bel suono artigianale dei tempi che furono. Dylan e gli anni Ottanta sono due concetti quasi antitetici – è come se a Michelangelo fosse toccato di sopravvivere per tutto il Seicento e passare indenne attraverso il barocco, magari dipingendosi da solo i mutandoni al Giudizio Universale – a Dylan è toccato pure questo.

Egli stesso intuiva di doversi difendere da una scena musicale che non andava, e forse non sarebbe mai più andata, nella direzione a lui più congeniale. In certe fasi si era semplicemente isolato: anche Gesù gli era stato utile in questo. Saved è un disco fuori dal tempo, né Settanta né Ottanta, né nulla. In altri casi aveva provato ad assecondare la corrente, a circondarsi di professionisti e/o giovani. Infidels, ormai lo sappiamo, è l’ennesima fase di un pendolo che dal 1978 oscilla tra due estremi: iperproduzione ed estemporaneità. Street-Legal era stato un disco fin troppo estemporaneo; Slow Train aveva ritrovato il successo anche grazie a una produzione a regola d’arte – ed era stata la prima collaborazione con Knopfler, al tempo un chitarrista dylaniano di belle speranze che aveva appena finito di registrare il suo secondo discoTanta regola aveva finito per stancare Dylan, che in Shot of Love aveva cercato di recuperare un suono grezzo, riuscendoci fin troppo. L’ennesimo flop commerciale gli impone una pausa di riflessione: nel 1982 non pubblica niente, e intanto si rimette in cerca di professionisti in grado di lavorare con lui. Non è che ce ne siano tanti al mondo. Il ritorno di Knopfler – nel frattempo diventato una stella di prima grandezza – può sembrare una mossa scontata: il chitarrista unisce quelle caratteristiche apparentemente antitetiche che Dylan non riusciva a conciliare – è a un tempo un discepolo di Dylan e il suo contrario, ama le strofe debordanti di parole e le improvvisazioni ma è anche un maestro di disciplina in sala d’incisione. Se proprio Dylan doveva incidere dischi negli anni ’80, Knopfler era una mossa quasi obbligata, perlomeno ascoltando Sweetheart Like You la sensazione è un po’ questa: è un Dylan che potrebbe essere la guest star di un brano dei Dire Straits, è un Dylan che si riprende quello che i Dire Straits gli avevano preso in prestito: quella miscela unica di ruvidezza e sentimento, quel machismo timido che se è ben dosato fa sfracelli.


(Quando finalmente il regista riesce a inquadrarlo con gli occhi aperti, non riesce più a staccarsene: Dylan ripreso da vicino è uno spettacolo, fa un sacco di smorfie molto espressive. Puoi capire perché a Hollywood dopo tanti fiaschi qualcuno fosse ancora disposto a dargli una chance per un film).

Eppure a Knopfler Dylan arrivò quasi per ripiego, dopo aver sondato terreni per lui sconosciuti e insidiosissimi: a un certo punto gli sarebbe piaciuto fare un disco con Bowie, un giorno si presentò a casa di Frank Zappa che diplomaticamente tergiversò (ok, conoscendo entrambi sarebbe stato un macello. Ma Zappa era riuscito a lavorare persino con Captain Beefheart: sarebbe almeno stato un macello molto interessante). Con Knopfler, e con la squadra di turnisti più prestigiosi mai messi assieme, Dylan non discusse più di religione, ma lavorò parecchio e bene. I filmati che ci restano ci danno la sensazione che fosse a suo agio – nello stesso periodo faceva fatica a tenere gli occhi aperti davanti ai registi dei suoi primi videoclip. Però poi successe qualcosa che deteriorò il rapporto e la stessa resa finale del disco. Apparentemente, Knopfler non aveva fretta (doveva andare in tour) e Dylan sì: forse non tanto Dylan quanto la Columbia, che senza un disco di Dylan ogni 18 mesi come è noto rischia di implodere su sé stessa. Il risultato non cambia: Dylan, turbato da qualche data di scadenza, si mise a pasticciare coi missaggi e con la scaletta, dando alle stampe un disco molto inferiore a quello che sarebbe potuto essere. È andata davvero così?

