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  • Mercoledì 6 maggio 2020

Il caso Di Matteo, spiegato

Da giorni uno dei magistrati più controversi in Italia accusa con un certo clamore il ministro della Giustizia, sostenendo che due anni fa gli negò una promozione dopo le lamentele di alcuni boss mafiosi

(ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
(ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

Negli ultimi giorni si è sviluppata una estesa polemica fra uno dei magistrati antimafia più famosi e controversi in Italia, Nino Di Matteo, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Di Matteo ha accusato pubblicamente Bonafede di avergli negato nel 2018 un prestigioso incarico al ministero della Giustizia per via di alcune pressioni ricevute da boss mafiosi, che si sarebbero lamentati dell’eventuale nomina. In sostanza Di Matteo ha lasciato intendere che Bonafede sia stato condizionato nella sua valutazione più dal parere di un gruppo di mafiosi, che dai meriti o demeriti di Di Matteo.

Del caso si sono occupati tutti i giornali, per varie ragioni: sia per la gravità delle accuse rivolte a Bonafede, in carica ancora oggi, sia per i tempi e i modi con cui Di Matteo ha avviato la polemica – dopo due anni, in diretta su una tv nazionale – sia per le sue conseguenze politiche. Da anni inoltre Di Matteo è considerato molto vicino al Movimento 5 Stelle, di cui Bonafede è uno dei leader più noti, e la polemica ha creato due fazioni distinte all’interno del principale partito di governo.

La versione di Di Matteo
Tutto è iniziato domenica 3 maggio durante il talk show Non è l’Arena, condotto da Massimo Giletti e trasmesso da La7. Durante un dibattito sulla concessione degli arresti domiciliari ad alcuni mafiosi in precarie condizioni di salute per timori legati alla diffusione del coronavirus – causati anche dal noto problema del sovraffollamento delle carceri – alcuni degli ospiti avevano citato Nino Di Matteo come possibile nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), il dipartimento del ministero della Giustizia che sovrintende la gestione delle carceri, a causa della sua vicinanza al Movimento 5 Stelle. Pochi giorni prima, infatti, il capo del DAP Francesco Basentini si era dimesso sia per la polemica sulla concessione dei domiciliari ad alcuni mafiosi sia per le rivolte in carcere avvenute nelle prime settimane dell’epidemia, e che hanno portato alla morte di almeno 13 detenuti.

Di Matteo ha 59 anni, si occupa da tempo di inchieste sui legami fra mafia e politica e vive sotto scorta dal 1993. Oggi lavora come consigliere del Consiglio superiore della magistratura, ma per anni si è occupato della presunta trattativa Stato-Mafia, una controversa tesi secondo cui all’inizio degli anni Novanta alcuni alti funzionari dello Stato avrebbero trattato con i capi di Cosa Nostra per interrompere la cosiddetta “stagione delle stragi”.

Di Matteo è convinto dell’esistenza della trattativa – messa in discussione da diversi storici e anche da molti processi – e più in generale della collusione di ampi pezzi della politica italiana con le principali associazioni mafiose. Di Matteo fa anche parte della corrente della magistratura che chiede il mantenimento di pene durissime per i mafiosi, fra cui il regime previsto dall’articolo 41 bis della legge 354/1975, che prevede detenzioni a condizioni ritenute più volte lesive dei diritti umani dal Consiglio d’Europa. Per il suo attivismo pubblico e le sue posizioni è stato spesso considerato vicino al M5S.

Poco dopo essere stato associato al DAP durante Non è l’Arena, Di Matteo ha telefonato alla trasmissione e in diretta tv ha raccontato che due anni prima Bonafede gli aveva offerto di guidare il dipartimento, salvo poi cambiare idea e nominare Basentini.

