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  • Mercoledì 16 febbraio 2022

Steven Bradbury, l’ultimo rimasto in piedi

Nel 2002 un incredibile minuto e mezzo rese famoso in tutto il mondo un pattinatore olimpico australiano, intorno al quale nacque una specie di culto

(Steve Munday/Getty Images)
(Steve Munday/Getty Images)

Il pattinaggio short track è una disciplina dove l’alta velocità degli atleti e la lunghezza ridotta della pista (110 metri) rendono facilissimo scontrarsi e in cui, oltre al valore tecnico e atletico di chi gareggia, il caso finisce per giocare spesso un ruolo determinante. Nello short track è piuttosto comune che uno o più atleti cadano. Eppure, la storia di come Steven Bradbury vinse l’oro alle Olimpiadi di Salt Lake City – il 16 febbraio 2002 – resta ancora clamorosa, spettacolare e unica. Quella vinta vent’anni fa da Bradbury fu la prima medaglia d’oro australiana nella storia delle Olimpiadi Invernali e, secondo qualcuno, una delle più fortunate vittorie della storia olimpica.

All’inizio della sua carriera, Bradbury era considerato un pattinatore piuttosto promettente. Nel 1994, a 21 anni, aveva già ottenuto tre medaglie ai Mondiali di short track – sebbene tutte in gare di staffetta – e un terzo posto alle Olimpiadi Invernali di Lillehammer, in Norvegia, sempre in una gara in staffetta. Poi, nel 1994, durante una gara di Coppa del Mondo, ebbe un gravissimo incidente con altri pattinatori durante la gara: come raccontò lui stesso, «uno dei loro pattini mi trapassò il quadricipite da parte a parte. Mi dovettero mettere 111 punti, e persi quattro litri di sangue».

Si riprese, tornò a buoni livelli e nel 1998 gareggiò alle Olimpiadi Invernali di Nagano, in Giappone. Andò male: fu coinvolto in scontri con altri pattinatori nelle batterie dei 500 e dei 1.000 metri individuali e uscì subito; la staffetta, i cui componenti erano per tre quarti quelli che avevano vinto il bronzo quattro anni prima, arrivò ultima nella finale B, quella che serve a determinare le posizioni dalla quarta in poi. Due anni dopo, nel settembre del 2000, Bradbury ebbe un altro brutto incidente, stavolta in allenamento: batté la testa contro il bordo della pista, si ruppe il collo e due vertebre.

Alle Olimpiadi di Salt Lake City, organizzate nel 2002 negli Stati Uniti, Bradbury arrivò da atleta praticamente finito, con due gravissimi infortuni alle spalle e anni di risultati mediocri. Si iscrisse comunque a tutte e quattro le gare per atleti di short track: staffetta a squadre, 500, 1.000 e 1.500 metri individuali. Partecipò alla gara dei 1.000 metri e vinse la propria batteria: ai quarti di finale, però, arrivò terzo e sulle prime venne eliminato: nello short track, infatti, passano sempre i primi due classificati (si corre al massimo in sei, data la limitata larghezza del tracciato). Ma il canadese Marc Gagnon, che era arrivato sette decimi avanti a lui, fu squalificato: Bradbury fu così ripescato in semifinale.

Nella semifinale, che si disputò lo stesso giorno dei quarti, Bradbury partì malissimo. L’allora commentatore della RAI Franco Bragagna, dopo appena una curva della gara commentò: «fuori dalla lotta, quasi certamente [c’è] solo Steve Bradbury». Bradbury racconta che la sua strategia era stare dietro e «aspettare che qualcuno facesse un errore o che ci fosse uno scontro». Accaddero entrambe le cose: il coreano Kim Dong-Sung, che era secondo, durante l’ultimo giro perse l’equilibrio in seguito a un contatto e finì a bordo pista. Nel rettilineo finale, quando Bradbury era ancora al quarto posto, il giapponese Satoru Terao scivolò e si tirò dietro il canadese Mathieu Turcotte. Da ultimo che era, Bradbury si ritrovò a entrare in finale come secondo.