In realtà Infidels è meno rappresentativo del Dylan’80 di quanto appaia a prima vista. Per alcuni aspetti rappresenta un’eccezione: il più appariscente è l’improvvisa scomparsa dei cori femminili, che Dylan aveva cominciato a usare in Self Portrait e di cui non si separava dai tempi di Street-Legal. E siccome i cori erano diventati il marchio di fabbrica del periodo gospel, la decisione di farne a meno introduce un segno di netta discontinuità, che ai tempi dovette fare ben sperare (e invece no, Dylan tornerà presto sui suoi passi). Soltanto la voce di Clydie King fa capolino in Union Sundown: Dylan, che forse aveva già avuto una relazione con la futura moglie Carolyn Dennis, a questo punto faceva coppia quasi fissa con la King, con la quale aveva inciso poco prima un intero album di duetti che la Columbia non riteneva commerciabili e non sono ancora saltati fuori (pensate a che roba è saltata fuori: i duetti con la King ancora no). Alla base della decisione di Dylan di avvalersi dei cori c’era tutto un nodo di motivazioni religiose e sentimentali difficili e imbarazzanti da districare, ma prima ancora una relativa sfiducia nei propri mezzi vocali, che BD nutriva dalla fine degli anni Settanta e si eclissa miracolosamente durante le sessioni di Infidels; sarà una coincidenza, ma in Infidels Dylan canta come non cantava da anni. È sicuro, è intonato, è espressivo, non sbaglia un colpo. E in Jokerman ci regala qualcosa che forse non avevamo mai sentito: un vocalizzo nel ritornello. Uo-o-oh, uo-o-o-o-o-o-oh, Jokerman. A proposito di anni ’80. Pensate a che cosa strana è lo Zeitgeist. Nessuno si aspetta che BD debba seguire la moda del momento, anzi. Eppure persino a mille miglia dalla sala d’incisione, nel 1983 sul suo trealberi Dylan finisce per comporre il suo ritornello più anni Ottanta, qualcosa che di lì a poco avrebbe potuto cantare Cyndi Lauper.

Dicevo più su che nel 1983 io non lo sapevo, chi fosse questo Dylan. Quattro anni dopo, quando scese per la prima vera volta in Italia, Videomusic presa un po’ alla sprovvista si mise a programmare intensivamente l’unico video dylaniano che aveva in archivio, o che la Columbia poteva fornire: Jokerman. Io a quel punto sapevo già chi fosse, per via di una ricerca che mi aveva fatto fare il mio prof di musica alle medie. Oltre a qualche cassetta – e al disco di Desire – mi aveva anche prestato una biografia, che però arrivava soltanto fino al 1978: quindi conoscevo Dylan ma non avevo mai sentito gli ultimi dischi. Questo è tipico della cultura scolastica: conosci bene le cose più antiche e nulla sai di quello che ti è successo attorno mentre studiavi. Jokerman comunque mi fece un effetto curioso. In seguito avrei scoperto che era suonata dal gruppo di musicisti più illustri ed eterogenei di cui Dylan si era mai circondato: che quella minuscola introduzione che sembrava reggae era davvero reggae – epperò, senza nessun filtro culturale, già nel 1987 Jokerman mi suonava vecchia (il che era un bene, i suoni del 1987 nel 1987 non mi piacevano). Il video ancor più degli arrangiamenti, sembrava provenire da un mondo parallelo in cui avevano girato videoclip anche negli anni ’60, era una sovrapposizione di immagini legate alle parole del testo che negli anni di massima gloria di MTV sembrava più rudimentale di oggi, quasi una serie di diapositive. Può darsi che sia colpa del video didascalico se non ho mai trovato Jokerman ambigua ed enigmatica come vorrebbe essere: che c’è da capire in fondo? Il Joker è l’essere umano, intrinsecamente infedele e assassino, che ha come soli maestri il Levitico, il Deuteronomio, la legge della giungla e quella del mare. Jokerman comunque era la prova che a un certo punto negli ultimi misteriosi anni Dylan era ritornato in forma. Era moderna ma anche antica, non assomigliava a niente, o forse a Mr Tambourine Man: ecco, c’era una melodia altrettanto balorda e irresistibile, e un testo altrettanto pessimista e ispirato.


(Non riesce letteralmente ad aprire gli occhi per un intero ritornello)