Nel giugno del 2018 […] venni raggiunto da una telefonata del ministro Bonafede, il quale mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo del DAP o in alternativa quello di direttore generale degli Affari penali. Chiesi 48 ore di tempo per dare una risposta. Nel frattempo alcune note informazioni che il gruppo operativo mobile (GOM) della polizia penitenziaria aveva trasmesso alla procura nazionale antimafia – ma anche alla direzione del DAP, e quindi penso fossero conosciute dal ministro – avevano descritto la reazione di importantissimi capimafia, legati anche a Giuseppe Graviano e altri stragisti, all’indiscrezione che potessi essere nominato capo del DAP. Quei capimafia dicevano: “se nominano Di Matteo è la fine”.

Il primo governo Conte, appoggiato dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, si era insediato da meno di un mese e Bonafede stava evidentemente scegliendo alcuni dei suoi principali collaboratori. Per quanto riguarda i due ruoli offerti, Di Matteo ha aggiunto che Bonafede gli disse «scelga lei».

Di Matteo ha raccontato che due giorni dopo aver sentito Bonafede al telefono, lo incontrò al ministero della Giustizia spiegandogli di aver deciso di accettare la nomina a capo del DAP. A quel punto, secondo la sua ricostruzione, Bonafede gli disse «improvvisamente» che ci aveva ripensato, chiedendogli invece di accettare l’incarico da direttore generale degli Affari penali: un ruolo «di sott’ordine», ha detto Di Matteo durante il suo intervento a Non è l’Arena. Il giorno successivo, durante un altro incontro con Bonafede, Di Matteo rifiutò l’incarico.

Nelle interviste e nei retroscena pubblicati dai giornali nei giorni successivi, Di Matteo ha rincarato la dose. A Repubblica ha detto di «essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale». In un articolo della Stampa, che contiene alcune sue conversazioni con «amici», Di Matteo si dice «preoccupato per un ministro che in un momento così delicato e con un magistrato così esposto si lascia convincere e torna indietro» nella sua decisione.

Cos’ha risposto Bonafede
Il ministro della Giustizia ha telefonato a Non è l’Arena poco dopo Di Matteo, dicendosi «esterrefatto» e respingendo tutte le accuse di avere preso una decisione perché condizionato da un gruppo di mafiosi. In un post su Facebook pubblicato il giorno dopo, ha fornito una versione leggermente diversa da quella di Di Matteo.

Bonafede ha scritto che le lamentele di un gruppo di mafiosi per la presunta nomina di Di Matteo a capo del DAP «erano già presso il Ministero da qualche giorno», e che addirittura Bonafede ne parlò a Di Matteo nella prima telefonata in cui lo informava di volerlo assumere. Alla fine del primo incontro fra i due, inoltre, Bonafede sostiene che Di Matteo avesse praticamente accettato l’incarico di direttore del dipartimento degli Affari internazionali e della cooperazione giudiziaria – che in gergo viene chiamato degli Affari penali perché si occupa perlopiù di diritto penale – cioè un sotto-dipartimento del Dipartimento per gli affari di giustizia, uno dei quattro in cui è diviso il ministero.

Il giorno successivo Di Matteo incontrò nuovamente Bonafede, dicendogli che aveva cambiato idea (sempre secondo la ricostruzione di Bonafede). A quel punto, scrive il ministro su Facebook, «con profondo rammarico gli spiegai che dopo l’incontro del giorno prima avevo già assegnato quell’incarico a un altro magistrato. Ricordo perfettamente che gli dissi che sarebbe stato comunque “la punta di diamante del Ministero contro la mafia”. Lui ribadì legittimamente la sua scelta. Ci siamo salutati entrambi con rammarico per non aver concretizzato una collaborazione insieme».

Le presunte pressioni su Bonafede
Nel suo intervento a Non è l’Arena e nelle successive interviste, Di Matteo ha precisato che proprio a giugno del 2018 seppe dell’intenzione di alcune persone detenute secondo il regime del 41 bis di opporsi alla sua nomina al capo del DAP. «Mi chiamarono da Roma dei colleghi per dirmi che c’era una cosa molto brutta che mi riguardava», ha raccontato a Repubblica.