Bradbury, comprensibilmente, arrivò in finale senza grandi speranze di ottenere una medaglia. Lui stesso, in un’intervista all’edizione australiana del Daily Telegraph, raccontò qualche anno fa cosa aveva pensato prima e durante la finale:

«Speravo soltanto di trovare un’energia inaspettata nelle mie gambe, ma ero piuttosto scettico a riguardo: ero il più vecchio di tutta la competizione. Devi correre quattro gare in due ore e ti fanno fare solo mezz’ora di pausa. Non era realistico, per me, fare quattro gare in quel lasso di tempo. Non ero più nel fiore degli anni. Non avevo più le capacità di recupero di un tempo»

Bradbury raccontò che anche in finale adottò la stessa strategia della gara precedente: «me ne stavo fuori dal gruppo, aspettando che gli altri facessero degli errori. Speravo di ottenere una medaglia». Durante la finale Bradbury restò dietro, ultimo, fin dall’inizio della gara. Ma anche stavolta all’ultima curva dell’ultimo giro successe qualcosa: Bradbury era indietro di qualche metro rispetto ai primi quattro quando il cinese Li Jiajun, che era terzo, inciampò dopo un contatto con l’americano Apolo Anton Ohno. Jiajun andò a sbattere contro il bordo della pista.

Cadendo, però, Li toccò con la mano sinistra il pattino destro del coreano Ahn Hyun-Soo, quello con la tuta gialla, che rimase in piedi per una frazione di secondo prima di andare a sbattere contro Ohno, che gli stava davanti. Il canadese e numero 319 Mathieu Turcotte, che stava arrivando poco dietro, se lo ritrovò fra i piedi. Cadde anche lui.

(Mike Hewitt/Getty Images)

Bradbury era così indietro che quando passò nel tratto dello scontro i suoi avversarsi erano già scivolati a bordo pista. Negli ultimi metri, quando capì di aver vinto, sembrò persino rallentare. Era l’unico rimasto in piedi, di nuovo: vinse la medaglia d’oro.

(Clive Mason/Getty Images)

Ohno e Turcotte riuscirono in qualche modo a rialzarsi e arrivarono rispettivamente secondo e terzo. Bradbury disse: «Non ero sicuro se avessi dovuto festeggiare oppure andare a nascondermi in un angolo». Nelle interviste date poco dopo la gara insistette sul fatto di considerarsi «l’uomo più fortunato del pianeta» e di «avere sentimenti contrastanti» riguardo all’aver vinto in questo modo». Moltissimi media internazionali parlarono di lui e della sua storia.

Nel corso delle stesse Olimpiadi, Bradbury partecipò ad altre tre gare: fu eliminato in batteria nei 1.500 metri e nei quarti di finale dei 500.

Bradbury, nei 1.500 (AP Photo/Roberto Borea)

Nella gara di staffetta, la squadra australiana arrivò sesta su sette squadre partecipanti. Quattro giorni dopo la vittoria nei 1.000 metri, le poste australiane dedicarono a Bradbury un francobollo in cui posava con la medaglia. Alla fine delle Olimpiadi, Bradbury si ritirò dall’attività agonistica.

Dopo quel suo sorprendente oro olimpico, Bradbury ha fatto un sacco di cose: ha commentato le Olimpiadi Invernali per la tv australiana, ha pubblicato un’autobiografia intitolata Last Man Standing (“L’ultimo uomo rimasto in piedi”), ha partecipato alla versione australiana di “Ballando con le stelle” e ha corso diverse gare automobilistiche dei circuiti australiani. Come raccontò lui stesso, era diventato così popolare che, quando nel 2004 fece un viaggio in Norvegia, veniva fermato «in continuazione, per una foto o un autografo».

Bradbury iniziò anche a fare lo speaker di discorsi motivazionali nei quali descriveva la Never-Give-Up-Attitude (“L’atteggiamento di chi non molla mai”). Il suo sito ufficiale, su cui si presenta anche come comico, racconta con grande dettaglio questa sua attività e permette di contattarlo perché partecipi a eventi di vario tipo.

Nel frattempo “doing a Bradbury” è diventata un’espressione gergale, in Australia e nel linguaggio sportivo più esteso: secondo Urban Dictionary significa «vincere in seguito a circostanze miracolose». Più in generale, Bradbury è diventato oggetto di una strana ammirazione e popolarità, sia fra quelli che credono sia stato una sorta di “vincitore per caso” sia fra quelli che lo ammirano per “non avere mollato mai” (ma anche questo è controverso: si potrebbe dire invece che Bradbury ha “mollato subito”, e ha sperato che le cose per lui funzionassero comunque).

Ancora nell’intervista al Telegraph, Bradbury raccontò di essersi spiegato così quella sua vittoria:

«Tra chi ha successo nel suo campo, nessuno appare un paio di settimane prima di ottenere un grande risultato. Non esiste. Vale anche per me. L’ho già detto in passato: non ho vinto la medaglia d’oro per quel minuto e mezzo di gara, ma per i dodici anni di carriera che mi hanno portato fino a quel minuto e mezzo»

Questo, invece, è Steven Bradbury oggi, vent’anni dopo quel suo oro olimpico.

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