Un’altra eccezionalità di Infidels rispetto al Dylan’80 sono i testi; si tratta in effetti del disco più polemico, più politico dai tempi di The Times They Are A-changin’, il che in piena era reaganiana era tutt’altro che scontato. Qualche avvisaglia di un ritorno alle tematiche sociali si era visto con Street-Legal e soprattutto con Slow Train, dove Dylan riprendeva dai predicatori evangelicali non soltanto il tono profetico, ma un certo sciovinismo tipicamente americano. Se in Saved l’amore per Gesù aveva vinto su ogni cosa, nel momento in cui Gesù passa in secondo piano il conservatorismo di Dylan torna allo scoperto, anche grazie a un paio di prese di posizione scomode, che il nocciolo duro dei suoi fan avrebbe trovato difficile accettare. Di tutti gli argomenti su cui avrebbe potuto soffermarsi, BD sceglie con occhio d’aquila due cause che potevano non sembrare così cruciali, e invece ci stiamo dibattendo sopra ancora 35 anni dopo: la questione israeliana e la globalizzazione economica – e si getta in picchiata con due prese di posizione che non ammettono mezze misure o sovrainterpretazioni: Dylan è sionista in politica estera e protezionista in economia, punto. Non vi piace? Probabilmente nemmeno voi piacete a lui.

Neighborhood Bully è senza sorprese il brano di Dylan preferito dai coloni dei Territori Occupati: è anche il brano che una generazione di attivisti filopalestinesi non riesce a perdonargli. Bastò il testo – e le foto di una visita al Muro del Pianto – per suggerire ai giornalisti un’ennesima conversione che non sarebbe stata nemmeno necessaria (Dylan faceva parte di una setta cristiana che si proclama sionista, e che predica la necessità del ritorno degli ebrei in Israele, condizione necessaria perché scoppi l’Armageddon e il Secondo Avvento abbia inizio) (e nello stesso disco, Man of Peace, un blues sardonico che sembra provenire direttamente da uno dei tre dischi precedenti, ribadisce una visione del mondo che sembra la stessa di quei best-seller evangelicali dove Satana si incarna nel Segretario Generale dell’ONU) (a questo punto della sua storia, stabilire se si sentisse più cristiano o più ebreo sembra un’opzione altrettanto inconclusiva e pettegola di cercare di capire che fidanzata avesse).

Il bullo del vicinato è solo un tipo. / I suoi nemici dicono che è sul loro territorio. / Loro sono un milione, lui è uno solo / non ha nessun posto dove scappare, nessun luogo dove correre […] È stato sbattuto via da ogni terra / Vagabonda per il mondo come un esiliato. / Ha visto disperdere la sua famiglia, la sua gente perseguitata e dilaniata: / è sempre sotto processo per il solo fatto di essere nato… è il bullo del vicinato. / Ha evitato un linciaggio ed è stato criticato, / vecchie dame lo hanno condannato, avrebbe almeno dovuto scusarsi! / Poi ha distrutto una fabbrica di bombe [il reattore nucleare iracheno], e nessuno ne era contento: / le bombe erano per lui, / avrebbe dovuto sentirsi colpevole… è il bullo del quartiere.

Ok, alle mie orecchie europee sembra davvero la tirata di un americano che è andato in vacanza in Israele e si è fatto imbonire senza sospetto da chiunque si sia trovato sulla strada dall’albergo al Muro. Gente che conosce il suo pollo: Dylan ha sempre avuto un debole per i fuorilegge, Israele si può dipingere in molti modi, e anche come una nazione fuorilegge: il Bullo del Medio Oriente. E però questo Dylan indignato per l’ingiustizia continua a sembrarmi il migliore, anche quando la sua causa non è la mia. Ci voleva del coraggio a scrivere Neighborhood, a registrarla, a cantarla in pubblico (quest’ultimo coraggio a dire il vero non risulta: il sito ufficiale registra laconico n. 0 esecuzioni dal vivo. Neanche a Tel Aviv). Nemmeno ai tempi di Hurricane si era esposto tanto, nemmeno ai tempi di George Jackson. Tanto più che il senso di accerchiamento che descrive – e per un attimo condivide – per quanto possa sconfinare nella paranoia è un sentimento effettivamente vissuto da milioni di persone, non solo in Israele.

C’è un cappio al suo collo e un fucile puntato alla sua schiena / e la licenza di ucciderlo è concessa a qualsiasi maniaco […] Non ha nessun alleato con il quale parlare / deve pagare per qualunque cosa faccia, non è mai amato […] È circondato da pacifisti che vogliono la pace / pregano ogni notte perché termini lo spargimento di sangue. / Non farebbero male ad una mosca: / si nascondono e attendono che il bullo cada addormentato. / Ogni impero che l’ha fatto schiavo è morto: / Egitto e Roma, anche l’antica Babilonia. / Ha preso la sabbia del deserto e ne ha fatto un giardino / senza accettare compagni di letto, sotto il comando di nessuno… È il bullo del vicinato.

È buffo, ma mentre si lamentava della fine del made in USA, Dylan si faceva produrre da un inglese un disco suonato da un paio di giamaicani.