L’agenzia Adnkronos ha riportato che – secondo alcuni fonti giudiziarie – a inizio giugno ci furono due occasioni in cui importanti boss mafiosi avrebbero parlato della possibile nomina di Di Matteo. Nella prima sarebbero coinvolti un boss della camorra, Ferdinando Autore, e un boss di un gruppo mafioso della Sicilia interna, Carmelo Dominante. Il 2 giugno 2018 alcune guardie carcerarie avrebbero sentito Autore commentare un ritaglio di giornale che parlava della possibile nomina di Di Matteo, dicendo: «Questi ci vogliono di nuovo chiudere come i topi. Qui c’è scritto che vogliono fare a Di Matteo capo delle carceri, chisti su pazz».

Nella seconda occasione, il boss di Cosa Nostra Carmelo Lupo avrebbe detto a un sottufficiale della polizia penitenziaria: «Appunta’, ha visto che come capo del Dipartimento pensano a Di Matteo? Che vogliono fare? Stringerci ancora di più? Già siamo stretti, più di così non lo possono fare».

L’Adnkronos riferisce inoltre che – sempre secondo fonti giudiziarie – una delegazione di 57 persone detenute secondo il 41 bis avrebbe chiesto di incontrare il presidente del Tribunale di sorveglianza (non è chiaro di quale città). L’incontro è avvenuto, scrive Adnkronos, ma «non si sa» se l’argomento della conversazione sia stata la possibile nomina di Di Matteo, né si ha notizia di ulteriori presunte pressioni dei detenuti.

Com’è finita
Dopo la telefonata di Di Matteo l’opposizione ha chiesto le dimissioni di Bonafede, che secondo Repubblica nei prossimi giorni potrebbe difendersi anche in Parlamento dalle accuse di Di Matteo. Nel frattempo la divisione politica riguarda soprattutto il Movimento 5 Stelle.

I tre componenti del Consiglio superiore della magistratura indicati dal partito (Alberto Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti) hanno attaccato Di Matteo, scrivendo in un comunicato che «I consiglieri dovrebbero più di chiunque altro osservare continenza e cautela nell’esprimere le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni».

Diversi altri dirigenti del partito hanno difeso il ministro, mentre altri – come il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra e il parlamentare europeo Ignazio Corrao – hanno diffuso dichiarazioni a sostegno di Di Matteo. Marco Travaglio – direttore del Fatto Quotidiano, il quotidiano più vicino al Movimento 5 Stelle – ha parlato di «un colossale equivoco fra due persone in buona fede».

Rimangono diversi punti ancora poco chiari. Per esempio, non è chiaro perché Di Matteo abbia aspettato due anni per riferire ai giornali del suo «equivoco» con Bonafede: potrebbe avere aspettato le dimissioni di Basentini, oppure la decisione del governo sul nuovo capo del DAP, arrivata poche ore prima del suo intervento a Non è l’Arena (Bonafede ha deciso di nominare Dino Petralia, attuale procuratore generale di Reggio Calabria). Non è nemmeno chiarissimo se effettivamente una delegazione di detenuti sottoposti al regime previsto dal 41 bis abbia fatto pressioni per sventare la nomina di Di Matteo.

Sul Corriere della Sera di oggi, Giovanni Bianconi ha scritto che Bonafede dovrebbe chiarire per quale motivo ha deciso di ritirare l’offerta fatta a Di Matteo di dirigere il DAP.

«È possibile che la repentina marcia indietro del ministro su Di Matteo sia dovuta a qualche consiglio arrivato nel breve intervallo tra la prima e la seconda proposta, come ipotizzato dallo stesso magistrato. Ma pure in questo caso, visto che ormai l’episodio è stato squadernato in diretta tv, sarebbe meglio dirlo. Senza necessità di svelare altri particolari. Un ripensamento, autonomo o indotto, non è motivo di scandalo. Basta essere chiari».