È buffo, ma mentre si lamentava della fine del made in USA, Dylan si faceva produrre da un inglese un disco suonato da un paio di giamaicani.

Union Sundown è magari più dura da mandar giù: è uno di quei brani che nascono verso la fine dell’esperienza religiosa, come Lenny Bruce, in cui Dylan sembra rinnegare la sua abilità di paroliere e abbassarsi fino al grado zero della sua scrittura (“sia la vostra parola semplice: se sì, sì, se no, no”). Il risultato è che la sua tirata sulla delocalizzazione sembra declamata da un vecchietto al bar: più parlata che cantata (e allo stesso tempo se provate a rileggerla vi rendete conto che una melodia di base è come se sorgesse spontanea: quasi un blues, ma più risentito che triste). A questo punto potresti anche scuotere la testa e lamentarti che Dylan non è più quello di una volta; che si è rincoglionito ed è già pronto per votare Trump; ma se lo conosci davvero devi ammettere che l’idea di fondo di Union Sundown è la stessa di North Country Blues, scritta quasi vent’anni prima. Anche le parole: magari ora sono arrangiate con meno grazia, ma sono più o meno le stesse. Ora canta “All the furniture it said ‘Made in Brazil’ / Where a woman, she slaved for sure / Bringing home thirty cents a day to a family of twelve / You know, that’s a lot of money to her”; ai tempi di The Times They Are A-changin’ cantava “That it’s much cheaper down in the South American towns / Where the miners work almost for nothing”. È lo stesso Dylan, che parla dello stesso problema, riaffiorante dopo tanti anni come un torrente sotterraneo. Quel che è peggio è che a questo vecchietto al bar non riesci onestamente a dare torto: ok, dare la colpa al programma spaziale è un’esagerazione populista, ma forse che la delocalizzazione non è stata davvero una catastrofe senza rimedi?

E poi tutta questa gente si lamenta perché non c’è lavoro! Ma cosa lo dite a fare quando non possedete più niente che sia fatto in America? Qui non fanno più niente! È che il capitalismo è al di sopra della legge, sapete. Importa solo quello che si vende. Quando una cosa costa troppo costruirla a casa tua, la costruisci da qualche altra parte dove costa meno. È il tramonto dell’Unione, e del made in USA. Sarà stata una buona idea, ma poi l’avidità ha preso piede. Il lavoro che avevi 
l’hanno dato a qualcuno giù ad El Salvador. I sindacati sono un bell’affare, amico mio! Stanno facendo la fine dei dinosauri. Il cibo una volta lo coltivavano in Kansas, adesso vogliono farlo sulla luna e mangiarlo crudo. M’immagino già il giorno in cui anche il giardino di casa tua sarà contro la legge…

Alla base di Union Sundown c’è quel pessimismo sulla natura umana, ingorda e peccatrice che è poi il tema centrale di Infidels, e che riverbera con più autorità e meno livore in Jokerman License to Kill. Questi ultimi due brani sono più universali – più vaghi – chiunque li può cantare e condividere: nel video di Jokerman Ronald Reagan veniva accostato al perfido Joker nemico di Batman, ma lo stesso Reagan avrebbe potuto ascoltare la stessa canzone e trovare un sacco di spunti contro i suoi avversari democratici o comunisti. Union Sundown Neighborhood Bully invece sono proprio le classiche canzoni “a tema”, le “finger-pointing songs” che nel 1965 Dylan aveva deciso di non scrivere più; quelle che rischiano di invecchiare alla svelta, insieme all’argomento su cui puntano il dito. In realtà non è successo – non sembravano particolarmente giovani nel 1983 e non risultano così invecchiate nel 2017. Probabilmente hanno dato sempre la sensazione di essere due brani fuori posto: una sensazione che è in qualche modo determinata dagli arrangiamenti, smaglianti ma indifferenti. È come se Knopfler, Taylor e compagnia stessero glassando la grinta di Dylan sotto uno strato di chitarre impeccabili che proseguono in automatico finché non si abbassa il volume generale del mixer. Sono due prese di posizione più coraggiose del solito, che Dylan, senza mai ritrattarle, cercherà di far dimenticare: anche Union non la suona ormai da 25 anni.

L’opinione comune è che questi due brani sarebbero stati inseriti all’ultimo momento, quando Knopfler era già in tour, al posto di due canzoni molto più interessanti e meritevoli, Foot of Pride e soprattutto Blind Willie McTell: quest’ultima, pubblicata molto più tardi nel primo volume della Bootleg Series, è diventato l’ultimo grande classico dylaniano, la Canzone perduta per eccellenza (anche se ormai è molto più ascoltata e apprezzata di tutti gli altri brani di Infidels). Insomma Knopfler stava pazientemente lavorando al capolavoro dylaniano degli anni Ottanta, un disco che avrebbe avuto come travi portanti Jokerman Blind Willie: ma appena si è allontanato, Dylan ha preso il controllo delle manopole, ha inciso i missaggi provvisori, eliminato il pezzo migliore della scaletta, recuperato un paio di brani fuori tono e… insomma, il solito casino. Dopo Shot of Love, un altro disco che poteva essere un capolavoro, o comunque molto migliore. Knopfler non gli avrebbe rivolto la parola per qualche anno.

Quante volte, nel corso di questa lunga avventura, mi è capitato di scrivere e a voi di leggere la parola “autosabotaggio”? Infidels sarebbe uno dei casi più eclatanti di questa tendenza di Dylan a rovinarsi da solo: perché non ha pazienza, non riesce a riascoltarsi, non vuole lasciarsi ingabbiare, o forse per un difetto di autostima inammissibile ai suoi livelli. Stavolta però davvero qualcosa non mi torna. Anche solo il minutaggio: Infidels è un disco breve per lo standard dylaniano. Appena otto tracce. Non ha senso dire che Union Sundown ha sostituito Blind Willie: ci stavano comodamente entrambe. L’ipotesi più semplice forse è la più ragionevole: Dylan ha tolto Blind Willie perché non ci credeva; non riusciva a vedere la potenzialità del pezzo, che in effetti negli anni Ottanta – e nella versione elettrica suonata da Knopfler, Taylor e soci – rischiava di rimanere glassata come una canzone tra le altre. Blind Willie avrebbe avuto un senso solo quando sarebbe tornato un certo gusto per i suoni acustici


(Se questa è davvero la versione elettrica di Blind Wille McTell che molti considerano migliore all’acustica, c’è qualcosa che non va: qui Dylan a momenti si mette a ridere, in seguito praticamente stecca, l’arrangiamento è soltanto ridondante, insomma: no, non si poteva incidere una cosa del genere. Bisognava ancora lavorarci e Dylan evidentemente non aveva tempo).

Infidels è un disco sulla miseria morale dell’umanità (potrebbe costituire una trilogia dantesca coi due precedenti: Saved è il paradiso della Grazia, Shot è la terra di nessuno, un impossibile Purgatorio protestante). Non esattamente quel tipo di cosa che Sly & Robbie remixavano in quegli anni. Gli arrangiamenti patinati forse non erano i più adatti, ma a tanto tempo di distanza conservano un certo fascino; e quelli estemporanei e fracassoni di Shot of Love non lo avrebbero migliorato. A questo punto della storia Dylan ha quarant’anni di vita e venti di carriera, e poco margine per illudersi sulla possibilità di concepire un altro capolavoro: quelle otto tracce erano il massimo che riusciva a fare nel 1983, e tanto gli bastava. Le ultime due, come in John Wesley Harding, sono le più intime. Don’t Fall Apart On Me Tonight è una lontana cugina di Baby, Stop Crying, con cui condivide una lieve insofferenza per le intemperanze di partner forse ormai un po’ troppo giovani ed emotive. Come finale lascia in bocca un sapore troppo dolciastro; un’ipotesi di cosa sarebbe potuto diventare Dylan se negli ’80 si fosse abbandonato alla corrente dell’easy listening per la mezza età – magari sarebbe diventato un personaggio alla Phil Collins, anche simpatico: se non è successo forse dobbiamo ringraziare il suo pessimo carattere e le sue scelte autolesionistiche. I And I sarebbe stato un finale più amaro, un misterioso momento di introspezione che ricorda un poco Dirge: una passeggiata notturna (che si protrae oltre mezzogiorno), mentre nella sua camera una ragazza dorme il sonno dell’innocenza – un sonno che Dylan sente di non poter condividere. “Io e io, nella creazione dove la natura non riserva né onore né perdono. Io dice a io: nessuno riesce a vedere il mio volto e sopravvivere”.  Quel che si capisce è che Dylan si sente solo, in un mondo in cui tutti gli devono qualcosa ma è lui quello sempre indietro con le scadenze. “Ho fatto scarpe per tutti, anche per te: e vado ancora in giro scalzo”. Un altro giro, un altro disco. Qualcos’altro si sarebbe inventato. Non un capolavoro, no. Soltanto un altro disco.

(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983: Infidels, 1984: Real Live).

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.